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SEMIRAMIDE

 

di

 

ANTON GIULIO BARRILI

 

 

 

 

A GEROLAMO BOCCARDO

Non perchè vai meritamente famoso tra i migliori ingegnid'Italianon perchè si ha conforto di vanità a mostrarsi in dimestichezza coisommima perchè nella tua grandezza sei buonoma perchè io t'amo come unfratellointitolo a te questo frutto delle mie più liete fatiche.

Uomini giunti in altoche sappiano e vogliano esser liberalid'aiuto ai minorice n'ha pochipur troppo. Ioper menon ne conosco cheunoil qualegià illustre per virtù sua e per consenso universales'èpigliata un giorno spontaneamente la molestia di volgersi indietrofarsipatronoanzi guida amorevolead un suo giovane concittadinoe bandirne ilnome fuor della cerchia ristrettaquantunque caradella sua terra natale.

A te son debitore di tanto. Quel po' di benevolenza che ilmio nome ha raccoltomi deriva dal tuo patrocinio. Auguroa più degni di mevalentuomini che seguano il tuo nobile esempio. E a costorogratitudine pari aquella che nutre per te il tuo

Di Genova 1.° settembre 1873.

ANTON GIULIO BARRILI.

 

 

 

 

SEMIRAMIDE

 

CAPITOLO PRIMO.

 

ALLE PORTE DI BABILU.

 

Sulle rive dell'Eufrate si stende un'ampialieta e ubertosacontradail cui nome è Sennaar tra i figli di Cuspingue d'armentidi biadee d'ogni maniera dovizieversate a piene mani sovr'essa dal possente Iddiodelle acquepoich'ebbe mutate in doni di fecondità le sue ire devastatrici.

Quivia mezzo il corso del gran fiumesorge una cittàlapiù vasta che il mondo abbia veduta maiedificata da Nemrodfiglio di Cuspotente cacciatore nel cospetto di Neboinsieme colle genti scampatedall'acqueprima chea guisa di rena travolta dal turbinesi sperdesserosulla faccia della terra. Però il nome suo fu Babiluche significa la porta diIluil dio del diluvioe la sacra città si restrinse da principio sullasponda destra del fiumeintorno a Barsipala gran torre delle lingueche gliedificatori suoi aveano lasciata a mezzoconfusamente favellandosbigottitidal tremuoto e dalla folgore. Così Neboil Dio che genera sè stessoildominatore che comanda alle legioni del cielo e della terraaveva custodital'azzurra sua sede contro le audaci imprese dei figli dell'uomo.

Quindici età sono di poco trascorse sotto la grand'ala diNisroce già l'ampliata Babiloniatempio e dimora de' sommi Deisi estendesui due lati del fiumecui sembra ella stringere tra le braccia amorosecomegiovine donna lo sposo che la ricolma d'ebbrezza. A lei non ardisce paragonarsiNinivepur dianzi edificata da Assurla quale attenderà lungamente ancora ilsuo Tiglat Pileseril fortunato monarca che la porrà a capo del grande imperod'Assiria. Sipparal'antidiluvianaUr de' CaldeiLarsaCalneh ed Erechdense di popolofelici di arti e di traffichinon risplendono intorno a leiche come i pianeti intorno al sommo datore di vita e di luceil cui tempio e ilsimulacro ella accoglie nel suo venerato recinto.

E quisotto lo scettro poderoso dei discendenti di Nemrodsi raccolgono quattro schiatte; i Sumir aspro favellanti; gli Accad gelosicustodi della scienza arcana de' cieli; i Turani discesi al piano per mezzo alletribù fraterne dei Medi; gli avanzi della stirpe di Semcacciata più sudalconquistatore cussitaa metter dimora sulla terra di Nahraim. Nè solo la vastapianura obbedisce al glorioso popolo di Kiprat Arbato delle quattro favelle;anche sulle alturee per le chine di là dai montiil valore di Nino estesel'imperio di Babilu; e pur dianzila fortuna di Semiramide spaziò dal lido diTiro alle convalli della Bakdianadalla terra degli aromi cui bagna l'Eritreofin oltre alle sorgenti dell'Eufrate e del Tigri. Curvarono il capo le vintenazioni; i principi lontani furono astretti a tributo.

I più tra costoro lo pagavano di buon grado. Scendevano essiriverenti e stupiti a Babiloniacome alla città sacra dominatrice del mondo.Era così maestosa la dimora de' sommi Dei! Ed era così splendida la reggiadella gran vedova di Nino! Omaggio prestato a donna non umilia i nati di donnae Semiramideper la sovrumana venustà delle formepiuttosto accresciuta chescemata dal corso degli anniappariva cosa di cieloanzi che frutto di mortaleconnubio. E inveronon tanto per cingere d'una poetica nube un oscuro natalequanto per aggiunger luce ad una bellezza che facilmente si potea creder divinai sacerdoti di Barsìpa avevano letto negli astri esser costei la figliuola diDercetodella gran dea d'Ascalonafin da quel giorno che Ninoperdutamenteinvaghito di leila tolse al primo maritoper farla regina del suo cuorearbitra e donna del più gran trono della terra.

Ed ella oramaiestinto il consorteregnava solatemuta efelice. A' suoi cenni la città s'era ampliatacinta di muraornata disontuosi edifizi. Due milioni d'uomini avevano lavorato per lei; gli uni ascavare il suologli altri a foggiare in mattoni l'argilla smossaaltri ancoraa trarre il bitume dalla vicina terra di Is. Anzitutto s'innalzan le muraampievalide alla difesa e maravigliose alla vista. Nivitti Belil recintointernoè lungo trecento sessanta stadiialto cinquanta cubitilargodiciotto; Imgur Belil baluardo esternogira quattrocento ottanta stadiisileva novanta cubiti sull'ampia fossa che lo circondaesullo spalto dicinquanta che lo incoronasorge una doppia fila di torriper mezzo alle qualiè libera la via ad una quadriga scorrente. Queste murane' cui fianchi siaprono cento porte di bronzoson di mattoniuna parte acconciamentedisseccatil'altra cotti in fornace; e ad ogni trenta strati di mattonis'alterna uno spesso graticciato di canneintrise nel bitumesporgenti oltrela superficie del murodi guisa che la rossiccia mole appare da lontanovagamente listata di nero.

Il biondo Eufrate scorre nel mezzo; epperò le muragiunteal confine dell'acquesi volgono ad angolosi rimpiccioliscono es'assottigliano in forma di parapettilunghesso i margini bastionati del fiumesu cui vengono a mettereper altrettanti sbocchile vie della cittàampie edirittetutte a riscontro delle cento porte di bronzo. Sui lati di queste viefrequenti di popolosi alzano le case a tre o quattro pianispaziosenoncontigue tra loroma frammezzate da giardini e da piazze. Sulla riva destra èla città sacerdotalecol suo tempio di Beloalta piramide di sette pianidipinti dei sacri colori delle sette luci della terradalla cui cima Beloilgran dio di Babiloniacontempla la sua diletta città. Sulla riva sinistra èla reggiachiusa da un muro ornato di stupende pitturesormontata da terrazzie pensili giardini. Congiunge le due rive un pontelungo cinque stadiisorretto da pile profondamente piantate nell'alveo dell'Eufrate. Son esse dipietre strettamente congiunte da ramponi di ferrosaldati col piomboe lefacce esposte alla correntìa del fiume appaiono stagliate ad angolo acuto. Ilponteventi cubiti largoè un tavolato di cedri e cipressisostenuto daenormi tronchi di palma.

Tanto ha potuto far Semiramideed altro ancorachè bracciadi manovali non potevano mancare alla conquistatrice della Fenicia e dellaBakdianadonde eran venute dietro al suo cocchio di guerra così lunghe filed'incatenati prigioni. In quella guisa che le mura della cittài templiigiardininarrano la sua magnificenza ai venturil'Eufraterattenuto da arginipoderosi pel corso di molte giornatea giuste distanze sviato in ampii canalinavigabilipartito in migliaia di rivi a benefizio dei campiaddimostra lecure sapienti della regina per la felicità del suo popolo. Epperò ella potràsenza menzognascrivere lungo le mura della sua reggia questi nobili vanti:

"La natura mi diè forme di donna; ma le mie gestem'hanno agguagliata al più forte tra gli uomini. Io tenni sotto la mia leggel'impero di Ninoil quale non è conterminato ad oriente che dal fiume Indoamezzogiorno dalle regioni dell'incenso e della mirraa settentrione daiSogdiani e dai Saci. Prima che io fossiniuno dei Babilonesi avea visto ilmare; io quattro ne vidie così lontaniche il giungervi non era dato adalcuno. Costrinsi i fiumi a correre dov'io volli; nè il vollise non dovetornasse utile alle mie genti. Fecondai le sterili pianure; murai cittadelleinespugnabili; tra roccie impraticabili apersi sentieri col ferro; ampie stradesi schiusero ovunque io passaie i miei carri sonanti trascorsero dove purdianzi duravan fatica le fiere. E tra queste opererinvenni ancora il tempo daconsacrare ai sollazziagli amici."

Così posava la regina dalle aspre fatiche di guerratra lesplendidezze della sua città e le dovizie che versavano ogni giorno a' suoipiedi la natura e l'industria delle soggette nazioni. Per lei l'Arabia felicestillava gli aromi; per lei Tiro intesseva i candidi lini e li tingeva nei piùvividi colori della porpora; per lei la Media educava i cavalli veloci come ilventoe l'India i poderosi elefanti. Era il secol d'oro per la stirpe degliAccadinnanzi che scendessero alle prime vendette i figli di Javanprodi inarmi e numerosi nei troppo ristretti confiniche per poco ancora dovean mordereil freno della servitùmentre il loro Zerdusteil principe dalla menteprofonda e dallo sguardo acutoospite tributario della fortunata reginainvanotentava di piacere alla donna.

Ma la nube precorritrice delle tempeste non era anche apparsasul limpido cielo di Babilonia; vigilavano ancora a sua custodia i sommi Dei;Iluil gran numesenza tempionè altaripoichè la città stessa eral'altaree tempio tutta la grande pianura fecondata da lui; Neboil signoredella volta azzurra; Beloil dator della luce; Aoil pesce dioche recò laprima civiltà dai flutti del mare; Sinil rischiaratore delle notti; Milittao Dercetoo Reasecondo i luoghila Venere genitricela gran madre dallecento mammelleil cui sacro bosco e i riti notturni chiamavano a Babiloniaadoratori in gran numero.

E la terra di Sennaar tutti liberalmente nutrivanon menoferace di quella che il gran Nilo inonda delle sue piene; imperocchè vicresceano spontanei la palmail melagranol'orzo ed il sesamo; il granorendeva duecento volte la sementetalfiata anche trecentoe la mèsse ognianno era doppiacome sulla terra di Mesraim. Lunghesso l'Eufrate vorticosoicui margini erano continuamente solcati da carri pesantispaziava una pianuracosì vastache l'occhio non poteva misurarne i confinitutta biondeggiante dibiade alla vampa del sole. Di tratto in trattocome isole sorgenti dall'aureomare delle mobili spiches'innalzavano con agili tronchi le palmesi piegavanoad ombrello su popolosi villaggicomposti di case tondedalle pareti di legnodai tetti conici e dalle porte alteintonacate di bitume. Erano esse le dimoredei coloni e dei manovali. Quelle dei capi loroi pubblici edifizii templidegli Deisi ravvisavano agevolmente alla forma quadrangolarealla costruzionein mattoniora soltanto disseccatiora cotti al fuoco e smaglianti per unadensa vernice d'un verde carico. Le cittàdisseminate sul pianosi scorgevanoin lontananzacoi loro alti terrazzi biancheggianti e le loro torri massicce avasti ripiani. Il verde vivo dei colti e dei pascoli appariva rotto qua e là dainnumerevoli linee biancastreargini dei cento canali derivati dall'Eufrate econdotti a metter foce nel Tigri; liquidi sentieri su cui viaggiavanorapidesiccome la corrente volevaportando carichi di grano e di fruttequelle barchea foggia di scudointessute di viminicoperte di cuoio e spalmate di asfaltoche poigiunte alla metaerano disfatteevenduta l'armatura di legnoilnocchiero se ne tornava pedestrecon le sue pelli sul capoo sulla groppa d'unsomieroportato seco nella barcafino al villaggio lontano. I viandantiond'erano popolate le strade e i villaggi lunghesso il fiumeindossavano unalunga tunica di telasu cui una più corta di lana colorata e un biancomantello svolazzante dagli omeri. Una corta mitraravvolta di bianca fasciaratteneva le lunghe capigliature intrecciate; i piedi avean chiusi in sandali dicuoioe tra mani portavano lunghi bastoni ornati di graziose sculturequaliraffiguranti un giglioo una rosaquali un leoneun'aquilaod altra foggiad'animali. Dappertutto l'abbondanzala ricchezza e la vita; dappertutto leliete sembianze della fortuna d'un popolole cui murai baluardile piramidie le torri grandeggiavano sull'orizzontetinte di porpora e d'oro dai raggid'un sole maestosoche avea varcato di parecchie ore di meriggio.

Questa scena mirabile veniva contemplandocon occhio tracurioso e tristeun giovane cavaliereche scendeva lentamenteseguito danumerosa schiera e da salmerie ragguardevolilungo la riva destra del fiume.Già il convoglio aveva oltrepassato Isil villaggio posto alla foce dellafiumana d'asfalto; già aveva lasciato sulla sua sinistra le antiche torri diSippara e la vasta apertura del Nahr Malkacanal regioda poco tempo scavatotra l'Eufrate ed il Tigri; e Babiloniamostrandosi in tutta la sua pompacolossale al forestiero (chè tale lo chiarivano i biondi capegli e le azzurrepupillepiù assai che la strana foggia del vestimento e dell'armi)glichiamava sul volto quell'aria di ammirazione ad un tempo e di tristezzacheabbiamo notata pur dianzi.

Fin dai primi albori del giornola gran città gli eraapparsa alla vistasull'estremo confine dell'orizzonte. E da quell'ora unastrana impazienza signoreggiava l'animo del giovane condottiero; però lacavalcata volgeva più speditae più brevi erano state le sostequantunquegià gli ardori del sole si facessero sentire più molesticonsigliando lecarovane a batter le polverose strade di nottetempope' silenzi dell'amicalunache giungeva allora al suo colmo. Egli era in sul finire del mese diSirvanche è il terzo dell'anno dei Babilonesicomputandone essi il principiodal giunger di primaveraallorquando lo sciogliersi delle nevi sui monti diArmenia fa crescere a dismisura l'Eufrate. Oranel mese di Sirvans'è giàscemata la pienae la vampa del soleche matura le spiche sui gambi frondosiconsente di foggiare a mattoni l'argilla per la costruzione delle case; dondeesso è chiamato eziandio il mese del mattone dalle genti di Sennaar.

Era egli così desideroso di giungere in Babiloniailgiovane cavaliere? E gli sguardior curiosior mestich'egli volgevad'intornoche significavano essi? Una strana mistura di contrarie sensazionigli traspariva dal volto. Talfiatasviando gli occhi dalla meta del suoviaggiosi faceva a contemplare l'Eufrateseguendo con fanciullesca curiositàle zattere galleggianticoperte d'un bianco tendalecariche di ànforein cuisi chiudeva l'inebriante liquor della palmalentamente condotte da uominiarmati di lunghe pertichele quali scendevano con metro alterno a pigliare laspinta dal letto del fiume. Più oltre erano viaggiatori di povero statoiqualiper cansare la fatica pedestre e il polverìo delle strade battuteconla lor tunica e il cappello foggiato a mo' di turbante sul caposcendevano lacorrente aggrappando le braccia intorno a un otre gonfiato. Altrove erano donnefacilmente riconoscibili al bianco drappo che copriva loro la testa e il colloagili e destre nuotatriciche con una mano si reggeano a fior d'acquaesull'altraobliquamente protesa in altoe sulla eretta cervicerecavanocanestri di frutteo scodelle di lattea refrigerio dei viandanti.

Lieto spettacoloche pure non rallegrava a lungo l'aspettodel giovine. Ad ogni tanto gli si offuscavano gli occhisotto l'arco dellesopracciglia aggrondatecome se un doloroso ricordo venisse improvvisamente atrafiggerlo. E lo assaliva un brividocome fosse il terrore delle cose ignote;le sue labbra mormoravano un nome amicoe il cavallo nitrivas'impennavafremevasotto le repentine scosse del suo mutevol signore.

Teneva a lui dietro il corteogravemisuratoeadimostrazione d'ossequionon ricambiando che sommesse parole. Perfino Baredilsuo fidato Baredche di pochi passi precedeva l'ordinanzacavalcando quasi aparo con luida lunga pezza non aveva aperto boccaper tema d'interrompere ilcorso de' suoi tristi pensieri.

Alla svolta d'una macchia di lentischiche copriva largotratto di terreno sopra una delle frequenti insenature del fiumesi paròdinanzi ai loro occhi un colmo di casetutte di più cittadinesca apparenzacon mura merlate e siepi fiorite di giardiniche fiancheggiavano la stradamaestra.

Era quello uno dei sobborghi di Babilubraccia poderose chela città regina stendeva all'intornorivi capaci in cui traboccava ilsoverchio della sua vita gagliarda. Sulla vasta piazzadonde aveva principio ilsobborgosostava una grossa mano di cavalieri babilonesibelli a vedersi perle loriche e gli schinieri di cuoiosu cui svolazzavano i lembi dei candidimantelli; colle lancie ritte sulla staffagli elmi a cono aguzzo rilucenti sulcapole mazze ferrate pendenti all'arcione. Intorno ad essiuomini e donnedella terracon idrie e guastade tra manimescevano agli assetati i succhi delmelagrano stemperati nell'acquain ciotole di argilla.

Il giovine capo si fermò nel mezzo della via; a rispettosadistanza i seguaci; le salmerie del pariin lungo ordine dietro a costoro. Icavalli delle due schiere si salutarono con sbuffi e nitriti.

Alla vista dei sopravvegnentii babilonesi si erano tostorimessi in ordinanza. Uno di costoroil comandantenotevole al balteofrangiato d'orosi fece innanzi a galoppo. Baredpigliati i comandi del suosignores'inoltrò alla sua volta.

- Chi è lo straniero- dimandò il babilonese a Bared-che cavalca innanzi alla vostra schieracome principe a capo delle sue genti?

- Non conosci tu il re d'Armenia- disse Bared a lui dirimando- Arail figlio di Aràmodella stirpe d'Alco?

A queste parole il babilonese inchinò la fronte sullacriniera del suo cavallonell'atto che volgeva a terra la punta della sua spadaricurva.

- Bene dovevo io argomentarlo- rispose egli- poichè ilsuo volto è pari a quello d'un Dioe nelle sue pupille Nebo ha diffusocome aprediletto figliuoloil sacro colore della vôlta celeste. -

E sceso prontamente d'arcionesi fece incontro al cavallodel reper tenernein segno di onoranzale redini; indi soggiunse:

- Ben venga Ara il belloil figliuolo di Aramnel mesefortunatonel giorno avventurosoalle porte di Babilu. La gran SemiramidecuiBelo ha concessa la vittoria della spada e l'impero dello scettro sui potentidella terraattendeva impaziente il grazioso principe ed il suo nobil tributo.

- Non tributoma dono; - rispose prontamente il red'Armeniaaggrottando le ciglia. - Babilonia è possente; ma la stirpe d'Alcopiù che dalla amicizia di Ninodalle opere sue ripete il diritto di portar labenda di perle. Nemici da primae più e più volte alle presefurono i padrinostri coi re della vasta pianura; amici ossequenti noinon vassalli.

- E sia; - soggiunse l'altro arrendevole; - meglio amiciossequentiche sudditi impazienti di freno. Ora ti piacciageneroso signoredi venire alla stanza che la regina ti ha assegnataa ristoro dalle fatiche delviaggioinnanzi di accoglierti in Babiloniacolla pompa che ad amico re siconviene. -

Il re d'Armenia non proferì verboin rispostaall'ossequioso invito; ma con lieve cenno del capo e con un gesto cortesedièlibertà al babilonese di risalire in arcione. Egli quindi già stava pertoccare di sprone e ripigliare il cammino; ma non glielo consentivano ledimostrazioni cortesi degli abitanti del borgoche s'erano accalcati sul suopassaggioprofferendo il vin della staffa ai nuovi venuti.

Fatta audace dalle esortazioni dei più vicinima accesa dirossore e tremanteuna fanciulla s'era inoltrata al cospetto del giovaneperoffrirgli la tazza ospitale. Ed egli volenteroso la raccolse dalle sue maniviintinse il labbroindi la restituìaccompagnando l'atto d'un leggiadrosorrisomentre ella era rimasta come estatica a contemplarloe la moltitudineintorno a lei andava ripetendo: Ara il bello! inveroè simile a un Dio.

Per fermonessun nome era più meritato di quello che algiovane re d'Armenia avea dato il suo popolo e che la fama viatrice avevaconsacratoper tutta la gran valle dell'Eufrate e del Tigri. Giusto di membraagile insieme e gagliardo appariva egli nel suo modesto arnese di viaggiatoresotto le pieghe del suo breve mantello svolazzantechiuso il petto in unatunica grigialistata di rossocinto i lombi di una fascia di lanasotto cuisi annodavano i sostegni della spadafedele amica al suo fianco. Biondi ericcioluti capegli uscivano in ciocche abbondanti dagli orli di una mitra dipelliccia neraornata al sommo d'una borchia di gemme e da un nobil ciuffo dipennebellamente incoronando un viso bianco di nevespecchio vero dell'animatantoad ogni interno sussultorapidamente si tingea di vermiglio. Ampio eprominente l'arco delle sopraccigliadava risalto al limpido lume degli occhiazzurri; le guance ignudeil mento e il collo di contorni soavidelicatiquasi femmineiil naso profilato e diritto ad una con la scesa della fronteillabbro superiore adombrato di lunghisottili e morbidi baffiformavano su quelnobile sembiante un misto indicibile di dolcezza e di forza.

In lui si diceva che rivivessero le maravigliose sembianze d'Aìcoil fortissimo progenitore della sua stirpe. E le ballate degli armeni rapsòdilui già celebravano destro arcierovaloroso domatore di cavalliguerrieroanimoso ed invittosiccome il suo grande antenato. Che più? Lui seguivano glisguardi del popolo obbedientelui le acclamazioni delle pugnaci tribùlui isospiri delle vezzose donne d'Armavir e delle sponde di Van. Ara il belloArail prodeAra il predilettodicean le canzoni.

Dato il tempo necessarionon già all'ammirazione del popolosuburbanobensì alle cortesie del beveraggioil re d'Armenia si mossee dopolui la numerosa sua cavalcatacon alto strepito di bardaturefragor di spadenelle terse guainetintinnìo di frecce nei capaci turcassipendenti dall'òmeroinsieme coi grand'archi aicani. I cavalieri babilonesi precedevanoin segno dionoranzail corteo.

Già il sole era da lunga pezza calato dietro i confini deldeserto lontanoallorquando la schiera giunse finalmente alla vista d'ImgurBelil vasto cerchio di murala cui cresta di torri nereggiava nello spaziopoc'anzi rossastro ancora degli ultimi riflessi del giornoed ora tinto inazzurroal tacito lume degli astri. Era una veduta fantasticamaravigliosasolenne. Là in fondoall'occasoBarsìpala città sacerdotalesantuariodell'arcana scienza degli Accadlevava al cielo le smisurate sue moli. La torredelle sette lucii cui alti ripiani colorati avevano riflesso alla vampa delsole il nero smaglianteil biancoil ranciatol'azzurrolo scarlattol'argento e l'orosacri alle sette sfere luminosenon offriva più allosguardo che un bruno ammasso foggiato a scaglionivera scala murata da unpopolo di giganti per dare l'assalto al cielo.

Più verso il mezzotorreggiava la piramide a tre pianiconsacrata alle fondamenta della terra; e a' suoi piedi si stendeva la immanecittàpartita in due dall'Eufrateil cui vano trapelava da un lungo strato divapori diffusi. Più oltrea manca del riguardanteuna maggior distesa dimoltiformi edifiziidi terrazzi sovrapposti e di torrisu cui grandeggiavaun'altra gran molela reggia di Semiramidecittadella ampiamente bastionatasulla riva sinistra del fiumeincoronata di templiloggiati e giardinidalcui sommo una lieta famiglia di piantetributo di stranie contradeprotendevano in alto le larghe braccia frondose. La lunaapparsa in quel puntovestiva d'una vaporosa luce quella magica scenache si venìa lentamenteascondendo alla vista dei cavalieridietro la fosca merlatura di Imgur Belamano a mano che questi s'avvicinavano al fosso.

Giunsero alla perfine in capo del pontee videro la porta dibronzospalancata per dar adito ai nuovi ospiti di Babilonia. Squillarono letrombe di rame; scalpitarono le zampe ferrate dei cavalli sull'ampio tavolato dicipresso; rimbombò il profondo andronecustodito da denso stuolo d'arcierieil re d'Armenia entrò sotto la maestosa vôltaal fumoso chiarore delle faciintrise di naftain mezzo ai tori alati dal sembiante umanocolossali chimereche pareano guardarlo sospettose e superbeattraverso le loro pupille dismalto.

Oltrepassato l'andronee con esso la prima cinta di murasiofferse alla vista dei cavalieri una larga spianatachiusa intorno da colti eda pascoli; indi una strada corrente tra due filari di piantequa e làtagliata da vie minorifiancheggiata da rigagnoliacconci ad innaffiarla nellearsure del giorno. Folta l'alberatura ne' dintorni; rade per contro le case;quasi tutti edifizii pubblici e alloggiamenti di soldatinaturalmente posti trala cinta esterna e Nivitti Belche è il secondo e più ristretto baluardodella città. Di quiper altros'incominciavano a udire i soffi della poderosavita babilonesesuoni e rumori confusi come il ronzio d'un immenso alveare.

Al giovine principe accadeva ciò che a tutti suole in mezzoal frastuono d'una città non mai vedutanel brulichìo d'una gente ignotachevavieneattende a tutte le curea tutti i sollazzi della vitasenza badarpunto a noigranellini di sabbia travolti dal caso nel turbinoso suo giro. Eisi sentiva come a disagiosopraffattoconfusopieno di quella mestizia chenon muove da vere cagionima che è piuttosto il frutto del turbamento edell'incertezza. Così il giovane arbustocondotto a vivere in estranioterrenorimane alcun tempo perplessoad occhi veggenti intristisceprima chele sue radici si facciano a bere con la usata vigorìa i succhi vitali dellanuova dimora.

E s'inoltrava frattantomentre d'intorno a lui il frastuonocrescevae liete torme di popolo sbucavano dal fondobiancheggiavano sullavasta ombra de' platanisi lumeggiavano alla spera dell'astro notturnoeamala pena guardando la tacita cavalcatavoltavano per certi sentieri a mancadei sopravvegnentisparivano e riapparivano tra il folto d'una selva vicinadondeinsieme con le fragranze dei cedri e dei gelsominivenivano sprazzi diluce e di festose armonie.

Baredchedopo l'entrata d'Imgur Belaveva affrettato ilpasso del suo destriero e cavalcava a paro col reper esser più pronto a' suoicenniruppe timidamente il silenzio.

- Non pare a temio signoreil grato suono del cembalo?

- Sì; - rispose il principecrollando mestamente il capo; -Sandi era valente per cavarne i suoni più dolci; e la sua voce più soaveancoraquando egli cantava le sue belle canzoni. -

Baredfatto peritosonon soggiunse più motto. Ma ilprincipequasi volesse discacciare il triste ricordosi volse al condottierobabiloneseche gli venìa da dirittae gli chiese nella lingua di Sennaar:

- Amicoche suoni son questi?

- Siamo oggi al plenilunio- rispose l'altro sollecito- esi festeggia Milita Zarpanitla dea della gioventùdella bellezza edell'amorela consolatrice dei cuorianima e vita della feconda natura.

- Lieta è Babilonia! - esclamò Ara pensoso.

- Sìlieta; - ripigliò l'uffìziale- e tu giungi in buonpuntoo possente signore. Il tuo voltosplendido come quello di Nergall'astro della luce rossicciafarà palpitare il cuore delle vezzose figlie diBabilu. -

Un placido sorriso sfiorò le labbra del principe. Labellezzavirtù del corpocome la virtùbellezza dell'animanon è maiinsensibile alla lode.

- Labbro incantatore! - diss'egli.

- Ed è pubblico il rito? - entrò a chiedere Bared.

- Il sacro bosco è aperto ad ogni classe di visitatori. Quiconvengono le genti di Sennaar e gli stranieri delle più lontane contrade. Seti piace- proseguiva il babilonesevolgendo il discorso al principe- appenasmontato alla dimora che la possente regina per questa notte ti assegnapotraimescerti liberamente alla folla e non conosciuto vedere quanti più nobiligiovani e più leggiadre donne Babilonia racchiude. Ma eccoci; questo èl'alloggiamento per tee pe' tuoi cavalieria cui Nebo conservi il loroglorioso signore. -

La cavalcata difatti era giunta dinanzi ad un vasto edifiziodi due pianile cui mura salde e profonde si vedevano rinfiancate dacontrafforti di mattonifino a una dicevole altezzadove incominciava unfregio di lucide squammecorrente per lungo sotto una fila di spaziosefinestre. Il grand'arco della porta metteva ad un ampio cortilene' cui fianchisi aprivano le stalle capacie gli alloggi de' soldati e dei servi. Al piano disopra erano gli appartamenti del re e de' suoi uffiziali.

Discesi d'arcionei seguaci del re d'Armenia si diedero conalacrità ai loro apprestamenti di riposoognuno secondo l'ufficio suo; icavalieri a dissellarestregghiare e rinfrescare gli affaticati destrieri; icustodi de' cammellii bagaglioni e i serventia riporre gli arnesileprovvigioni e i preziosi fardelli; tuttida ultimoveduto come più nullabisognasse ai fedeli compagni del loro viaggiopensarono a ristorarsi di cibodi bevanda e di sonno.

Seguìto da Baredil giovine Ara s'avviò alle sue stanze.Due eunuchi della reggia erano ad aspettarlo colàper additargli la cameraadorna di sontuosi tappeti e morbide pelli di fierecol suo letto di sofficipiume steso nel fondosotto un padiglione di porpora. Lo guidarono essi allospogliatoiotutto fragrante di preziosi stillatie al tiepido bagnodovel'acqua spicciava dalle fauci d'un leone di bronzo nell'ampia vasca di pietra.

Ed essimentre il giovane signore attendeva a quelle curecosì geniali dopo le fatiche d'un lungo viaggioapprestavano sulla mensa icibi elettiil vasellame lucentel'acqua fresca come neve e l'inebbrianteliquor della palma.

Ara uscì poco stante dal suo spogliatoiofiorente dibellezza e di gioventùraggiante al pari d'un dio. Lasciate le vesti polverosee le fogge nataliaveva indossata la doppia tunica babilonesebianca di sopracon fregi d'oro sui lembie azzurra di sottosiccome era azzurra la clamideche portava ravvolta con bel garbo sugli òmeri. Azzurri i calzariche glisalivano allacciati alquanto più su della noce del piede; biancacon fregid'orola mitra sul capo.

Quelle ed altre vesti in buon datol'ospitalità regale diSemiramide apprestava al pronipote d'Alco. Egli aveva scelte le meno sontuose;ma come avrebbe potuto farle parere più umili? Bellezza e gioventù dànno lucepiù viva ed allegrache non gli ori e le gemme; aggiungono leggiadriafreschezza e splendore ad ogni cosa che le circonda.

- Invero- disse Bared a luicome lo ebbe veduto- ilbabilonese ha ragione; chi non ti amerebbeo signore?

- Ah! - rispose il principe con accento malinconicorimirando le sue vesti mutate. - Così Sandi vestiva! Povero Sandi! -

E così dicendo si lasciava cadere su di uno sgabellodirincontro alla mensa. Ma Bared non gli consentì questo ritorno alle tristiricordanze. Erano solie le ragioni dell'amicizia ripigliavano il sopravventosu quelle dell'ossequio.

- Suvviamio dolce signore- gridò egli con voceaffettuosa; - non lasciarti soverchiare dalla mestizia dei lontani ricordi. Lavita è tale per tutti: luce e tenebresorrisi e lagrimepur troppo! Schiavial voler degli Deitutti ci attende la morte: mostriamoci dunque uomini fortidavanti al destino!

- OhBaredmio ottimo Baredlo so; tutti morremoungiorno! Ma poss'io dimenticare l'amico della mia giovinezza? Questa città èuna tombadove Semiramide impera.

- Tu la vedrai domani; il babilonese te lo ha dettonelprender commiato da te; a domanidunquei molesti pensieri. Vienimio dolcesignore! Fino a domani ignoto in Babiloniaqual migliore occasione per veder lacittà? Vieni; ci aspetta il tempio di Militta Zarpanit; ci aspettano questiriti notturnicosì famosi nel mondo. -

 

 

CAPITOLO II.

 

MILITTA ZARPANIT.

Tra Nivitti Bei ed Imgur Beinel tratto settentrionale diquella lunghissima zona di lieta verdura che corre tra i due baluardicomediadema intorno alla fronte d'una reginaè il sacro bosco e il tempio diMilitta Zarpanitla gran madrela provvida fecondatrice del germecolei cheesalta la potenza dei figli di Belo.

Folte macchie di lentischi e di mortelledi cedri e disalicifiancheggiano le vie tortuose e i sentieri dove luce non giunge. Tuttointorno cespugli di gelsomini e di roseliberali de' sottili effluvi cheispirano l'amoresiccome all'amore dispongono i leni susurri dell'auravespertina e i gemiti delle colombelibere abitatrici del luogoveneratemessaggiere della Dea. Il sacro amòmo dal ceppo sarmentoso si leva coi tralcisi avvinghia alle piante maggiorispandendo ombra di molteplici foglie efragranza di rosei grappoli sui misteriosi recessi. Da un lato la via maestraoregale; dall'altro l'Eufrate; in mezzo alla selvamurato su d'un poggioè iltempio della Deacon la sua cupola giallalungi splendente dal colmo dei ramiintrecciati.

Militta Zarpanit! Donde il tuo cultoche le tardegenerazioni vedranno fiorente presso tutti i popoli antichiall'alba della lorvita affannosa? Gli Deiche simboleggiano la forza degli elementima piùassai la paura degli uominispariranno dagli altari; i possenti della terraifondatori di città e di regnisantificati dall'ossequio del volgosarannodimenticati o confusi; ma il culto della bella naturail culto della gran madrefecondail tuo cultoo Milittanon perirà. BeitiMilittaZarpanitThaautReaIstarcomunque ti piaccia esser nomata dalle genti di Sennaar; Astarte aTiroDerceto in AscalonaAfrodite fra gli ElleniVenere tra gli ultimiEsperii del mondo anticoi tuoi riti saranno uguali dovunquecomechè sformatidall'indole varia dei popolidalla naturale trasfigurazione del simbolodalriuscir del mito in leggenda. A te sacro dovunque il mirtoa te le colombe; ate non mai sacrifizio di vittime fumantima offerte di odorate ghirlande eincruento olocausto di cuori.

In te si venera la diva naturache rinacque sorridente egloriosa dall'onde. Tesorgente dalle spumevide la memore sapienza ellena;preceduta dalla colombalieta apportatrice del ramoscello verdeggianteticelebrarono le prime istorie della figliuolanza di Sem. L'apparir tuo fu mostradi possanzanon doma dal flutto devastatore; il ramoscello dell'alatomessaggiero recò il tuo primo saluto ai superstitiricondusse la speranza neicuori. E rinata alla luceinvestita dalle vampe maritali del fuoco internovigilata dall'insaziabile sguardo dei corpi celestiamata amante di avventurosimortalifosti feconda di nuovi frutti alle genti; le quali ti riconobberomadredalle tue cento mammelle succhiarono la vitae il tuo culto leggiadrorecarono divotamente con sèallorquandorifatte dai primi terrorisisparpagliarono allegre e fidenti sulla faccia del mondo.

Imperocchè (chi nol sa?) da mezzogiorno e da occidentevennero i primi apportatori di civiltà alla terra di Sennaara mano a mano chesu per l'erta delle convalli mediterranee li sospinse la piena crescentedell'acquedopo che cadde ina­bissata nei gorghi marini la prisca terrad'Atlante e il tremuoto spezzò le immani serraglie di Abila e di Calpe. E dalmare ebbe Babilu i suoi fondatorii suoi demiurghi. Iluil suo primo Id­dioil suo primo terroreè librato sulla distesa dell'acqueo posa sulla vettadei montinegro come la nube che lo circondapregno di nembi e di folgori. Dalsuo grembo squarciato escono le tre forze arcanequasi le tre forme della suamedesima essenza: Anuil caos primordialeBella potenza ordinatriceHoalospirito intelligente dell'universo. L'ultimo tra questi è lo spirito piùsensibileil più notoil più dimestico ai volgari intelletti; egli è ilpesce dioche reca i primi co­mandamenti all'umano consorzio. Daokina è lasua forma femmineavenuta anch'essa dal mareemersa dai flutti dell'Eritreo.Lasciate che il mito si svolga egli assumerà nuove parvenzealtri significatialtri nomi.

Difattiagli Dei cosmogonici succedono a breve andare gliDei siderali. Abbia la divinità un aspetto visibile; se il cielo è sua dimorail cielo donde si sprigionano i nembiil cielo donde ci piove la lucevediamola nello spazio azzurrovediamola in quelle grandi pupille di fiamma cheassidue dardeggiano il mondo. Così i prischi ed oscuri elementi si rinnovanoricompaiono in luce di stelleed alla vecchia triade cosmicaecco tener dietrola triade celesteSinSamasIvaanch'essi rinfiancati di lor formefemminine. Sinl'astro della notterisponde al dio delle tenebreal caos;Samasl'astro del giornorisponde alla potenza ordinatrice del creato; Ivalospirito dell'eterel'atmosfera trasparenterisponde allo spirito penetratoredell'universoal pesce dio venuto dai gorghi del mare.

E adorati questi fulgentissimi numiperchè non siadoreranno gli astri minori? Eccola triade si scempia ancora in tutti queiluminosi pianeti che scintillano la notte nel firmamento azzurro. I nuoviregnatori delle are son questi Ninipo Adaril lontano astro che si circondad'un candido anelloe i cui satellitinascondendosi tratto tratto dietro alsuo discolo faranno apparire divorator de' suoi figli; Merodacil piùappari­scenteil più splendidoepperò dal popolo babi­lonese chiamatofiglio di Bele adorato più tardi siccome il vero monarca del cielo; Nergalil corru­sco di luce rossicciafatto signore dell'armi; Neboil sapienteprotettore della eloquenza e della auto­rità regalenon ancora sformato dallevolgari leg­gendeche tra gli Elleni lo diranno rapitore di mandrie Istarfinalmentela stella dei soavi splendoriche la venerazione delle genticonfon­derà coll'antica Beltiso Bilitforma femminea di Bele con Daokinala compagna di Hoa. Astro in cieloanima della natura in terradiviene laconsolatrice dei cuorila increata bellezzala fonte dell'amore; celeste èTaauth terrestre è Zarpanit. Eccola adunquesempre una in tutte le suesvariate sembianzenata dalle ondesplen­dente nei cielivivente nel creatocara ai mortalimadresignora ed amante.

A lei sacro tutto ciò che risplende per grazia e leggiadria;a lei sacra la lieta fecondità; a lei sacro l'amore che ingentilisce i costumi.A lei dedicate le prime pietre che il volgo agreste am­mireràsporgentisolitariescalzate dalle acquelunghesso il dorso dei monti; a lei i primisimu­lacri che il fantastico genio dell'India ornerà di cento mammelleasignificarne la materna ab­bondanzaladdove il genio più corretto degliEl­leni la ritrarrà nelle sembianze della donna amatae vedrà il sommo dellasua divina bontà nel complesso di tutte le bellezze di Grecia. A leicon­sacrate le isole e i boschi odorosidove gemono le colombe e sguardoprofano non penetra i dolci segreti. Ogni umana cosa si corrompe pur troppoela casta adorazione cederà il luogo a mostruosi misteri; dei qualialpostuttoè agevole il sen­tenziarecol sangue e il giudizio assottigliati damigliaia d'anni trascorsi.

E Militta Zarpanit chiamava ai suoi amabili riti la gente diSennaar. Era essa la divinità più grata al popolo babilonese. Beloinsiemecon le sette sfere lucentiaveva la sua torre dai sette piani e dai settecolori nel borgo sacerdotale di Barsipa. La triade antica delle fondamenta dellaterra aveva la piramide di tre pianiinnalzata in quella parte occidentaledella città che è più vicina all'Eufrate. Iluil temuto iddio delle acqueaveva la città tutta quanta e la soggetta pianura; Nisroco Salmannume dalleali e dal rostro aquilinoAssuril protettorenella cui faccia umana e nellemem­bra di toro alato raffiguravasi la forza e l'intelli­genza divinacustodivanopaurosi simulacrile cento porte di Babilu. Milittapiù soave epiù caraaveva sulla riva destra del gran fiume il suo tempioi penetralilaselva e i riti notturni. Non risplendeva essaamica stella nei cielila primaad apparire dietro il sole cadentel'ultima a di­leguarsi ai primi chiaroridell'alba?

Il suo bell'astro scintillava nell'azzurro serenoaccantoalla colma lunarallegrando il creato di miti splendoriallorquando il giovaneArave­stito delle nuove fogge babilonesis'inoltrò in compagnia del suoBaredsotto i platani che fa­cevano confine alla selva. Quel lieto viavai digente sconosciutaquei volti sfavillanti di gioiaquelle donne a mezzo velateche si appoggiavano fidenti al braccio degli amantiquel luccichio di fiaccolequell'effluvio di fragranzequell'onda di musicali concenti tra i ramirapivano il suo cuorefacen­dolo immemore d'ogni cosasussurrandogli arcaneparoleche avevano un'eco nel profondo dell'anima. Giovinezza beata! come learride il futuro! e come i suoi dolci incantesimi possono far ta­cere in lei lemestizie d'un passatoche ancora non ha avuto agio di mutarsi in assenzio! Alui l'ignotocon le sue lusinghele promessele spe­ranze dolcissimesorrideva sotto quei ramiin quella moltitudine appariscente e festosaimmagine del mondo in cui egli era entrato per la porta d'avorio. Ed ammiratoestaticofuori di sèsaliva lentamenterasentando le belle coppiein­namoratepei meandri del bosco.

Com'egli fu giunto al sommo del poggio (che tale era la formadel sacro recinto)gli si parò davanti agli occhi la maestosa mole del tempiotorreggiante su d'una piattaforma che gli faceva terrazzo in giroa cui sisaliva dai quattro latila mercè di ampie gradinate. Le mura di sostegno sivedevano fregiate di bassorilievi e dipinti in onore della Deae di iscrizioniscolpite nei ve­nerati caratteri della stirpe degli Accadsomi­glianti achiovi impressi per lungo ed in mille guise intrecciati. A' piedi dellegradinate vigila­vano leoni di granito; certamente posti colàsotto gli occhidella Deacome emblemi della forzacui la bellezza soggioga. E il tempioinfatti innalzavasi poco più in altocinto da doppio giro di co­lonnecoronato di capricciosi fregi e di eleganti merlaturesormontato da una sveltacupolari­lucente nello spazio azzurro ai raggi della luna.

Il suono dell'arpe e dei cantici era da pochi istanti cessatoinnanzi all'ara della gran madre Milittae già la moltitudine devota scendevaa torme dal limitarespandendosi lungo i terrazzi e per le scalinatea guisadi fiume che rompa fuori dagli argini. Il vano della gran porta appa­rivavestito dell'aurea luceond'era sfolgoreggiante l'internoe di là venivanoprofumi d'in­censodi gálbanodi cinnamomo e di mirra.

Dopo essere stato un tratto immobile a con­templar dalontano quella scena incantevoleil re d'Armenia si avviò verso la gradinatain mezzo alla moltitudineche scendeva dal tempioo saliva.

I raggi della luna rischiarando il suo volto e la leggiadrapersonasi fece a breve andare din­torno a lui quella ressa curiosaquelbisbiglioquell'avvicendarsi di domande e di ammirazioniche furono maisempree sarannoil più natu­rale omaggio reso alla bellezza dal volgo deiri­guardanti. Orapresso i babilonesicome presso tutti i popoli antichipiù schietti adoratori della formaquell'omaggio era più facile a rendersi;nè solamente riservato alla donnacome accade tra noinon so se più austerio più invidi.

Turbato un tal poco da quegli atti curiosi e da quelle vocidi meravigliail giovane affrettò il passo fin sopra la spianata; s'inoltròsotto il pro­nào del tempioche era sorretto da enormi tron­chi di palmafoggiati a colonneed oltrepassò il sacro limitarefiancheggiato daisimbolici leoni di pietra.

Colàun più meraviglioso spettacolo si parò davanti agliocchi del giovine. Sulle primetra per la luce riflessa dalle lamine d'oro ed'argentoche correvano alternate sull'alto delle paretie per la nubed'incenso che si diffondeva nell'ampio re­cintoparve a lui d'essereanzi chetra' mortalinella regione dei sogniin cui si pregustano le delizie celesti.Maa poco a pocoavvezzando lo sguardo a quella vaporosa vedutaegli potèdiscernere partitamente ogni cosa.

La cella sacradov'egli aveva posto piedeera un'ampia salaquadrilunga; conterminata da un absidesu cui si levava la cupolagià vedutadi fuori. Le mura tutto intorno apparivano ornate di stucchicon iscrizioni ebassorilievi coloratifino all'altezza degli stipiti di un gran numero diportele quali mettevano alle camere dei sacer­doti. Ai lati di questegrandeggiavano leoni e tori alatidal volto umano o dalla testa d'aquilacheparevano vegliare riverentia custodia delle mezze figure chiuse nel circoloeternocon lunghe ali disteseemblemi della divinità supremai quali sivedeano scolpiti più in alto. E dove finivano le sculture e i dipintiincominciavano i fregi di la­mine d'orointelaiati a guisa d'arazzi nel vanodi un finto colonnato d'argentoche saliva a so­stenere un sopraccielo dilegno preziosopartito a cassettonicon entro rosoni ed altre fogge difantastici fiorimessi ad argento ed orosiccome le colonne già dette.Nell'absidesotto la cupolasorgeva l'altare di Milittamasso di diasproriquadrato e lucentesu cui s'innalzava il bianco simulacro della Deachepoggia il piede sul do­mato leonee reca tra mani il fiore della vita. Aiquattro angoli dell'altarefumavanoentro bra­cieri sostenuti da tripodi dibronzoi quattro aromi più grati agli abitatori del cielo; e d'ogni partependevanoin lungo ordine dispostele lam­pade d'argentodonde i lucignolidi bisso attinge­vano l'olio fragranteper dar luce e profumi all'intorno.

E per mezzo a quella nube d'incenso che si diffondevadall'absideil principe vide uno stuolo di sacerdotii quali posavano dallecerimonie e dai canticiseduti su sgabelli d'ebanoil cui nero lucente facevavieppiù risaltare la candi­dezza delle lunghe stole (il bianco era il colorsa­cro a Militta) e degli ampi mantelli in cui ravvol­gevano la persona. Ilgran sacerdote si discernevafra gli altriper la tunica sfoggiatamentetrapunta e frangiata d'oro sui lembiper l'aurea cintura tempestata di gemme eper l'aurea mitra fog­giata a testa di pescela cui infula scendeva adaccappatoio sulle spallesimulando le squamme dell'animale e la coda a duepunte. Milittanon lo si dimentichiera altresì Daokinae la mitra del pescedioportata dai sacerdoti di Babiludoveva coprire il capo ai ministri di benaltre divinitàposteriori nel tempo.

Una mensa di lucido argentosorretta da figure simbolicheera collocata davanti all'altare; e sovr'essa splendevano le liberali offertedei più ric­chi adoratori. Capaci coppe di bronzo si scorgeano dai latinellequali ogni donna che uscisse dal tempio gittava la sua monetad'argento o dirame. E tratto tratto si vedeva alcuna di esse muoversi dal fondoinoltrarsifino all'altaree de­porre il suo tributolevar le mani in atto di adorazioneed uscire.

Ciò ricondusse più indietro gli sguardi del giovine. Ilsacro recinto non era anche spopolato del tutto; imperocchèsedute in lungoordine su panche di legnoattorniate da curiosi che le veniano squadrando degliocchistavano molte donne in attesacon funicelle ravvolte intorno al capoeognuna di esse giusta la sua condizionenobilmente vestite ed adorne. Quellaera per fermo la celebrazione d'un rito; nè il re d'Armenia lo ignoravaessendo allora i misteri di Militta Zarpanit famosi per tutte le circonvicineregioni.

Così voleva il costumeche ogni donna babilo­nese dovesseuna volta in sua vitarimanersi nel tempio aspettandofino a tanto non avessepagato il suo tributo alla Dea. Ciò ch'ella riceveva dall'ignotoil qualeaccostavasi a leirivol­gendole la frase "invoco per te la dea Militta"dovevasi gittare in offerta nella coppa di bronzo. Nè ellapoichè s'era cosìseduta in attesacon la funicella intorno alle tempiepotea più respingerl'omaggio dello stranierochiunque egli fosse. Mostruoso rito; ma non è inbalìa del narratore il mutarlo. Forse era naturale corrompimento d'un altoconcetto; forse reliquia di più rozzi costuminon potuta cancellare del tuttoepperò saviamente dissimulata dalla santità della cerimonia; fors'anconell'usoera temperato da acconci conve­gnida gentili artifiziche lastoria non ha tra­mandati alle tarde generazionie che il senno di queste puòargomentar verisimili. Ma di ciò pensi ognuno a sua posta.

Ben ci raccontano gli antichied è anche age­vole ilcredereche le più nobili e ricche sdegnassero di mescolarsi cosiffattamentealla co­mune delle donne babilonesinella celebrazione dei sacri misteri.Elleno per fermo non si ri­stavano dallo accorrere al tempio; ma in letti­ghecoperte e accompagnate da uno stuolo di serviche recavano i loro donativi e ledebite of­ferte all'altare.

Una di queste felici era appunto allora nel tem­pioprostrata dinanzi ai gradini dell'absidesu d'un morbido cuscino che sotto iginocchi le aveva posto un'ancellamentre un'altra deponeva sulla mensa ilpresente della signoraaromi e polvere d'oro in vasi d'alabastro.

Quella donnaveduta appenatrattenne lo sguardo delgiovane. O fosse la singolar leggiadria delle formenon potuta nascondere dallepieghe del velo che tutta le involgea la personao il suo ri­manersi indisparte e la compagnia delle ancelleche la dicevano donna di ragguardevolestatood altra più riposta cagione (che molte ve n'hasot­tiliinavvertiteed arcaneper disporre in varie guise la trama degli eventi)fatto sta chequella donna velatalontanaignara di luigli occupò la mentelo disviò datutta quella moltitudine di aperte e sorridenti bellezzeche in lui figgevano igrandi occhi neripieni di schietta ammira­zione e di dolci lusinghe.

Tanto può l'ignoto sull'animo nostro! Così te­nui sono lefila in cui ci avvolge il destino!

Ella era inginocchiata dinanzi all'altarein atto dipreghieramentre alcuni adolescenti ministri del tempio venìan raccogliendo dimano alle an­celle i preziosi donativi della sconosciuta suppli­chevole.

- Militta ti vede e ti ascolta! - le avea detto il gransacerdote; - ti conceda ella ciò che le tue preghiere dimandano. -

Ara non poteva distogliere lo sguardo da lei. E più larimiravae più si riempiva il suo cuore di dolcezza ineffabile; come se daquelle forme mal note emanasse un tiepido effluvio chetutto investendologlis'infiltrasse per ogni meato nel sangue. E una speranzaun desideriounostrug­gimento gli cresceva grado grado nell'animadi vederla in voltod'essere vedutodi non essere un ignoto per lei.

Donde nascono essiquesti moti repentini del cuoresoventivolte datori d'un nuovo indirizzo alla nostra esistenzache ci fanno di puntoin biancoquasi per virtù d'incantesimoconsape­voli di noicosicchè cisembrio di vivere per la prima voltao di non aver vissuto mai di vera vitada prima? Bagliori improvvisi nelle tenebre dell'intellettovoci arcaneall'orecchiotumulti nel cuoreinni prorompenti dai penetrali dell'a­nimadonde traggono essi l'origine? Dal nullachi guardi all'apparenzacome dalnulla hanno vita i fantasmi del sogno; ma il savioche scruta i segreti dellanatura e argomenta le cause non vistesi raccoglie umilmente nella suapochezzae ciò che ancora è sfuggito al suo spirito inda­gatorenon derideegliper fermoe non nega.

Così ammaliatoignaro di sèil giovane s'era fatto piùinnanzi e più presso alla sconosciutaquasi volesse inebbriarsi dell'arcanoeffluvio ond'era soggiogatoo raffigurarsisebbene imper­fettamenteilprofilo di quella testasotto le pie­ghe del velo che l'ascondevao coglierea volorespirare un alito di quelle preghiere che ella ri­volgeva all'altare.

- Che chiede ella a Militta? Forse il suo cuore ardesistrugge d'un amore disperatoe prega la Dea che versi sovr'esso i balsamidell'oblio? O le voci dell'affetto non hanno ancora parlato all'anima suaeimplora il confortofors'anche lo straziod'un amor vero e profondo? Ed io tichiedoo Milittache quella donna mi ami. -

Fu un impeto subitaneoirresistibilee decisivo del pari.Ascese incontanente il primo gradino del santuarioe recò la mano alla suacintura tutta adorna di gemme. L'aveva egli portata seco d'Armeniae per vezzogiovanilerigirata al fiancosulla tunica babilonese pur dianzi indossata. Ungrosso e trasparente smeraldo ne fregiava il nodoed egli fu pronto astrapparnelo.

- È questa la mia offerta- diss'egliavvici­nandosi allamensaper deporvi la gemma- se Militta non isdegna il presente d'unostra­niero.

- Bellezza e gioventù spirano dal tuo voltocome una dolcefragranza- gli rispose il gran sacerdoteaccompagnando le parole con unpa­terno sorriso. - II tuo aspetto è d'uom caro a Neboal veggente Iddiochedà lo scettro ai reg­gitori dei popoli. Qual cosa dimandi tuche Nisrocilsignor delle sortinon t'abbia concesso il dì che nascevi? Pureè bello ilnon fidarsi nei doni della naturae tutto in quella vece aspettar da­gli Dei.Essi non deludono la speranza di chi li invoca con animo riverente. E Milittainvocataconceda a teo giovine stranieroil compimento de' tuoi voticonservi a te il regno de' cuori.

- D'un soloe sarò il più avventuroso tra gli uomini! -esclamò il re d'Armenianel ritirarsi dal santuario.

Agli atti improvvisialle parole del giovanela donnavelata aveva rivolto il capo da quella banda; di certo essa lo aveva veduto permezzo alla trama sottile del bisso che le copriva il sembiante. A lui parve chepiù d'una voltae lungamentegli occhi della sconosciuta si fosserosoffermati a guardarlo; inveroei non li aveva vedutima sentitie ilbenefico raggio gli era penetrato al cuoreche aveva dato un sobbalzo.

Baredin quel mentregli si era accostato da tergo.

- Va; - disse egli concitato al suo fedele ser­vitore; - vaa riposartimio povero Bared!

- E tumio signore?

- Io? Non dormirò più questa notte.... nè poi; la mia paceè perduta. -

Baredsenz'altro aggiungeresi allontanò. E il red'Armeniatiratesi alquanto in disparteper non dar più oltre nell'occhio aicuriosistette im­mobileestaticoa contemplare la donna velata.

Poco stanteella si alzòeseguita dalle an­cellesimosse per uscire dal tempio.

Al giovane parve allora di veder cosa non mor­taleuna deala stessa Militta Zarpanitdiscesa dal suo altare di diasproper farglisiincontro; tanta era la maestà del portamentotanta la leg­giadria delleforme. Ed egli credette di non po­tersi reggere in piedie istintivamente siappog­giò ad uno di quei colossali leoni di pietrache sporgevano dallapareteallorquando la vide av­vicinarsie argomentò che gli occhi dellanobil donna fossero volti su lui.

Ma si riebbe ad un trattovolle esser forteper cogliere alvarco la fuggente occasione. Infineche dirà ellase parlo? E che penseràellase taccio?

Commossopalpitantecombattuto da desiderio e da temafuper accostarsi a lei; e fatto il primo passosi rattenne ancora. Ella siaccorse dell'attoin quella che stava per passargli dinanzie balenòirresoluta a sua volta.

Non era più da rimanersi perplesso. Ara si mosse verso dileie con accento soave le disse:

- Perdonami!

- Che cosa? - dimandò ellaarrestandosi.

Il principe non rispose parolatanto era tur­bato. Nèforse ella pose mente a cotestoose vi pose mentenon le parve irriverenza.Il rossore del giovane non era egli la più eloquente rispo­sta e la piùschietta confessione dall'animo suo?

Ella stessao compassionevoleo grataruppe l'uggiososilenzio.

- Tu sei straniero? - gli chiese.

- Sìsono- rispose il giovanepigliando animo dallecortesi parole e più ancora dal soa­vissimo accento; - e se non t'incresce....se nulla ti chiama così presto lontano da me.... amerei dirtio signoraunapreghiera insensatache io feci poc'anzi alla Dea.

- Ti ascolto; - disse a lui di rimando l'in­cognita.

- Di vederti- proseguì Ara sommesso- di poter dirti chet'amodi essere amato da te. -

Ella rimase un tratto in silenzioforse turbata dalleinattese parole. Il giovanetemendo di averle recato offesagià era perchieder venia del so­verchio ardimentoquand'ella si fecesenz'om­bra disdegnoa domandargli:

- Mi conosci tu forse?

- No; e tu ben lo vedi- rispose Aracon voce carezzevole- questa è follia. Ma son io forse più signore di me? La Dea mi ha condotto aforza quassùperchè io smarrissi la pace dell'anima. E làpresso l'altareho detto a me stesso che tu eri la più leggiadra donna di Babilu. Per Milittache tu invocavi poc'anziio ti chiedo in cortesia di sollevare un lembo di queltuo velo geloso. -

 

 

CAPITOLO III.

 

LA ROSA DI SENNAAR.

 

Le dolci parolee più l'accento d'onesta pre­ghieratoccarono il cuore della donna velata.

- E se tu ti fossi ingannato? - diss'elladopo esser rimastaalcuni istanti raccolta in sè mede­simaquasi volesse aspirare gl'incensi diquel lusinghiero discorso. - Se a me non arridessero i pregi che fanno cara ladonna al tuo sesso?

- Ohgli è impossibile! - sclamò il re d'Ar­meniastringendosi al suo fiancomentr'ella len­tamentema senz'aria di volerdargli commiatovolgeva il passo al limitare del tempio. - Me lo ha detto ilcuoreche non inganna mai. Nè basta; la tua presenzaciò ch'io vedo e sentodi tenon ti palesano forse? Tu ben lo saimia dolce si­gnora; leggiadri sonsempre i fiori odorosie il gelsominocelato nel verde cupo del bosconontramanda più soavi fragranze di quelle che spi­rano dal tuo veloo bellissimotra i fiori di Babilu.

- Nebo t'ha ornata la mente di grate fantasie- soggiunsel'incognita- e il miele della poesia scorre dalle tue labbra. Così tu dicessiil verocome parli cortese!

- Or dunque- ripigliò Ara umilmente; - non darai tul'aspettato guiderdone al poeta?

- Non qui; la luce del tempio non dee rischia­rarmi la tuaconfusione. Son donna- aggiunse ella con un fil d'ironia- e il vero mipotrebbe apparir troppo grave dal tuo aspetto mutato. Non mi dir nulla; so giàla risposta. - Così la sconosciutaper troncar le parole al giovaneche giàstava per richiamarsi a lei dell'ingiusto sospetto. Indicome parlando a sèstessamormoròper modo che egli potesse udirla:

- Infinemi veda egli; è la Dea che lo vuole. -

E dato un cenno alle ancelleche tosto riverenti siallontanaronouscì con passo rapido e lieve sulla gradinataquasi sfiorandoil suolomentre Ara le venia tutto sollecito al fianco.

Discesi sulla spianatae usciti fuor della calcama noncosì prontamente come il re d'Armenia avrebbe volutopiegarono a destradoveper tortuosi sentieri si scendeva all'Eufrate. Egli ebbro di gioia; ellataciturnalievemente reggendosi sul braccio che il principe le aveva proffertoe tratto tratto volgendosi a guardarlo in visoper mezzo alla trama sottile delvelo che ancora la diniegava agli occhi innamorati del giovine.

- Ah! - sclamò ellapremendogli il braccioal primosvoltar della stradache le consentiva di dare una fuggevole occhiata dietro disè.

- Che è ciòmia divina? - le chiese Ara tur­bato.

- Alcuno ci segue.

- Chi lo ardirebbedov'io sono?

E così dicendoil re d'Armenia si volse e si piantòfieramente in mezzo al sentiero.

Un uomoravvolto nel suo mantelloscendeva per quellamedesima via. Ma egli non parve darsi pensiero dell'attoegiunto all'incontrod'una viottola poco lontano da essivi s'inoltrò con passo sicurocome chinon avesse a fare altro cammino fuor quello.

- Tu lo vedi; egli non teneva dietro a noi; - disse ilprincipe alla sua compagnaripigliando la via verso il fiume.

Indi a pocogiungevano in vista dell'Eufrateampia zonad'argentoscintillante sotto i loro occhiai raggi del grand'astro notturno.Una barca era legata alla rivae due donnein cui Ara fu pronto a raffigurarele ancelle della sua sconosciutaandavano a quella volta.

- Tu dunque mi lasci? - gridò egli sgomentito; - ed io nonavrò ottenuta la grazia tua!

- Perchè dubiti? - chiese ellaarrestandosi.

E mandando gli atti compagni alle parolesol­levò il veloimportunolo arrovesciò sulla testalasciando così il viso scoperto alchiaror della luna.

Il re d'Armenia mise un grido d'ammirazione. Giammai egliaveva veduto cosa più bella.

Aperto e sereno il voltodelicatissimi e in un severiapparivano i lineamentia cui cresceva in­cantesimo il morbido tondeggiardelle carnisplen­denti dell'aureo colore di frutto maturo. Ampia la fronte enitida come l'avorioincoronata di chiome nereondate e lucentitra le cuicopiose anella si nascondevano i capi d'una trecciera di perleche ne facevanovieppiù risaltare la lucen­tezza corvina. Neri gli occhi del pari sfavillantia guisa di granati sirianiprofondi come il maree com'esso trasparentifacili ad esprimere le in­terne commozionio languidamente si celassero amezzosotto il velo delle lunghe cigliao aperti scintillassero d'amoreoraccolti lampeggiassero di corruccio. Tra due grandi e sottili archi d'ebano siveniva leggiadramente incurvando la ra­dice del nasosnello e ben profilatoinfino alle narirosee ne' delicati contornicome il grembo delle conchiglieeritree. Le labbra di corallo ac­cesotumidette e madide di voluttàpareanoinvitare ai bacisiccome le dischiuse corolle dei fioriimperlate di notturnarugiadacercano de­siose i primi raggi del sole; ma il taglio austero diquelle labbra dinotava un'alterezza acconcia a temperar gli ardori del sangueadissimularese non a padroneggiarela impetuosità degli af­fetti. Ilsuperioreun tal po' rilevatocosì che breve spazio intercedesse dalla boccaalle narigiusta il tipo della gente semiticalasciava scor­geread ognimoto di quella vaghissima boccadue file di candidi dentiche facevano piùgrato il sorriso; il sorrisoche è il suggello della bel­lezzacome losguardo è il raggio dell'anima. Tre cose belle al mondo: il sorriso sul voltod'una donna; il sole nel cielo; l'amor nella vita.

Nè era men bella la personache già di per sè sola avevapotuto cotanto sull'animo del re d'Armenia. Invano il candido pallio di bisso lesi ravvolgeva dintornosopra la lunga stola violaceafrangiata d'argento. Daque' veli tra­sparivano le elette forme d'una Deache solo tra' Greci aveva arinvenire uno scalpello degno d'effigiarla nel marmo; e que' velilasciandoin­dovinare i maestosi contorni di quella sfolgorata bellezzale conferivanoquel non so che d'arcanodonde lo spirito nostro attinge le sue voluttà piùprofonde. Il colloche si mostrava ignudodintornato da una filza d'amuletile braccia del pari scoverteintorno a cui si allacciavano i simboliciserpentidisviatori dello influsso malignoerano miracoli di graziacheavrebbero ingelosito Militta ne' cielie trattenuto sulla terraimmemore deigaudii superniuno spirito immortale.

Così splendida di vezzicinta del suo candido pal­liodicui la lieve brezza notturna agitava mollemente le pieghe e i lembi discioltilumeggiata da quel mite chiaror di lunache la faceva parere quasi una vaporosavisione del sognoeretta della personaatteggiata ad un placido riso chediceva tutto l'intimo compiacimento della conscia bel­lezzaella si stavaimmobile nel cospetto di Ara.

Commosso da quella vistache di tanto supe­rava la suamedesima aspettazioneil re d'Armenia rimase alcuni istanti mutoestaticoacontem­plarla. E bevve in quegli istanti per gli occhifino all'ultima goccial'amoroso velenoche aveva a conquiderloa farlo altro uomo da quello diprima.

Si sentì perdutoalloratratto fuori di sèin balla diquella donnaper lei forse felice come un dioo disperato come l'ultimo deiviventi; nè gli dolse di ciò. L'amore è un abissodi cui non si misura laprofonditàse non quando s'è affac­ciati sull'orlo periglioso. L'ignoto tiraa sè; voci lusinghiere chiamano dal profondoe in così alto mare è dolce ilnaufragio.

- Lascia che io t'adori! - le dissecadendo a' suoi piedi.

Ella gli porse con grazioso atto la manoper rialzarlo daquella umil postura.

- No!- soggiunse egli. - Adorarti! adorarti! Concedimi dirimanere a' tuoi piedisiccome nel cospetto d'un nume. Non sei tu stessa unadea? Militta ha assunte le tue formeio lo vedoio lo sentoper farmi il piùlietoo il più triste degli uomini. -

Arcana virtù delle parole che sgorgano dal cuore! Colpita daquell'accento di preghierasoggiogata da quell'aura misteriosa che sempreac­compagna un amor vero e profondoella si lasciò caderesenza far mottosu d'un sedile di sasso; nè ritrasse altrimenti la morbida manoche egli avevastretta fra le suein quell'impeto di amo­rosa follia.

Ella sedutain atteggiamento pensosoturbata nell'intimodel cuore da un misto di nuove sensa­zioni; egli inginocchiato a' suoi piedipalpitantecogli occhi fissi ne' suoi; rimasero a lungo muti. Ma quante cosenon disse quel loro silenzio!

Gli astri del firmamento piovevano una tacita luce su quellefronti leggiadre; la brezza notturna recava loro le inebrianti fragranze delboscoin­sieme col dolce mormorio dall'Eufrate vicino; da un'agile barcacheveniva rasentando la spondagiungevano al loro orecchio i grati accordi diun'arpa e i suoni indistinti d'una cantilenalenta e malinconica come tutte lemelodie della vecchia stirpe cussita. Il cielola terra e l'ondatutto eraintorno ad essiun soave inno d'amore.

Ad ambedue grato il silenzio; e la novità del caso loro lofaceva necessario del pari. L'uno all'altro stranieri fino a quel giorno e aquell'orasenza pure avvederseneo presentirlosenza es­servi tratti daquella ordinata progressione di piccoli eventi che dissimula spessoo fa parermeno singolare la prepotenza del destinos'erano essi incontrati a mala penaegià sostavano l'uno a fianco dell'altro. Occorreva loro anzitutto ria­versi daquel subitaneo tumultomisurare la via in così breve spazio di tempo percorsaracca­pezzarsi infineleggersi scambievolmente nel­l'anima.

L'amore è cosa di tutti i tempinaturale por­tato di tuttii cuori; cionondimenochi ben guardiè sempre maraviglioso il suo nasceresiccome è miracolo la cosa più comune del mondoil na­scere del fiore sulramoil suo svolgersi rapi­damente in tenere fogliolineil colorarsi deipe­taliil vaporare ai primi raggi del sole in soavi fragranze. Così ilmaraviglioso fior dell'amore era nato ad un tempo in quei due cuoriimprovvisospontaneoalla prima veduta; ed essirespiran­done i primi effluviiavicenda confusi e rapitidimenticarono l'universo in quell'ora.

Il re d'Armenia (meglio sarebbe dire lo schiavo di quellaignota bellezza) fu il primo a rompere l'amoroso silenzio.

- Parlamite ne prego! - esclamò; - fammi udire ildolcissimo suono della tua voce.

- Che dirti! - chiese la sconosciuta. - So io forse ciò chetu pensi ora di me?

- Ah sì! - ripigliò Ara sollecito. - Perdo­nami! Io mene stavo qui mutoad assaporar la dolcezza della tua vistanon d'altro curanteche della mia felicità senza pari. Ma potrei io operare diverso? Che direquando si contempla e si adora? Ho io mai provato ciò che oggi provo? Ho io maiveduto figlia di donnala cui beltà reggesse al paragone della tua? Mailogiuro pei sacri pla­tani di Vandonde a noi si rivela il consiglio dei Numimai ho sentito così fieroe in un così dolce tormento; nè tra miei montinatalio nella istessa Annavirfamosa per le sue donne bellissimeve n'ha unache ti somigli da lungi.

- Sei tu d'Armenia? - chiese ella con piglio curioso. - E iltuo nome....

- Ara; - rispose brevemente il giovane; - e il tuomiadivina? Non mi sarà egli dato di udirlosoave al certo come il suono della tuavoce? -

Ma la sconosciuta non pose mente alla dimandao non la udì;tutta la sua attenzione essendo ri­volta a quel nome.

- Ara! hai detto? Arafiglio d'Aràmo? Esso è nome di re; -soggiunse ellaveduto il cenno affermativo di lui.

- Son io quel desso; - rispose egli umil­mente; - re delpopolo aicànoe tuo schiavo. Ma dimmio bellissima; come ti è egli notol'oscuro nome del figlio d'Aramo?

- E a chilungo le rive dell'Eufrate e del Tigrinon ènoto il nome del giovine re d'Armeniadel vincitore di Masciagdov'egliottenne ad un punto la palma della vittoria e la benda di perle? Non è ellaforse una benda di perle che voi cin­gete in capoo figli di Aìcoquasi atestimo­nianza del vostro corso vittorioso dalle cime dell'Ararat fino ai lidieritrei?

- Tempi di gloria! - esclamò il principecon malinconicoaccento. - Ora i leoni di Cus regnano sulla vasta pianura; le aquile aicàne siraccolsero crucciose sui greppi.

- Donde volarono spesso a settentrioneper piombare suimobili campi dei predatori Turanio ad occidenteper annientare la potenza deifigli di Canaan. -

Così parlava la sconosciutae le sue parole eran balsamo alcuore del pronipote d'Aico.

- Grande è Babilonia- proseguì ella nobil­mente- e noninvidia la gloria ai suoi amici della montagna. Aìco e Nemrod si guerreggiaronoaspramente; ma vivono in pace ed amistà i loro discendenti. E tuglorioso tratutti i forti della tua stirpeda quando giungesti alle nostre mura ospitali?Ancora non hai veduta la regina? -

La fronte del giovane si rannuvolò a quelle parole.

- Son giunto poc'anzi- rispose- e la mia gente è quipressonegli alloggiamenti a noi as­segnati dalla possente regina. Soltantodomani oltrepasserò il baluardo di Nivitti Beicon la pompa che s'addice ad unre.... ad un re tributa­rio! - aggiunse eglimal reprimendo un sospiro. - Tusei corteseo mia divina; ma che giova il nasconderlo? la gloria dei figlid'Alce s'è gran­demente offuscataed iol'ultimo tra essireco a Babiloniail tributo dell'amiciziacome il minore al maggiore. Feliceinverodacchèt'ho veduta e t'amo; più felicese mi saprò riamato da te; ma domanipurtroppoio vedrò Semiramide.

- Pur troppo! e perchè?

- Perchè.... debbo dirtelo? Infinesì; non sei tu lasignora del cuor mioe non debbo io aprir­telo intiero? Perchè il miopensiero rifugge da costei; perchèal solo profferire il suo nomesentonell'anima come un misto di terrore e di odio.

- Tu la conosci già?

- Non leila sua fama. Ella è possentema crudele; grandeil regnoma feroci gli amori. -

Si riscosse a quelle parole la sconosciutae un lampo disdegno le balenò dagli occhiprometti­tore di più fiera risposta. Senonchènell'atto di guardare il compagno così bellocosì candido nel sembiantelevenne meno il proposto; l'ira si spense e il pietoso affetto prevalse. E alloranon senza un tal po' d'amarezzaella prese in tal guisa a rispondergli:

- La fama? E tu credi a questa vile menzo­gna? Anzituttosai tu donde nasca? Non già dalla lodecosì scarsa pei vivi e restia; bensìdalla invidiadal maltalentoa cui giova il perfidiaree dalla stoltezzacuitorna agevole il credere. Semiramide ha i suoi nemici e non li cura; ma perfermo le dorrà di vederti fra costoro. In che t'ha ella offesoperchè tucreda così ciecamente il peg­gio di lei?

- Tu l'amilo vedo; - le disse il re d'Arme­niaconmalinconico accento; - ma io pure ho amatoe l'amico del mio cuore non è piùtra i viventi. Povero Sandi! Era egli il compagno della mia fanciullezzaegliil mio fratello d'armidi cacce e di giuochiegli il gentile poeta che miallegrava lo spirito con le sue grate canzoni. Vaghezza di gloria lo trassepellegrino alle mura di Babilu. Chi non lo avrebbe amatovedendolo? E lo videcosteiil biondo garzone d'Armeniache aveva cantata nei suoi versi innamoratila bellis­sima rosa di Sennaar; lo vide e lo amòper uc­ciderlo. Così funarrato in Armavir; una sera egli saliva chetamente ai pensili orti dellaregina; all'alba vegnentel'Eufrate accoglieva nei suoi gorghi un cadavere.

- Ahmenzogna! - gridò ellabalzando in piedicon piglioiracondo. - E chi ha osato ca­lunniarla in tal guisa? Ella non vide il tuoSandiio te lo giuro pe' sommi Deiche ci stanno sul capo. Non dar vanto diregali amorisiano essi pure ferocicome tu pensio re d'Armeniaa chi forselasciò la vita in un laccio volgare.

- Perchè ti sdegni? - le chiese Ara turbato. - Amica dellareginasei troppo poco amica a chi t'ama. E sia pure! L'oracolo di Peznuni melo aveva pur dettoinnanzi ch'io lasciassi Arma­vir! "La terra di Sennaarti sarà fatale!" Ac­cusami alla regina; domani non andrò al suo palazzosibbene alla morte. Non mi dorrà il mo­rirese dalle tue labbra mi verrà lasentenza. -

L'accento appassionato commosse la scono­sciuta.

- T'inganni; - soggiunse ellaad un tratto mutata. - Troppofacile trascorsi allo sdegno; ma non temere! Chi t'ha veduto una volta non puòtradirtiper fermo. A te l'amicizia offuscò la ragione; a me l'amicizia dettòle irose parole. Se tu conoscessi Semiramide- e qui la voce di lei assunse untono d'infinita mestizia- sventurata la direstinon rea. Nessuno amò lapovera re­ginanessuno! Ella è solasi sente sola nel suo vasto imperocomeun'isola deserta sul mare. Chiede affetto (e chitra i nati all'amore non lochiede?) ma invanogagliardo e sincero come il suo. Ognuno in lei vede edesidera la regina; nes­suno ha amata la donna. Tu la vedraire d'Ar­menia; ese non somigli a quanti le stanno te­menti dintornose hai virtù di penetrarecon lo sguardo oltre il fasto regale che la circondave­drai dolore che non hauguale in terrae che mal si tenta di nascondere nel profondo dell'anima;vedrai fastidio d'ogni grandezzad'ogni va­nitàd'ogni ossequio bugiardo;vedrai desiderio infinito di veritàdi schiettezza e di fede. E allora...allora non crederai alla fama; alloraforsetu amerai quella donna. -

II giovane crollò mestamente il capocome chinon potendoassentirenon ardisce far contro.

- Perchè- entrò egli a dire- ci diam noi pensiero diciò? Tristi ricordi hanno fatto forza all'animo mio; lasciamo ora in disparteogni cosa che non sia l'amor nostro; te ne prego. Parliamo di noi; parliamo dite- aggiunse con voce ca­rezzevole- di teche sei tanto bellaanconegl'impeti dello sdegno. Celebrata è Semiramide nel mondo per maravigliosabellezza; ma ellamentre tu l'ami e la difendicertamente invidia la tua. -

E rimase ad attendere una sua parolacurvo in atto amorosodi fianco a leiche s'era di bel nuovo sedutamodesto e ardente ad un tempolo sguardo fisso in quei grand'occhi neriche lo gua­tavano tra curiosi edincerti.

- M'ami tu molto? - gli chiese ella cedendo ad un motorepentino dell'anima.

- Lo chiedi? - gridò eglinell'atto di afferrarle la destrae di stringerla al pettocome se volesse farla consapevole degli ardori ond'eratutto com­preso. - Odimio figlia di Babiluodimiignoto astro di luce! Neimiei monti natalisono i co­stumi più semplici e rozzima forti. Si ama unavolta solama per tutta la vita. Veloceprepotente a guisa di fulminescendel'amore nel cuor no­stro e lo strugge; però sono una cosa sola il ve­dere el'amare. Io ti ho veduta e ti amo; non ti amavo io giàprima di vederti invisodi udire il suono della tua voce? E tudimminel nostro in­contro nonvedinon sentialcun che di fatale?

- Fatalesìtu l'hai dettofatale! - ripetè con vibratoaccento la sconosciuta. - Così è bellonon altramentel'amore; cosìs'avrebbe mai sem­pre a volerlo: o incendio o nulla. Amare è darsiintieramenteè confondersivivere in una due vitese felici o sventuratenon montama glo­riosema ardentifino al punto di consumarsi a vicenda emorirea guisa degli astriin uno sprazzo di fuoco.

- Così t'amerò- disse Ara; - fosse pure la morte nei tuoibaci. Chi amaha vissuto.

- E dimmi.... - soggiunse ella peritosafis­sando i suoigrandi occhi neri in quelli del gio­vane- per questo tuo medesimo affettonon po­trai tu farti più umano nel giudicar la regina?

- Che chiedi tu ora? - esclamò egli turbato.

- Gli è un mio capriccio- rispose ella pron­tamente. -Donna amante non si reputi amatase prima non abbia messo il cuore dell'uomoalla prova.

- Ah! - proruppe Ara. - Dubiteresti ancora di me?

- Non dubiti tu ancora delle mie parole? - diss'ella dirimando. - Non dai tu orecchioanzi che alla mia vocealle perfidie del volgo?

- Not'inganni; io non dubitoma il mio cuore sanguinatuttavia; concedi al tempo di rimargi­nare la piaga. Tu taci? O mia dilettanon t'of­fenda il diniego! Più tiepido amicoti parrei forse più fervidoamante?

- Amoredolore! -mormorò ella tra sèquasi rispondesse aduna voce segreta dell'anima. - E sia cosìcome vuole la Dea!

- Rispondimite ne supplico; - incalzò il re d'Armeniacadendo in ginocchio e tendendo le palme verso di lei. - Non mi lasciare inquesta tormentosa incertezzapeggior d'ogni morte! Vedinon sempre si èpadroni di sè: v'hanno cose da cui l'animo rifugge. Comanda che io m'allontani;comanda che io ti dimentichi; potrà forse il mio cuore obbedirti?

- Giuralodunque; - diss'ella con piglio riso­luto! - giurache mi amie chequalunque cosa avvenga.... Bada bene; qualunque cosa avvenga- ripetè solennemente- tu sarai miosem­pre mio!

- Che vuoi nascondermi? - chiese il giovane attonito. - Chevedi tu nel futuro?

- Tremi già? - soggiunse la sconosciuta.

- Ohse tu credi che io m'arresti per tema....- rispose eglisollecito; - eccoio lo giuro; qua­lunque cosa avvengasarò tuosempre tuo!-

Un divino sorriso irradiò il volto della bellis­sima donnache si fece allora a chiarirgli il suo pensiero con più dolci parole.

- Tu domanivedrai la reginae chi sa? forse in vederlatifuggirebbe dal cuore ogni affetto per me.

- Di ciò temevi! - gridò Aracon accento di amorosorimprovero.

- Di ciòd'altro ancoradi tutto! - rispose ellatrepidante.

- Ohcrudele! - ripigliò il garzone innamo­rato. - Iogiuro nel santo nome di Milittache ti ha fatta pietosa alle mie preghieregiuro per la mia fede di reche non s'è macchiata di tradimento maigiuro perla sacra memoria di Sandiche fu sino ad oggi l'unico affetto vero della miavitagiuro di non amar che te solate sola e semprechecchè mi serbi il diodelle sorti! Ti basta? Non accoglierai tu il mio giuramento? -

E stette anelantelo sguardo fisoin atto sup­plichevolead aspettar la sentenza dalle labbra di leiche rimase un tratto immobile emuta a contemplarlo.

- Acerba pena ti preparo forseo mio cuore! - mormorò ellaraccogliendosi sgomentita in sè stessa. - Ma sia! non l'ho io chiesto poc'anzia Zarpanitd'essere amata per meper me solachecchè potesse accadermi? -

Il giovane era tuttavia ai suoi piedispiando ogni suo motochiedendole mercè con la muta eloquenza degli occhi. La lunalibrata a mezzoil suo corsoaccarezzava coi candidi raggi quel­l'amoroso sembiante. Ed ellaimpietositachinò il viso sul viso di luilo trasse a sèlo guardò ancora;un ricambio d'ansiose interrogazionidi fervide promessedi soavi languoriparlò in que­gli sguardi confusi; indiun'arcana virtù ravvi­cinò lelabbra alle labbrale strinse in un baciolungointensocome il desiderioche ardeva nei cuori.

- Ti credo; - ella disse quindigettandogli al collo lebraccia e nascondendo il bellissimo volto sul seno palpitante del re; - ti credoe son tua. -

Così l'uno all'altro ristrettia guisa di due gio­vanifidanzatiebbri d'amoredimentichi d'ogni cosa creataripigliarono leggierila via del tem­pioguardandosi in voltobisbigliandosi all'orec­chio centodi quelle parolesoavemente vaneche l'aura stessa non può udirenè l'ecoripeteresenza toglierne il pregio.

Si erano essi a mala pena partiti di làche una testacuriosa sbucò fuori da un vicino cespuglio. Indiraffidato dalla solitudineun uomo ne uscì con tutta la personaravvolto in un bruno man­tello;strisciando a guisa di serpenteattraversò il sentieroe si cacciò da caponell'ombrain una macchia di lentischiche risaliva lunghesso l'erta delcolle.

 

CAPITOLO IV.

 

L'ONNIVEGGENTE.

 

Già impallidiva Istarla lucida stella del mat­tinoe ilcielo biancheggiava all'orizzonteallor­quandosul più remoto terrazzo dellareggia di Semiramideapparve un uomoo troppo nemico del sonno ristoratoreodesideroso di respirare le prime e le più pure aure del giorno.

Egli era alto della persona e di valide membra; indossava unagran tunica nerafrangiata d'oro sui lembi e lunghesso il giro delle ampiemaniche ricadenti sui fianchi; portava a mo' di diademaintorno alla fronteuncerchio d'orodonde la folta capigliatura gli ricadeva inanellata sul collo; labarbafolta del parinerissima e ricciolutagli scendeva sul pettodandorisalto al visonotevole per le maestose fattezze e pel colore bianco smortodella carnagionea contrasto colle labbra porpo­rine e colle sopraccigliad'ebanosotto cui scintillava il mobile smalto delle profonde pupille. Era unabellezza di granitola sua; bellezza nobilecontegnosa e freddache comandaval'ammira­zione e non ispirava l'affetto. Così apparivano terribilmente belli icolossi di pietra sul limitare dei templi; cosìmirabilmente severelungo lepareti babilonesile immagini dipinte dei sacer­doti e dei re.

Immobile come un nume di pietraegli stette a lungo lassùcolle braccia conserteritto sull'altanain atto di guardare agli estremiconfini del cielodove veniva a mano a mano crescendo un'ampia lista di lucezona ranciata da primaindi accesa di porporache circondava la nereg­giantepianura.

Egli non era lieto per fermo; ben lo dicevano le cigliaaggrottate e lo sguardo fisoche pareva cercare le invisibili regionidove hala sua culla il solementre forse lo spirito irrequieto si ad­dentrava negliabissi inesploratidonde scaturisce il pensiero. E così rimanevaguatando epen­sandoraccolto in sè medesimocome un colosso circondato da tenebreilquale aspetti la luceo come un'anima smarritasopraffatta dai casila qualeaspetti da lontano evento un consiglio.

Poco stante fu giorno; lo splendido sole asiaticoimprovvisamente apparso all'orizzontelevandosi maestoso in un cielo dimadreperla azzurrinainvestì de' suoi raggi la dormente città e sfolgorò inpiù puntiriflesso dal dorso lucente delle sue cupoledalle facce delle suepiramididai fianchi delle sue torri.

Quella vista lo riscosse dalla sua immobilità pensosa. Eglisi volse allora ad un altare di pie­tra che sorgeva nel mezzo dellapiattaforma; frugò tra le ceneri che ingombravano il focolare e ne scoverse icarboni ardenti tuttavia; vi ac­catastò la stipa in bell'ordine; poscia sifecein atto religiosoa soffiarvi super destarne la fiamma. Indi a poco lavampa si accese e crepitòcercandosi la via per mezzo agli aridi tronchimentre egliinginocchiatosie sollevando le palme alla crescente fiammataveniva mormorando le sue preghiere al dator della vita.

-"Io invoco te in questa purissima fiammaio celebrotecreatore Ahuramazdaluminosori­splendentemassimo ed ottimoperfettonelle opere tuemente e bellezza supremapossessore della vera scienzafontedi gioiatu che ci hai creatiformati e nudrititu il santotul'intel­ligente tra gli esseri.

"Tu sei verotu lucido e splendentetu causa prima ditutte le ottime cosedello spirito che è nella naturadi ciò che nasce dalsuo fianco ge­nerosodei corpi luminosi e di quelli che splen­dono di lucepropria; tu il verbo creatoreesi­stente avanti il cieloavanti l'acquaavanti la terral'alberoil toro ed il fuoco tuo figlioavanti l'uomoveridicoavanti i Devas e gli animali car­nivoriavanti tutto l'universoavanti tutto il bene da te creatoe avente il suo germe nella verità.

"Come il verbo dalla volontà supremacosì l'effettonon sussiste se non perchè procede dalla verità. La creazione di ciò che èbuono nel pen­siero e nell'azioneappartiene nel mondo a Mazda e il regnoappartiene ad Ahurache il proprio suo Verbo costituì distruttore deitristi."

Dette in ginocchio queste preghierel'ultima delle qualiogni sacerdote di Ahuramazda dee ri­petere cento volte al giornoegli trassedi sotto all'altare una coppa di argento e vi spremè il succo dell'amòmodell'arbusto nodosoche portaper insigne privilegio celesteil nome piùantico di Dionella sacra lingua dell'Iran. L'hom (tale è il suo prisconome) si riputava per ciò il primo degli albericome il toro era detto ilprimo tra gli animali. Consacrato davanti all'altareesso era la medesimasostanza di Dio; bevuto dal sa­cerdoteesso era Dio che si trasfondeva nelpetto dell'uomo.

- "Io ti volgo la mia preceo Homelettissimo Homchedài la giustiziala purità e la salvezzaottimo di formasplendido di lucevittoriosoche hai nome di aureo!"

Spremuto il succo nella coppaalzò questa con ambe le palmeverso la fiammae ne sparse al­cune gocce sugli ardenti carboni.

- "Per questa sola coppa che io ti presentoo datord'ogni benerendimi tu quattroseisettenovedieci per uno; ricompensamitu in questa guisa; dà la purezza al mio corpo. Veglia su mepurissimo Homottima tra le sostanzescendi tu stesso in mesorgente di vita. Aprimiosantis­simo allontanator della morteaprimi le dimore celestisfolgoranti dilucepiene di felicitàsu­perbe di gloria." -

Ciò detto accostò la coppa alle labbra e bevve ilconsacrato liquore dolcissimoa mala pena spremutoma che tornerebbe fatale achi lo bevesse dopo fermentato. Tale era il sacrifizio del fuocotale l'offertadell'amòmopresso le anti­chissime genti dell'Iran.

Il sacrificatore proseguìlevando le palme all'altare:

- "Come tu ardi in questa fiammacome tu regni neicielicosì regna in terrao possente Ahuramazda; così stendi il tuo divinoimpero dai culmini dell'Iran fino alla pianura del Sennaar e più oltre ancorafin dove stridono i flutti del mare allo inabissarsi del sole. Possa Babiloniapossa il popolo delle quattro favelleinchinarsi alla tua leggeo spirito diverità! I suoi astri ve­neratiche sono essi al cospetto della tua luce? Lesfere celestile forze arcane della naturado­vranno sempre usurpare il tuoluogoo creatore di tutto ciò che ènell'ordine degli spiriti eterni e dellecose mortali?" -

Così dissecon fervido accento nella sacra lin­gua diJavan; così diè fine alla preghiera e si alzò per chiudere il rito. Un lievemoto del capo gli consentì di vedere dietro di sèpochi passi discostoov'era un altr'uomo genuflessoe un sorriso di superba contentezza sfiorò lesue lab­bra. Fingendo tuttavia di non avvedersi della presenza di quell'altroegli attese con minuta cura a rasciugare la coppa e a gittar sul fuoco gliavanzi del sacrificio; quindi finalmente si volsee andò con piglio affettuosoincontro al nuovo venuto.

Era questi un giovinettole cui strane sem­bianzecomandavano l'attenzione. La grazia in­genua degli atti e del sorrisolaeleganza un tal po' impacciata delle forme e una certa inconsapevol ferociadello sguardopareano contendersi l'impero su quell'aspetto di adolescente e lofacevano rassomigliare ad un lioncellodai cui moti elegantima già disoverchio baliositrasparisce la forza e la crudeltà degli anni maturi.Sorridevano le labbra corallinema tumide di voluttà e d'orgogliolievementeombreggiate dai peli vani della pubertà nascente; si rappicciolivano gli occhisotto le cigliain atto tra ossequioso ed amorevolema lucidi e fissipromettitori di lampi; soavi erano i contorni del visoma sotto quella brunacarnagione si vedeva correre vivaceimpetuosoil sangue della stirpe cussita.Egli appariva un misto di fierezza più che virile e di dolcezza fem­minea;cose del resto assai facili ad accoppiarsi nella umana natura. Per altrola suatenera età lo ravvicinava più ancora al femmineo; aiutando a questa apparenzala sua bianca tunica frangiata d'orocon sopravveste violaceala mitraaggra­ziatadai capi pendenti sugli òmerie la collana di gemmechedintornava un collo soavemente tondeggiantesiccome è delle donneo deigiovani.

Alzatosi in piedi sollecitol'adolescente si mosseanch'egliper farsi incontro al maggiore.

- Padre mio- diss'egliinchinandosi nell'atto di riceverl'abbraccio di quell'altro- sia Ahuramazda con tee i sommi Dei di Babiloniadel pari! -

Aggrottò l'altro le ciglia a quelle parole del giovane.

- E' sono inferiori suoi; t'è già notoo Ninia; - risposeegli con aria di paterno rimprovero; - eglinoquanti sonoadorati dalla stirpedegli Accadobbediscono a luicome i sei Santi im­mortali e la innumerevoleschiera degli spiriti da lui creati nel tempo. Da lui viene la luce che dàsplendore agli astri del cielo e infonde virtù agli elementi; in lui solo è laverità supremala bel­lezza e la forzal'origine e il fine di ogni cosacreata.

- È vero! - disse l'adolescentereclinando la testa sulpetto.

Piacque all'altro l'arrendevolezza giovanilea cui del restos'aspettavae il suo accento si fece ad un tratto più dolce.

- Or dunquemio Niniaconsacriamo queste ore agli utilistudi. Purificato dalle mattutine ablu­zioni e dalla preghieratu leggerai leprime ta­vole del Vidaè Vadàtache è la legge di Ahuramazda contro glispiriti malvagi. Tu vedrai come egli abbia create le schiere celesti percombattere la potenza del malei sei genii Amsciaspandii benefici Izède daultimo i Fervercustodi del­l'uomo nelle pugne della vita.

- Savio Zerduste.... - entrò a dire peritoso il giovinetto.

- Orbene?

- Questa mattina non puoi tu concedermi li­bertà? I mieigiovani compagni mi attendono per una cavalcata fuori Imgur Bel. Si va fino alvil­laggio di Lahirudonde si cominciano a scorgere le alte torri di Sippara.

- E dove è così dolce il riposo sotto le palme di Gomer; -aggiunse Zerdustecon accento da cui trapelava il sarcasmo. - Non è egli vero?

- Che vuoi tu dire? - esclamò Niniaarros­sendo. - Sirimane per breve ora colàa risto­rarci dalla fatica e far posare i cavalliall'ombra dei tamarischi.

- Bada a teNiniabada a te! - proseguì Zerduste senza pormente alle scuse. - Ahriman ti vuol suo. Il negro spirito ti fa velo agli occhidi gioie terrestriper disviarti dal retto sentiero. -

Il volto dell'adolescente si rannuvolò.

- Ma dimmisapiente maestro- disse eglinon senza un talpo' d'amarezza- questa diritta via sarà ella dunque e semprela via deldolore?

- Non già; - rispose Zerduste; - fine della vita è lagioia; ma il savio impara a viverein­nanzi di prender cammino. Due sentieriguidano alla meta; aspro e malagevole il primoirto di rovi e povero d'ombreconsolatrici; facile l'altro e pianosmaltato di fioriliberale di lietefragranzericco d'amabili incanti. S'attenga al primone pa­tisca animoso leangustiechi vuol giungere spe­ditamente al fine desiderato; guai a chisceglie il secondoimperocchè Ahriman s'appiatta insidioso tra i ramipersuade all'animo i fallaci consiglie ad ogni fior che si cogliead ogni oradi soave riposo che si gustafugge la vita veloce e l'intento s'oblìa. Odimio dolce figliuoloche tale ben posso chiamarti per l'affetto del cuor mio; noncedere alle blandizie dello spirito maleficotu che hai potuto intravvedere gliarcani splendori del vero; non ti adagiare nelle mollezze anzi tempotu che seinato alle nobili cure del regno. Strana fiac­chezza è la tuao sangue diNemrod! Dov'è la tenacità di propositidove l'ardire e l'ambizioneche tifacciano degno de' tuoi possenti maggiori?

- Faticose virtù! - rispose Niniasospirando. - Pur troppodovrò conoscerle un giorno e saper come pesano! Babilonia ha un gran remiama­dree vogliano i sommi Dei.... voglia Ahuramazda- soggiunse prontamenteil garzone- serbarla lunghi anni all'amorealla gloria del suo popolo.

- Ti ascolti Bahmanlo spirito protettore della regiaautorità; - disse asciuttamente Zerduste; - ma egli è debito tuo di preparartiai supremi voleri; è colpa grave in te il non far degna stima dei doni celesti.Oh Ninia! - incalzò egli con accento inspirato; - che vuoi nascondermi? Il tuoFerveril tuo genio tutelareti vede; egli ti ac­compagna dovunque; egli tilegge nel cuore; egli non m'ha nulla celato.

- Che dici tu mai? - chiese Niniacon aria da cui trapelavapiù incredulità che sgomento.

- Che tutto mi è noto; - incalzò Zerduste; - che i tuoigiovani amici ti traggono su d'una via perigliosae che io non ho abbastanzavegliato su te.

- Mainfine.... - balbettò l'adolescente; - di che miriprendi? Io non so di avere in cosa alcuna fallito. Se ignoti nemici ti hannodato a credere....

- Non ischermirti così! - interruppe quell'altro. - Zerdustenon ha bisogno di gente che venga spiando i tuoi passi; egli sa tuttotuttovedee perfino i più riposti pensamenti dell'animo. Ne dubiti? Orbeneallaprovaed ascoltami; narrerò a Ninia il segreto di Ninia. -

Il giovinettotremanteconfusosi lasciò cadere sopra unsediledi contro al parapetto del ter­razzo. Zerdustein piedi davanti a luitranquillo e severo a guisa di un giudicecosì prese a par­largli:

- Era il mattino del terzo giorno di Bagayadiscche è dettoa Babilonia il mese di Sivan; giorno sacropei seguaci della vera lucealdivino Ardibehestpei vostri sacerdoti al sanguigno Nergal. Non sono adunquetrascorsi da quel giorno molti altri- notò Zerduste- poichè Bagayadisc nonè giunto ancora a mezzo il suo corso. Un regio adolescentediletto adAhuramazdasebbene e' non sia nato sotto la sua leggenè ancora egli credaalla sua onnipotenzagaloppavaseguito dauno stuolo di cavalieritutticoetanei suoiscelti tra i primi di Babiloniafuori di Imgur Belsulla viache risale lunghesso l'Eufratefino al villag­gio di Lahiru. Colà giuntifecero sosta nella mac­chia di tamarischi che scende con dolce pendìo finoalla riva del fiume. Il solealto nel firmamentodardeggiava sulla pianura gliardenti suoi raggiconsigliando i baldi garzoncelli a chiedere un'ora di riposoal meriggio degli alberi. Uno di essitratto da giovanile vaghezzaera andatopiù oltre a ristorar le membra nelle acque scorrenti. E làmentr'egligiàtornato alla rivastava contem­plando quell'ampia striscia di liquido argentoche volgeva con poderoso corso agli amplessi della sua città predilettaglivenne vedutanuotante a fior d'acquauna graziosa figura di donna....

- Padre mio! - esclamò Niniaturbato.

- Sì- proseguì Zerdustesenza por mente allainterruzione- era una vezzosa fanciullache veniva nuotando verso di luilàdai palmeti di Gomerdi cui si vedevano sorgere i tronchi sottili e incurvarsii lunghi rami verdeggianti dalla riva sinistra dell'Eufrate. Un candido lino lecustodiva il capo e gli òmeri dalla vampa del sole; una ciotola di terra leposava sulla mancaalzata fuor d'acquamentre con la destra ella venivafendendo il flutto per avvicinarsi alla spondadov'era il garzoneimmobileestaticoa contemplarla.

"Vieni a mevezzosa fanciulla!” le gridò eglicomefu certo che ella potesse udirlo. E la fan­ciulla poggiando a destra sulbraccio distesosi fece più presso alla riva. Certo ella conosceva per lungouso quel tratto dell'Eufrate; imperocchècome fu giunta a forse cinquantapassi distante da luisi lasciò cader rittaper toccare il fondo col sommodei piedie leggierasaltellantea guisa di danzatricesi affrettò al lidocon la sua ciotola eretta sulla palma all'altezza del viso. Così a mano a manoegli vide sorger dall'acqua il suo corpo snello e flessuoso come un tronco disa­licecoperto di una bianca tunica che le si ag­giustavacosì mollecom'eraalla personase­guendone fedelmente i graziosi contorni.

"Nerilucenti i capeglivivide le pupille per profondiriflessi di zaffiroma velate a mezzo da lunghe e morbide cigliacolorate leguance come il frutto del melagranopareva la voluttà discesa sulla terra informa di donnaper volere di Mazdainnanzi che lo spirito tentatore lavolgesse a danno degli uomini. Il collo nitido a guisa di avoriosvelto edagile come quello del cignosorgeva con soavissima curva dai mal celatite­sori del seno palpitante. Sorridevano timidamente le labbra di corallolasciando scorgere due file di perle che non han le più candide i maravigliosirecessi del mare.

"Timidopalpitante del pariil giovinetto si accostòa leiche balzava sul lidoprofferendogli la sua ciotola ricolma di latte. Ebevve a lenti sorsipiù lenti che gli venisse fattoil fresco umore che gliera ministrato da quelle mani leg­giadrementre i suoi occhipiù sitibondi agran pezzabevevano da tutta la persona di lei i primi effluvi d'un'arcanadolcezza.

"- Come ti chiami? - le disse egli amorevole.

"- Anaiti- rispose la giovinetta.

"- II nome di una dea! - soggiunse il gar­zone. -Inveroal primo vedertiio t'avevo tolta per Daokinala moglie di Aoemersadai flutti del mare; che certo la vezzosa regnatrice delle onde non è piùbella di te.

"II volto della fanciulla si tinse del color dellafiammae il cuore di lui ne fu colmo di ebbrezza. È così amabile sulle guanced'una donna il ros­sore che le nostre parole fan nascere! Ambedue rimasero untratto in silenziocommossianelantiella con gli occhi a terraegli colguardo fisso in quel raggio di giovanile bellezza. Indifacen­dosi anche piùrossae con accento che diceva tutta la commozione dell'animola fanciullachiese a lui di rimando:

"- E tumio signorecome ti chiami?"

"- II mio nome è assai meno bello del tuo; - le risposeegli; - son Ninia.

"- Ninia! - esclamò ella alzando i suoi grand'occhiverso di lui ed abbassandoli tosto; - il principe di Babilu!

"E fu per cadere al suolotanta era la sua confusione.Ma Ninia si affrettò a sorreggerlae in cosiffatta guisaAhrimanche vigilaai danni della creaturali ebbe gittatisenza loro saputal'una nelle bracciadell'altro.

"Fu questo il primo incontroe non fu il solo. Duevolte ancora la vezzosa nuotatrice varcò la corrente del fiumerecando la suaciotola di fresco latte all'assetato garzone. Il terzo dìfatto più arditoegli non volse già ai tamarischi di Lahiru: bensìuscendo da Babilonia sullariva sinistra del fiumee lasciatisi indietro i giovani amicicavalcò ansiosofino ai palmeti di Gomer. Vuoi tu udire ciò che si bisbigliasse ierisullaquinta ora del giornoin quel nido di verduracelato agli sguardi profani?Poni mentee vedi se alcuna cosa è sfuggita al vigile orecchio del tuo geniotutelare.

"- Ti son io così cara? - diceva la fanciulla. - Non midimenticherai tu un giornoo mio principe?

"- Principe! - ripetè con accento di amarezza il regiogarzone. - Tutti mi chiamano cosìe il nome mi suona sgradito. Tu chiamamiNiniail tuo Niniail fratelloil giovine amico del tuo cuore. Dimentichiamola reggia; nessuno mi ama laggiù!

"- E tua madre? - gli chiese Anaiti?

"- Mia madretu dici? Io l'amoe credo che ella miami; ma le gravi cure del regno la distol­gono sempre da me. Mi ama Zerdusteil savio principe dei Mediche la regina mi ha dato a maestro e custode. Miama! - aggiunse sospi­rando il garzone. - Lo dice; soventi volte lo dice; ma ionon ho mai visto il sorriso di quel­l'uomoil sorrisoin cui si manifestano idolci sensi dell'animail sorrisoche mi fa parer più bello il tuo volto e m'innondail cuore di così nuova dolcezza! Sempre gravecupoaccigliatoè Zerdustepauroso come il suo diocircondato di spiriti invisibiliche riempiono le mienotti di arcani terrori. Con te son lietoAnaiti; bella e pietosa comel'auroratu sperdi le tenebre adden­sate su metu mi rinfranchi lo spiritoabbattutomi rechi la fedela speranza e l'amore. Non son queste le treconsolazioni della vita? E non è bello che mi vengano tutte da te?

"Così ragionando eglie la fanciulla risponden­doglicon la muta eloquenza degli occhi radiantierrarono a lungo sotto i palmeti diGomer. Colà Ninia vide per la prima volta la casa di leiumile tugurio dipescatoridove si nasconde quel mi­racolo di leggiadriacome entro vil glebail dia­mante. Ma essa non vi rimarrà a lungose a Ninia sarà dato dicolorire i suoi amorosi disegni. Nel cuore della rusticana fanciulla si agitanocon­fusi i desiderii e le ambizioni della donna. È soltanto dell'uomo ilrestarsi ignaro e contento nell'umile stato a cui lo condannò la natura; ladonna in quella vecesol che le arridano gioventù e bellezzapuò levarsi inaltofors'anco apparir degna di un trono. Non è egli veroo Ninia? Non èciò che tu pensi?" -

Così Zerdustecon progressione implacabileera venutoscoprendo i più riposti segreti di quell'a­nima giovanile. Niniaattonito daprimaindi sgo­mentitoesterrefattolo aveva ascoltato tacendo.

- Padre mio- gridò egli finalmentecon voce lagrimosanell'atto di buttarsi ai piè di Zerduste- se tu la vedessi! Ella è cosìbellaed io l'amo tanto! Strappami il cuorese così ti piacema non strapparNinia da lei! -

Zerduste lo rialzòsenza profferir verbo.

- Non mi dirai tu nulla? Non mi perdonerai tu? - chiese ilgarzone con supplichevole accento. - Se io ti ho mal conosciuto finoranonvorrai tu condonarlo alla mia giovinezza inesperta? Sìio lo vedolo sento;tu sei il ministro d'un Diotu che sai ogni cosatu che leggi nel profondo deicuorionniveggente maestro!

- Non io- soggiunse umilmente Zerduste- ma i santiAmsciaspandigli Izedi Ferverinvi­sibili spiriti che t'incutono spavento.Eglinoper altronon fan paura ai saggi; chi segue la legge di Mazda non hanulla a temere da essi. O Niniaed è il tuo labbro che ha potuto giudicarmicosì malamente? Non t'amo! Non hai veduto mai Zer­duste sorriderti! E che?Dovrei io allegrarti di vane lusinghecome una vil femminettaio che hopromessa la mia vita agli arcani della divi­nitàio che consumo le nottisulle tavole sacreio che nutro il tuo spirito dei reconditi veri?

- Padre mio! - gridò Niniapiangente. - Sono colpevole;qual pena m'infliggi?

- La preghieramio figliola preghiera che innalzerai altrono di Mazdanel fervore dell'anima tua. Ancor lungo cammino ti è mestieridi cor­rereinnanzi di giungere alla vera sapienza; ma la fede e la preghierapossono farlo più breve. Tu allora accosterai sicuro il labbro al calice delleumane delizieche non avrà più veleno per te.

- Maestro- disse il garzoneriaprendo il cuore allasperanza- e se io avessi questa fede.... se io ti giurassi....

- Va; - interruppe Zerdustesorridendo la prima volta aldiscepolo; - Ahuramazda non è un tiranno dei cuori. Va coi tuoi giovani amici;ma pensa....

- Che egli regna in cielo- prosegui il gio­vinettoesultante- e che tu sei il suo ministro sulla terra. Io lo adoroe ti amo. -

Così dicendoNinia era per inginocchiarsi ai suoi piedi.Zerduste lo trattenne con piglio amo­revole e lo strinse al suo seno.

L'adolescente col cuore in festail volto sfavil­lante digioia e il piè leggerosi dipartì poco stante da lui. Lieto al pari di Niniama di più profonda allegrezzaZerduste rimase solo lassù.

- Grazie- esclamò eglilevando gli occhi e le mani alcielo- grazie a teAhuramazdalume delle animesignore della gente di Javan!Sei tu che vinci quest'oggie l'abbattimento di questo lioncello del sangue diNemrod mi è presagio felice. -

Indi misurando la piattaforma a passi concitati e sicuricome d'uomo che ha piena balìa di sè medesimo e degli eventisi volse aguardar la città sottoposta e le alte moli scintillanti da lon­tano nelcospetto del sole.

- BitzidaNiprùti- soggiunsefissando lo sguardo sullatorre delle sette sfere e sulla pira­mide sacra alle fondamenta della terra-i vo­stri Dei cadranno; la fiamma purissima di Mazda arderà sulle vostre cime.E tusuperba reginadisprezzami! Il mio giorno verrà; nè te salve­ranno ifavoleggiati natali dal grembo di Dercetoo venturiera d'Ascalona! -

In quel mezzo un uomo apparve sul terrazzo.

- Mio signore... - diss'egli.

- Che vuoiThuravara?

- Il re d'Armenia si è mossocon la sua ca­valcata dalbaluardo di Nivitti Bei. Tra un'ora egli sarà in vista del ponteper venirealla reggia.

- Ben venga! - esclamò Zerduste. - Tu vanne e sii pronto alcomando. Io sarò tra breve nella gran sala di Neboad aspettar la regina. -

Thuravara s'inchinòe disparve giù dalle scale onde eravenuto.

- Ben vengasì! - proseguiva Zerduste. - È pena acerba lamiama sarà acerba la vendetta del pari! Ahtu l'hai volutaSemiram? E sia!Militta Zarpanitche ti ha ministrato il dolce ve­lenonon potrà profferirtialtrimenti il rimedio. -

 

CAPITOLO V.

 

LA REGGIA DI SEMIRAMIDE.

Siccome il vigile Thuravara aveva riferito a Zardustelacavalcata degli Armenientrando dal baluardo di Nivitti Belaveva già fornitobuon tratto di strada per mezzo ai quartieri occiden­tali della cittàavviandosi al ponteche ne congiungeva le membra vastissimeattraversate dalfiume.

Ristorati da una notte di riposoastersi dal su­dore edalla polvere del lungo viaggiocoperti dei loro arnesi più sfoggiatiicavalieri del re d'Armeniafacevano vistosa mostra di sè ai citta­diniaccalcati lunghesso le vie. Si notavano le sciolte criniere dei cavallisbuffantile lunghe spade pendenti dal fiancole luccicanti faretrei lunghiarchi ad armacollo e le mitre folte di ne­gri peli che davano ai montanari diPeznuni e di Armavir un così marziale aspettofacendo così spiccato contrastocon le gentili e quasi muliebri fogge del popolo babilonese.

Ma gli sguardi della moltitudine erano in particolar modoattratti dalla nobil figura del re. Era costume dei monarchi lo andare incocchiocon l'auriga dai piedi e il portatore d'ombrello da tergo. Il giovineAra veniva in quella vece più modestamente a cavalloma con assai piùvan­taggio per la sua grande bellezza. Calze di por­pora si aggiustavano allegambe nervose ed eleganti; una tunica di bianca lanaricamata d'oro sui lembigli si stringeva ai fianchi; la clamide regiaanch'essa di porporagliscendeva in molli pieghe dagli òmeri; la benda di perle portata da' suoimaggiorigli girava intorno ai biondi capegli. Il piedechiuso in un sandalodi morbido cuoioposava su staffa d'oro; la candida mano stringeva i capi delleredini gemmatesplendenti sul poderoso collo del suo bianco palafrenoa cuiuna pelle di leopardo serviva di gualdrappa.

"Ara il bello! Ara il bello! - gridavano i cit­tadinidi Babiloniacome giàvedendolo passareavevano il giorno addietro gridato ivolghi subur­bani. - Inveroegli non si è mai veduto un più leggiadrogarzone sulla terra di Sennaar. Come la regina nostra risplende per sovrumanabel­lezza tra tutte le donnecosì questo nobile stra­niero tra gli uomini.Ara il bellosii tu il benve­nuto in mezzo al popolo delle quattrofavelle!" Cosìper tutta la lunghezza del cammino che il re di Armeniaaveva a percorrereil mormorio d'am­mirazione destato dalla sua vistavenivaa mano a mano rompendo in esclamazioniin grida di esul­tanzain affettuosisaluticome di popolo osse­quente e devoto al suo reanzichè di nazioneavventurosa e superba al suo tributario. E tutticome potevanoa spingersiinnanzie far ressa intorno al suo palafrenoche durava fatica ad inoltrarsisebbene una fitta schiera di soldati ba­bilonesi lo precedesseper isgomberareil passo al regale cortèo.

Nel cuore di Ara il bello tornava a regnar la mestizia. Egligià sentiva la vicinanza di Semiramide; pochi istanti ancora e si sarebbetrovato al cospetto della grande regina d'Assiriadi colei che signoreggiava ilpiù vasto impero del mondo. E l'immagine di Sandidel suo povero amicogal­leggiante sull'acque dell'Eufrategli stava sempre nell'anima. Perdiscacciare quella crescente tri­stezzaegli pensava allora alla nottevegliata nel sacro bosco di Militta; pensava alla sua bellissima sconosciuta;pensava ai dolci colloquiialle ineffabili ebbrezze che ancora gli scaldavanoil sangue. E quella donna adorata non aveva forse giurato esser la reginainnocente della morte di Sandi? Poteva egli mentirequel dolcissimo labbro? Nocertoed egli credeva alle parole di lei; maper contropoteva amarSemiramide chi l'avea tanto odiata fino a quell'ora? Poteva an­darne conallegrezza alla reginachi ricordava d'esser sangue d'Aìco e non sapevadissimulare a sè stesso di venire in atto di tributario alla gente di Accad?Poteva avvicinarsi desideroso alla donnacelebrata per insigne bellezza nelmondochi aveva pur dianzi veduta ed amata la bellissima tra tutte?

Atossaera il suo nomeil soavissimo nome che lasconosciuta gli aveva susurrato all'orec­chio. Altro non aveva egli saputodell'esser suo; ma bene aveva argomentato com'ella fosse una tra le piùriguardevoli donne di Babilonia. E non avrebbe egli dovuto vederla tra breveinmezzo alle nobili compagne della regina? A volte lo spe­ravao almeno glipareva che ciò fosse proba­bile: ma un dubbio acerbo gli stringeva il cuore evi soffocava per entro quella lieta speranza. Una così maravigliosa bellezza!Mai più Semira­mide avrebbe patito la vicinanza e il paragone di cosìsplendida amica! Eppurenon gli aveva ella dettoa lui dolente di abbandonarlasui primi albòri del giornonon dubitassenon temesse di nullache presto eil'avrebbe di bel nuovo ve­dutaed ella medesima sarebbe stata la prima afarglisi incontro? Così procedevatra speranza e timore; frattanto venivarispondendo con atti cor­tesi alle grida e ai saluti del popolo.

Indi a non moltola cavalcata giunse alla svolta del pontemiracolo dell'arte babiloneseche col­legava le due sponde dell'Eufrate e idue palazzi regalil'uno a riscontro dell'altroambedue maravigliosi avedersi. Il primoche era posto sulla riva destragirava trenta stadiirinfiancato di alte mura merlatesu cui si vedevano impresse figure dicombattenticittà assediatee lunghe file di prigionieri supplicanti. Di làdal ponte torreg­giava la gran mole dell'altrosopra un terrapieno di sessantastadiia cui si giungeva per ampie salite lateralivigilate ad ogni ripiano dacolossi di pietra. Aveva un giro di quaranta stadii il se­condo recintoornatodi ogni specie d'animalicosì diligentemente condotti e coloritiche pareanospiranti di vita. Nel terzo recintoche era la cit­tadellasi ammiravanorilievi e dipinti di più egregio lavoro; tra essi una cacciain cui lefi­gure apparivano alte di quattro cubiti e più. Quivi era effigiataSemiramide su d'un focoso destrieronell'atto di scagliare il giavellottocontro una pan­tera. Poco discosto da lei era Ninoil suo sposoche d'uncolpo di lancia traffiggeva un leone.

Tutto ciò era stupendo a vedersi da lontano; vera montagnadi edifizi sovrappostiselva intricata di strane forme e di svariati colori;immani ar­chitravi e fregi e merlature correnti per lunghis­simo ordine sucolonnati di palme; tori e leoni alati con faccia umanaqua e là fieramentepian­tati a custodia degl'ingressi; lunghe aste vario­pintedalle cui cimesventolavano stendardi e orifiamme di porpora; scale e balaustrate di marmo;mura lucenti di smalto; varietà infinita di coseche confondevano lo sguardosenza nuo­cere alla grandiosa unità del complesso! E sui ter­razzi più altil'occhio discerneva padiglioni e ve­lariitesi a riparo del solefra mezzo adalberi verdeggiantiòasi sospese tra cielo e terra da un capriccio di donnada una fantasia di regina.

Come fu giunto il corteo sull'altra riva del fiumela scortadei babilonesi si fermò e si aperse in due aleper cedere il passo agliArmeni. Il giovane re attraversò la spianata e andò difilato verso l'ingressodella reggiache gli era addimo­strato da due leoni colossalil'uno ariscontro dell'altroin atteggiamento di riposo.

Colà stavano ad attenderloper fargli le prime accoglienzei grandi della corteil gran mag­giordomoil gran coppiereil capo deglieunuchiil comandante delle guardie realicon numeroso seguito di ufficialiminori e di servi. Tranne que­sti ultimitutti indossavano il candilungatu­nica di lana scarlattacon frangia d'oro sui lembila quale risaliva suldinanzi infino alla cinturaparimente d'orodonde pendeva la spadacon leinsegne dell'ufficio di ciascheduno. Gli apparte­nenti alla miliziain cambiodi mitraportavano in capo una tiara foggiata ad elmo chiusoche copriva lorole guance ed il mento.

Il gran maggiordomofacendosi incontro al re d'Armeniacosì parlòlevando in alto le mani:

- Ben giungio discendente d'Aìcoalla reggia diSemiramidenostra gloriosa signoracui Belo ha concesso la vittoria dellaspada e l'impero dello scettro sui potenti della terra. In quella guisa che Saniregna nel cielo e diffonde per ogni dove i benefizi della sua lucecosì ellaregna in Babilonia e sparge i tesori della sua amicizia sui regnatori dei popoliche la circondano. -

Il re d'Armenia chinò leggermente il capoma senzarisponder nulla. Gli eunuchifattisi innanzi a lor voltapigliaronoossequiosamente le redini del suo cavalloper condurlo entro il primo recinto esu per l'ascesa che metteva al piano superiore. Così salendo in compagnia degliufficiali babilonesiil giovine Ara potèalla prima svolta dell'ampio vialescorgere dietro a sè la lunga fila de' suoie il popolo di Babilonia accalcatosul ponte e sulle rive del fiume.

A quel grandioso spettacoloun altro ne seguìquando eglifu giunto all'altezza del secondo ripianovasto piazzale dintornato da nobiliedifiziov'erano gli alloggiamenti di tutti i grandi della corte. Colà stavanoin bell'ordinanza schierati i guerrieri della reginasplendidi a vedersi nelleloro corazze di linocoi loro tondi scudi imbracciati e gli elmetti di rameluccicanti al sole. Alla vista del re d'Armenia squillarono le tromberimbombarono i timballi percossie il canto guerre­sco degli Accad si levòfino al cielo.

La cavalcata proseguì fino al secondo ingressovigilato dadue enormi tori dall'aspetto umano. Cessarono i canti ed i suoni ad un trattoesul limitare comparvero i sacerdoti de' sommi iddii protettori di Babilonia.Alle vesti d'oro si cono­scevano i sacerdoti di Samil dio solea quelled'argento i ministri di Sinche è il dio luna. Ve­stivano di nero i sacerdotidi Ninipdi aranciato i sacerdoti di Merodacdi scarlatto i seguaci di Nergaldi bianco quei di Milittad'azzurro i de­dicati al culto di Nebo. Di pietrepreziose apparivano tempestate le tuniche e le tiare dei venerandi; frangied'oro ne ornavano gli orlie ghiande di smeraldo pendevano dai lembi.

- Gli Dei ti proteggano o re d'Armenia; - gli disse il gransacerdotelevando le mani in atto di benedirlo. - Insegni a te la prosperitàdi que­sta reggia come soltanto dal patrocinio degli Dei gli uomini derivinoogni loro fortuna. Soltanto mercè l'aiuto celeste i re salgono in fama per leloro virtùcamminano nelle vie della giustizia e si raffermano nella santitàche li fa degnidopo mortedegli onori divini. -

Ara chinò gravemente il capo e rispose:

- Tu parli il veroo santissimo. Un re a cui venga meno ilsoccorso celestevaga nelle tene­bre a guisa di cieco. Gli abitatori delfirmamento azzurrocomunque nomati tra le genti vostre e le mieassistanosempre il popolo delle quattro favelle! -

Ciò dettospinse il cavallo sul limitare ese­guito dalvenerando stuolopenetrò nel terzo re­cintodonde si ascendeva all'ultimaspianata della regia piramideinnanzi al palazzo della grande signora diBabilonia.

Lassù lo aspettava una scena più maravigliosa a gran pezza.Davanti a lui si stendeva una piat­taformalunga cinque stadii e larga permodo che dieci cavalli vi si potevano muover di frontesenza occuparne imargini di pietral'uno dei quali correva lunghesso il parapettoornato agiuste distanze di figure simbolichee l'altro circondavacome una fascia dicandido linoil magnifico peristilio del palazzoformato da colonne di palmache sorreggeano capitelli di granitostranamente foggiati a chimeresireneedaltre creazioni fantastiche. La piattaforma era vuotain attesa degli ospitiche dovevano schierarvisi in bella ordinanza; per control'intercolonnioappariva folto di gentetra cui erano primi i trecento portatori di scettroministri dei regali vo­lerisplendidi a vedersi per le lunghe vesti di porporae d'oro e per le ricche tiare che strin­gevano loro le chiome inanellate elucenti. Infinesul peristilioper quanto era lungosi scorgeva un terrazzochiuso da una balaustrata di mattoni dipinti a smaltoe sormontato nel mezzo daun padiglioneo velariopartito a liste di varii co­lori; sotto il qualecircondata dalle sue ancellestavasi la regina ad attender l'arrivo del suotri­butario d'Armenia.

Il gran maggiordomoche veniva innanzite­nendo per manole redini del palafreno di Araannunziò al cavaliere la presenza della regina.E il principe allora si fermò in mezzo alla piat­taforma; alzò gli occhi alterrazzomettendosi una mano sul petto; indi si tolse la benda di perle dalcapotrasse la spada dal foderoe depose queste insegne del suo potere tra lemani del gran maggiordomoil quale fu sollecito a racco­glierle e sollevarlecon palme tese verso la re­ginache dall'alto sorrise e con lo scettroaccennò cortesemente di gradire l'omaggio.

A quel cenno squillarono da capo le trombe e risuonarono itimballi percossi. Il re d'Armenia scese d'arcioneper avviarsi all'ingresso;intanto i suoi cavalieri e le salmerie sfilavano sulla piat­taformasotto gliocchi della regina.

Portavano queste salmerie i donativi del re alla grandesignora di Babilonia; massi di rame naturale cavati nelle montagne di Armenia;pezzi di lapislazzoli tratti di Atropatenea levante del lago di Van; tappetidi finissima lana intessuti a varii colori nelle lunghe veglie invernali dalledonne di Peznuni; cavalli piccoli e fortivelocissimi al corsocresciuti nellemandrie regali di Armavir. E in quella che il gran tesoriere disa­minava iricchi presentie gli eunuchi aritmetici venivano con canne temperate annotandoogni capo su rotoli di papiroi servi della reggia conducevano i seguaci del red'Armenia alle stanze loro assegnate per alcune ore di riposoinnanzi chefacessero ritorno ai loro alloggiamenti fuori il baluardo della città.

Guidato dal gran maggiordomoseguito dai sa­cerdoti e daiportatori di scettroil giovine Ara entrò nel vestibolodove gli fu datal'acqua ospi­tale alle maniinsieme con soavi profumi e ri­storo di gratebevandeche adolescenti bianco­vestiti versavano dalle idrie capaci. Quindi adun cenno recato dagli eunuchiil re d'Armenia fu introdotto nella sala diNemroda cui si ascen­deva per un'ampia gradinatain mezzo a due file di torigiganteschiemblemi della possanza divinale cui vaste ali erano dipinte diazzurrola tiara di rossole corna e l'ugne dorateladdove il voltochefigurava l'umanoaveva il color delle carni e gli occhi apparivano di personavivaattraverso la vitrea scorza di smalto.

La saladetta di Nemrod dalle imprese di quel reche vierano narrate in caratteri cuneiformi ed espresse in bassorilievi lunghesso leparetiera di sterminata grandezza. Le muraqua e là rinfiancate da enormipilastri foggiati a colonnemisuravano ottanta cubiti e piùdallo zoccolo dimarmo colorato insino al fregio dell'archi­travedonde si partivano i correntidel sopracielocondotto in legno di odoroso cipressosfarzosa­mente dorato eaperto nel mezzo alla luce del giornoche scendeva temperata da un velario diporpora.

Tra le colonne messe ad orocon scanalature dipinte dirossoerano vaste quadratureognuna delle quali divisa orizzontalmente in dueparti; la superiore rivestita di mattoni lucentii cui rotti disegniconcorrevano a formare in ogni interco­lonnio l'imagine della divinitàsupremach'era un cerchio con entro una figura d'uomo alatoil quale stringevanella manca lo scettro e teneva la destra alzata nell'atto dello insegnamento;l'in­feriorepoicoperta di tavole d'alabastroraffer­mate al muro daramponi di ramesulle quali erano scolpite scene di guerra e di caccia.

Vedevasi in una di queste il fortissimo Nemrodpotentecacciatore nel cospetto di Ilucorrer sull'orma di un leonepiagato dalle suefrecce. Su d'un'altra era incisa la torre delle sette sfere celestilasciata amezzo per la confusione delle lingue. Altrove il gran re presiedeva allafonda­zione di Erech; più oltre si vedeva nel suo coc­chio di guerraconl'arco teso in pugnonell'atto di scacciare Assurfiglio di Semdalla terradi Sennaar.

Seguivano le imprese di altri re della stirpe cussitadaBelfigliuolo di Nemrodinfine allo sposo di Semiramideil felicissimo Ninoche si vedeva raffigurato in più tavolegiusta il numero delle sue vittorie.In una di quelle scultureil gran monarca era effigiato sul suo tronod'argentocon la tiara ricinta dal regio diademala veste bianca frangiatad'oro e due servi da tergol'uno de'quali in atto di agitare il flagelloemblema del suo assoluto poterel'altro con le armi del re tra le manimentredavanti al trono passavano lunghe file di vinticoi polsi legati dietro lespalle. Più oltre si vedeva l'assedio d'una città fluviatile. Gli assediantispingevano torri di legnocariche d'armaticontro le muradall'alto dellequali il popolo assediato si difendeva gagliarda­mente scagliando frecce ebitume infuocato. Da un altro lato della cittàle donne fuggivano su carritirati da buoied uomini paurosi si gittavano a nuotoaggrappandosi ad otrigonfiatigiusta il costume dei luoghi.

Di contro ad uno di questi scompartimenti della salaergevasi il trono di Semiramidealta e splen­dida mole d'argento e d'orosormontata da un padiglione di bisso e sorretta da figure di popoli vintiallaquale si ascendeva per parecchi gra­dinicoperti da un sontuoso tappeto. Ilcerchio e la immagine alatasimbolo della divinitàsplen­devano per aureiriflessi e per vivezza di smalto sopra lo scanno della regina; e intorno aquestodistribuiti sui gradini del tronostavano immo­bili ed ossequiosi iflabellifericon alti ventagli di penne di pavonei meloforicon le armi inpugnosignificanti la virtù guerriera di Semiramidee i portatori di scettrointerpetri e ministri de' suoi cenni regali. Seguivano le nobili compa­gnedella reginasfoggiatamente vestite: indi tutti gli altri uffiziali di cortedigradanti via viatanto erano essi numerosilungo le pareti della sala.Tutt'intornopoiguerrieri sfavillanti nell'armisuonatrici d'arpa e dicetramusicisti in buon numeroancelle e schiavidiversi di nazione e difogge.

Semiramidebella come il sole nascentesfol­goravadall'alto. La copriva dalla radice del collo insino alle piante una tunica dibissotinta in vio­letto di porpora marina e partita in mezzo da una largastriscia biancaintessuta di ricami d'oro e di gemme. Una sopravvestesimileal peplo argivoscendeva in molli pieghe dal colmo senoratte­nuta daun'aurea cintura e coperta a mezzo da una gorgiera a sette filze di pietreprezioseagateonicicrisolitilapislazzoliperle d'ambraligurini egiacinti. Le bellissime braccia apparivano ignude infino al sommo degli òmerie anelli gemmati ne facevano risaltare vieppiù la marmorea bian­chezza. Nelladestra teneva lo scettroinsegna del comando; nella sinistra il fiore del lotoemblema delle sue conquiste fin sulle rive dell'Indo.

Una gioia profonda e calma traspariva dal volto della reginail cui riposato atteggiarsilasciando i soavi contorni in tutta la loro serenamaestàdiceva l'onesto compiacimento della bellezzache è sicura di vinceredovunque ella si mostri. I suoi grandi occhi neriaccortamente allungatigiusta il costume orientalela mercè di sottilissime lineeimpresse conpolvere stemperata d'an­timoniotramandavano una luce intensa e pene­trantecome di zaffiro incontro ai raggi del sole.

Per mezzo alla gran moltitudine regnava un alto silenziocheben dimostrava la regia potenza di Semiramidepiù che non la raffigurasseroagli occhi del re d'Armenia tutte le splendidezze di quella salain cui metteapiedeguidato dal gran maggiordomo.

Poco prima di introdurlo alla presenza del tronoquestiaveva detto al giovine re:

- Sai tumio signorequal sia il nostro co­stumenell'accostarciumili o grandialla maestà regale?

- Io no; - aveva risposto Ara; - e qual è il vostro costume?

- Prostrarci a terra e adorare. Sì- ripigliava il granmaggiordomonotando un gesto di ripu­gnanza del principe- la più belladelle nostre leggi è questache ci comanda di onorare i re e di onorare inessi l'immagine degli Dei conser­vatori d'ogni cosa creata. A temio signoreomag­gio in Armavircome a Semiramide nella sua reggia di Bàbilu. -

Il re d'Armeniabene intendendo il senso ri­posto di quelladistinzione del suo introduttorenon aveva più fatto parola; elasciandoloincon­sapevole de' suoi propositiera entrato nella sala di Nemrodavviandosicon passo modestoma sicuroin mezzo a quelle due ale di cortigianiche siprolungavanolasciando vuoto un gran­dissimo spaziodai lati del tronoall'ingresso.

Lungo era il camminosterminatamente più lungo tra quelladoppia fila di sguardiche egli ben sapeva tutti rivolti sul nuovo venuto. MaAra non sentiva turbamento di ciò; bensì gli cuoceva di aversi a porginocchionicome ogni altr'uomodavanti alla signora di Babilonia; e venivaap­punto maturando in cuor suo il proposito di ri­stringere l'ossequio ad uncortese inchinoche egli del resto avrebbe fatto di gran cuore alla donna.Foss'ella stata la sua divina amica! Come sarebbe caduto volentieri ai piedi dilei! Altra maestà sopra la sua non conosceva il re d'Ar­menia fuor quella.

Andando così verso il tronoavea intravvedutocome inbarlumeuno stuolo di donnee il cuore gli aveva dato un sobbalzo. Ahfoss'ella nel numero! E ciò pensandos'era fatto in volto del color dellaporpora. Intantoun mormorìo di ammirazionecorrendo sommessamente tra lafollasalutava l'apparire di quel baldo garzonela cui bellezza accrescevadecoro al gradopiù assai che il grado non facesse risaltar la bel­lezza.

Giunto egli finalmente a' piedi del tronosi fermòerecatasi la destra al pettochinò il capo da­vanti alla reginadi cui nonaveva pur contem­plato il sembiante.

- Gran Semiramidevivi in perpetuo! - egli disse.

- E tu purenobil sangue d'Aìco; - rispose una vocemelodiosa dall'alto.

Tremò egli in udirlae il sangueacceso ai me­mori suonigli scorse con impeto al cuore. Alzò gli occhi a guardare e li abbassòprontamentecome abbacinato da una gran luce; indi gli parve di aver maleveduto e risollevò le pupillema per chinarle da capo. Fu un batter d'occhiofu un lampo; e in quel lampo si stemprò la nerezza del giovineche caddeallora sulle ginocchiacon­tro i gradini del trono.

Semiramide gli era venuta incontro amorevolee lo avevapreso per mano. Eglia stento rimet­tendosi in piedima non riavutosi dalcolpola guardava inebriato e confuso.

- Regina.... - balbettò eglinel rialzarsi da terra

- Atossa! - gli susurrò la regina all'orecchioconcarezzevole accento.

E presa la benda di perleche un donzello recava insieme conlo scettrosopra un ricco cuscinola rimetteva con le sue mani sul biondo capodi Ara.

- Sorgire d'Armenia! - diss'ella con piglio maestoso. -Ecco il tuo scettro; impugnalo per la felicità del tuo popolocome haiimpugnata la spadaper terrore de' tuoi nemici. Figlio d'Aràmotu non seitributario di Semiramidema alleato ed amico. -

Indivolgendosi ai grandi della sua corte e alla moltitudinecongregataproseguì con voce sonora:

- Il re d'Armenia è l'ospite nostro. Amicizia eterna regnatra l'aquile della montagna e i leoni della pianura. -

 

CAPITOLO VI.

 

IL CONVITO.

 

Il sole era già presso al tramontoallorquando la reginain compagnia di Ara e dei grandi della sua cortesi mosse dalla sala di Nemrodper recarsi al convitopreparato in onore del suo ospite d'Armenia.

Portava la costumanza babilonese che i re siedessero a mensain dispartee i loro convitati più ragguardevoli o ben volutia un'altra dirincontroma divisa della mensa regale la mercè d'una fitta cortinaper modoche il monarca ve­desse a sua posta i convitatied eglino in quella vece nonpotessero bearsi nelle regie sembianze. Per altrone' giorni di corte banditala mensa era una sola e vastissimaalla quale il re famigliarmente sedeva efaceva mostra di sènon di­stinto dagli altri commensalifuorchè per loscanno d'oropel suo vino e per la sua acquadi cui a nessuno era concessoberesenza suo comandoche era grazia profumata e segno d'alta ono­ranza.Inoltrenelle grandi solennitàche ricor­revano di radosi facevanopubbliche feste; e al­lora le mense regali si tenevano all'apertosedendo ilre alla più elevata di tutteinsieme coi grandi del suo regno.

Un pasto solo si facevae lunghissimopro­tratto fino atarda oradopo finite le molteplici cure del giorno. Gran copia di vivande siconsumava per l'uso della cortesquartandosi fino a mille capi per dìtrabuoicavallionagrica­mellimontoni e capretti. La selvaggina e il pesceerano pure in buon dato; e tutto ciò s'imbandiva da prima alle tavole deigrandi; indi passava a quelle dei minori ufficialitornando i copiosi rilievialle cucinedove si satollavano i servi e i soldati di palazzo.

Davasi nelle mense il vino spremuto dalla palma e dalmelagranonon essendo a quei tempi nella terra di Sennaar coltivata a tal usola viteche prosperava più presso al mare nella regione di Janaan. Il panefacevasi allora comunemente con la farina di durache è il sorgo; quella difru­mento traendosicon grave dispendio e a mostra di regio fastodallelontane pianure di Mesraimfecondate dal Nilo. I pubblici banchetti eranori­schiarati con luce di nafta ardente in acconci vasicollocati a giustedistanze su tripodi e candelabri di bronzo. A più ristrette brigate dava lucegratissima l'olio di sesamodi cui erano imbevuti lucignoli di bissosporgentida lampade di rameo d'argilla rossaleggiadramente fregiate di neroameandrighirlandedisegni capricciosi e figure fantastiche.

Quel giornoessendo il convito in onore del re d'Armenialemense erano poste nel cortile degli orti pensilivastissima salaaperta su trelati e sorretta da colonne addoppiate di marmo. Veli bianchi e violettiappesicon anelli d'argento a funi di bisso e di scarlattosi stendevano tra leco­lonnedolcemente gonfiandosi alla brezza leggiera e profumatache venivaattraverso una siepe di gelsomini e di cedri.

Tutto intorno erano disposte le tavole di legno odorosocoperte di candide tovaglie listate di porpora. In fondo alla sala vedevasi lamensa più elevata e più adornacon l'aureo scanno della regina a capoeletti d'argento in girosopra un pavimento foggiato a disegno con tesselli dipor­fido e di marmo biancodi granito e di mischio. Splendeva sul biancodrappo il vasellame d'orogloria del paese d'Ofirdonde allora traevasi ilprezioso metallo; e da alti vasi di porcellanasmaltata a vivi colorisilevavano a mazzos'in­chinavano ad ombrelloi fiori più svariati e piùrari: la ninfea dai bianchi petali schiusi; il nepentoda cui si stilla ilfarmaco per cacciar la tristezza; il giglioonore delle convalli; la rosailgelsomino e la madrangolache spandono le più soavi fragranze.

Coppe d'argentoegregio lavoro dell'arte babiloneseguastade di vetroche mandava ai regna­tori di Sennaar la pur mo' nataindustria di Tirostavano davanti ai convitatiinsieme con piattellinid'argilla colorata e lucentecon spatole d'a­voriodal manico di metallocheservivano per accostare i cibi alla boccae coltelli di selcefina­mentearrotatiper tagliar le vivande. E mentre i coppieri dalle idrie capacimescevano il vino dolcissimo della palmae l'acqua fresca dalle anfore dicretainternamente strofinate con man­dorle amare a fine di renderne piùgrato il saporegli eunuchi venivano in lunga fila dalle cucinerecando supiatti di bronzo grossi quarti di buedi onagro e di caprettoche poscia gliscalchi fa­cevano destramente a spicchiper imbandirli alla nobile comitiva.

Erano inoltre portati sul descofagiani piumatiperniciova di struzzopesci enormi dell'Eufrate e del Tigrioliveporri e cipolle diMestraim. Andavano da ultimo in giro i bossoli di cedroleggiadramenteintagliatiche serbavano i condi­menti e le salse; grani d'amòmoche dannoodor così vivo; di anetoche stimola le forze inerti o languenti; di cominoetiopicoche rende più fa­cile il bere; di silfio cirenaicoil cui succospre­muto è la più gradevolema altresì la più dispen­diosa lautezza delmondo.

Ad ogni nuova imbandigione si udivano con­certi di arpedicetree di flautiche accarezza­vano mollemente l'orecchio. I musicisti nonerano già nella sala del convitobensì tra le piante dell'attiguo giardino;donde avveniva che i suonipiù rimessi e più blandicome di musica lontananon soverchiassero i lieti ragionariche fanno più grato il piacer dellamensa. Luceabbondanza di cibi elettisplendori dell'artefragranze edarmonieformavano un misto di gaudii ineffabiliuna vera festaun tripudiodei sensi.

Il re d'Armeniaattonitoquasi smemorato per maraviglia ditante grandezze che lo attornia­vanoconfuso da tanta novità di casi che loavean sopraffatto in un giornopiù ancora inebbriato dalle acri sensazionid'un amore che così aper­tamente dimostrava la irresistibile potenza dei fatisedeva alla destra di Semiramide. Di rin­contro a lui il saccanàcoo gransacerdotevi­cario degli Dei di Babilonia; più in là il principe dei Medil'onniveggente Zerduste; indiseduti in ordinesecondo l'altezza del gradoiprimarii uffiziali del regno.

Lontano era Ninia; ma il regio adolescente non era usoassidersi alla mensa maternanè parte­cipare alle solennità della corte. Lamaestà del dispotismo orientale non consentiva divisioni d'im­peroo digloria: soltanto il reil malca divinodoveva stare al cospetto de' suoigrandiservitori tuttiossequenti e paurosinè altrimenti sceverati dalvolgose non pel regio favoremutevole a guisa di vento; nè altri del suosangue potevalui vivo e regnanteemergere dall'ombra discreta del ginecèoper offrirsi alla vista e all'adorazione de' sudditi.

Oltre di cheil giovinetto non era egli felice in quell'orafuori le porte di Babiloniaal fianco della sua diletta Analti? I due colombigemevano sommessamente il loro cantico de' cantici in riva all'Eufratesotto ipalmeti di Gomer. Così aveva consentito Zerdustel'affettuoso maestro.

Il principe dalla mente profonda e dallo sguardo acutosedeva calmotranquilloimpassibilealla mensa di Semiramide. Aveva egliamata mai la regina? Ciòpel volgo dei riguardantiera chiuso nel più altosegreto. L'amava egli ancora? Non ne traspariva nulla da quell'aspetto marmoreo.Semiramide istessacosì avvezza a scernere l'amore negli ossequii ond'eraattorniataSemira­mide istessase avesse potuto in quell'ora ram­mentarsid'alcuna cosa che non fosse il suo ospitee volgersi a scrutare quel mutosembiantea interrogare il lume di quegli occhi raccoltinon avrebbe potutoper fermo ravvisarvi i segni dell'antica fiamma. Amore che non si gradiscepocosi vede e facilmente s'obblia; inoltreil sentir di Zerduste era d'uomo alteromisurato negli attigeloso custode di sè; non altro poteva egli ve­dersi delcuor suose non quel tanto ch'egli vo­lesse mostrarne.

Covava egli vendetta? O rodevaimpaziente e crucciosoilfreno della servitù del suo popolo? Mare profondo cela nel grembo oscuro ilsegreto delle sue collere e limpido azzurreggia il suo dorsopoco prima disollevarsi in legioni di flutti e di scagliarsi impetuoso alla riva. Tale eraZer­dusteriverito abitatore della reggia di Babiloniamaestro di saviezza alfuturo erede dello scettro di Nemrode ammesso ai consigli della gran ve­dovadi Nino. E Ilue Neboe tutta la schiera dei sommi Deicomportavano ciò?Ahimèforse nep­pure vi ponevano mente; quelle vivide luci fiam­meggiantidalla vòlta celestevigili in apparenzanon si prendevano cura delle cosemortali. E i Casdimsapienti indagatori del corso degli astriniente leggevanoper entro agli arcani dell'anime. Eglinoo forse non ancora ordinati asospettoso collegio d'ambizione sacerdotaleo forse più in­tenti a temperarel'onnipotenza del reche non a sgominarne i nemicinon pigliavano ombra diquel taciturnoentrato così innanzi nella confi­denza della reggia.

E sedeva egli a mensasorridendo e favellando dimesticamentecoi vicinia cui il bere snodava la lingua e annebbiava l'intelletto. Ma cosìascoso in quella confusione di allegrezzein quel deliziarsi dei sensilospirito suo aleggiava non vistoinvigilava le parolegli atti e gli sguardi. Ecerto in cuor suo non doveva esser lieto; imperocchè l'amore è possente comela morte e la gelosia aspra più dello inferno.

Frattantoil re d'Armenia era parco di parole oltre l'usatoche l'interno tumulto degli affetti non gli consentiva d'esser loquace. Moltoper controdicevano gli occhidonde traluceva la pro­fonda voluttàbevuta alunghi sorsi dal viso dell'a­mata. E gli occhi di Semiramide erano spessorivolti su luiin ciò accordandosi la prepotenza del desiderioal debitodelle cortesie ospitali. In que­gli sguardi erano lampiraggi di vivissimaluceche lui felice investivano e gl'infiammavano il sangue. Dov'eri tuinquell'orao Sandio rimpianto amico della sua giovinezza? Dove eravate voiseveri ammonimenti dell'oracoloparlante dai sacri platani di Peznuni?

Così è l'amore; inebbriante più del vino gene­rosodatore d'obblio più che non fossero le fa­voleggiate acque di Lete. E infinenon è egli ra­gionevole che ciò sia? Non viviamo noi forse per l'amoreperquesto dolcissimo tra tutti i sen­timentiper questa parte veramente divina dinoi? Ciò che siamo e ciò che vorremmo esserenon si riferiscono forse aquesto argomento della nostra operositàa questa cagione dei no­stri erroria questa meta fatale del nostro viag­gio? Come l'ape lavora istintivamente ariempire il suo favo di mielenon ci affatichiamo noi con assidua cura acomporre questo splendido innounica glorificazione che ci sia consentitaallavirtù ignota e possente che compenetra il mondo? È un sorriso di donna(adorabile sorrisosebben misto di lagrime) quello che ci saluta in sulnascereed è un sorriso di donna quello che può farci men triste il morire.Guai a chi è solo! ha detto il savio; ma che significa ciò? gli ar­ridanopure amici e ricchezzel'uomo è nullasenza l'amore; son tenebre ed ombra dimorteove raggio d'amore non splende. L'infernospa­ventosa visione dell'uomoche primo tremòal prolungarsi soverchio d'una notte jemalenon avesse aricomparir più il sole nel firmamentol'inferno è luogo muto d'ogni luce ed'ogni ca­lore ai viventi; oracalore è affettoe luce è bel­lezza. Dateall'uomo la sua dolce compagnaed egli n'avrà lume d'ispirazioneardore digrate fatiche. L'antichissimo fondatore dei civili con­sorzii non fu del tuttoinfelicepotè consolarsi del suo gramo destinose donna innamorata lo seguìportando volenterosa con lui il peso della maledizione celeste.

Ed essala dolce compagnasenza di luiche sarebbe? In luisi compie il suo destino; in lui è il sostegno e la guida; egli il fiore edella il profumo; l'uno all'altro necessarii a vicenda. Date l'uno nelle bracciadell'altroe il mondo è in essi; rinascerebbese più non fossein quelledue vite confuse. E il passatoe il presentee il fu­turomemoriegioiesperanzetutto eglino sono a sè stessi; donde appar manifesto che possanoviver da solisenz'altra compagnia di viventi. E che questa sia lietaesistenzaun grande amore alcuna volta il dimostra. Un grande amore; ecco ildivino tra tutti i misterialtare e tempio a sè stesso! L'universo è contornonecessario e fatalesoventi volte giudice irososempre testi­monioincrescevole. Che farci? Si viveobliandolo; si comporta qual è; gli siperdonano le molestie che arrecama a patto di non mescolarsi a luidi nonseguirlo ne' suoi indirizzi volgaridi non vivere della sua vita. L'aurapregna di soavi fragranzerapite ai boschi natalipassa rasente alle casedegli uomini e segue noncurante il suo corso. I tristi vapori dell'abitato neturbano la delicata essenzapur troppo; ma lontano di làsotto la lucepurissima del soleper mezzo ai rami della selva vicinala gentil vagabonda sirinfrancasi rinnovella e dimentica.

La natura offre talvolta di simiglianti magnificenzea farprova del suo sterminato potere. L'aquila nei cieliil leone nel desertoilbaobab nella selvasono le sue maraviglie. Ella ha in­nalzato rupichecacciano la vetta infin tra le nuvoleargomento di pauroso stupore airiguar­danti; ella ha prodotto fiori di così acute fra­granzeche l'uomo nonpuò respirarle senza pe­ricolo. Ella di tanto in tanto dà vita a que' fortiintellettiche grandeggiano per mezzo alla uni­versale pochezza e governano emutano a lor posta gli eventi; ella accende quelle gagliarde passioni chesplendonofari solitarii ed eccelsinella penombra degli affetti volgari.Bellezza e gioventùforza e intelligenzasi vanno incontro desiosesiabbraccianosi confondono; e son prodigiose le nozzecome di giganti innanziad un popolo di pigmei. Inveroche sono quelle mi­gliaia di amori fuggevoliesanguimal vivial paragone di queste gagliardeintense e luminose passioni?Gran mercè se alla picciolezza infinita delle umane cose è dato di esserepavimento umi­lissimo all'arasu cui si sposano queste superbe inconsapevolifiamme. Così il genio di Omero vide il monte Idarecinto di nubi geloseessertalamo agli amori di Giunone e di Giovementre laggiùsulle rive delloScamandrosi azzuffavano due popolisperando testimoni alle lor collere iNumi. Quest'alta dimenticanza è la misura di cosiffatti amori possentisuperiori di tanto alle meschine consuetudini umane.

Cosìin mezzo all'esultanza del convitola re­gina e ilsuo ospitel'uno nell'altro feliciavevano dimenticato ogni cosa. Ara pensavache ella era innocente e calunniataquella bellissima tra le donnequellapotentissima tra le regine. La vici­nanza di lei cancellava dalla sua mente gliin­fausti presagi dell'oracolo. Unico dolore il pen­siero di dover tornareindi a non moltoin Ar­meniaalla sua reggia d'Armavirora più triste edesolata di prima. Ed anche questo pensiero egli lo aveva cacciato lontano dasè. Il destinoche lo aveva gettato inconsapevole nelle braccia di Semiramidenon avrebb'egli operato un altro dei suoi alti prodigi?

Ed ellafrattantopensava che il suo trono era cosìgrandeda potervi accogliere l'eletto del suo cuore; così splendidoda nondovervi accogliere che luiil più leggiadro degli uomini. Non erano essi fattil'uno per l'altro? E la naturacreandolinon aveva per l'appunto mirato a talfine? Così nella mente di quella donna innamoratail mondoBabilonialareggiaaltro non erano che un'im­mensa piramideinnalzata da Nisrocdalsignore delle sortiper collocarvi il loro amoreintensosfolgoranteglorioso sul vertice.

E gli occhi suoi dicevano tutto ciò all'inebbriato garzone.

Intanto erano levate le menseepel cader delle ombrenotturnetolti dal colonnato i velariiche facevano impedimento alla brezzaristoratrice. Mi­steriose luci splendevano in mezzo alle piante del giardino;in altodisseminate per la vòlta di zaffiroscintillavano le stelle.

- Sien grazie agli Dei! - disse il saccanàcolevando alcielo le mani. - Da essi ci viene ogni cosa. Il mondo s'inchina obbediente aBabiluche li onora e li venera.

- Ed ora- parlò la regina- mentre Sinco' suoi mitichiarori illumina il mondo e così dolce è il riposo allo spirar della brezzanotturnasi rechino a noi gli annali di Babilu. Il nostro gentile ospited'Armenia conoscerà da essi la no­biltà dell'amica gente degli Accad. -

A quelle parole di Semiramideil gran mag­giordomo si alzòper andare all'ingressodovead un suo cennocomparve sollecito lo scribadella setta dei Casdimal quale era dato in custodia l'archivio delle memoriebabilonesi.

Venuto innanzi alla reginalo scriba si prostrò fino atoccar colla fronte il suolo.

- Gran Semiramide- diss'egli poscialevando le mani versodi lei- possa tu vivere in perpetuo!

- Sorgi- disse a lui di rimando la regina- e mostraci lasuccessione dei sari e dei sosial giorno che Belil gran dio creatorebalzòfuori dal tempo senza limitiinfino a questo dì fortunato.

- Ciò che tu chiedi sarà fatto; - rispose al­zandosi daterra lo scriba. - Gli Accad hanno diligentemente notato ciò che ad essitramandarono i padri loro. I moti degli astrile apparizioni degli Dei e leglorie dei retutto è vergato nelle foglie di papirola mercè dei sacricaratteriche Oanne ha insegnati agli abitatori di Sennaar. -

Un alto silenzio si fece allora nella sala del convito. Loscriba si assise su d'uno scannodavanti alla regia comitivaerecatesi tramani un volume di papirone ruppe il suggello di creta; indisvolgendo lepaginecosì prese a leggerein mezzo all'attenzione universalegli antichiricordi della stirpe di Accad.

 

 

CAPITOLO VII.

 

LE PRISCHE ISTORIE.

 

"Nel principiotutto era tenebre ed acquaper entro acui si movevano confusi gli elementi di ogni cosa che è. Forme strane diviventi erano allora; mostri con due facce e quattro alio con due teste ecorna e pie' di caproneo di cervocentaurisirenetori dall'aspetto umano ecani che finivano in coda di pesceinsieme con molte altre specie di rettili eserpenti di smisurata lun­ghezza. In questa confusione di tutte cosere­gnavasilenziosa la gran madre Omoròcadetta anche Talattanel sacro idioma deiGasdim.

"E allora comparve Belil dio della luce e dell'aria.Venne egli con le sue innumerevoli schiere di Baalime d'un colpo della suaspada fiammeg­giantedivise Omoròca in due parti. Così furono il cielo e laterra.

"Ora avvenne che quell'immondo brulicame di mostri nonpotè sostenere la gran luce del Dioe giacquero spenti. E Bel ferì il suocolloe ne piovvero rivi di sangue. I Baalimseguendo l'e­sempiovimescolarono il loro e ne nacquero gli uominiper tal guisa ragionevoli epartecipi del­l'intelletto divino.

"Allora fu il tempo. Eavendo Bel creato le stelleilsolela luna e i cinque pianetiincomin­ciò l'età primaper la terra diSennaar. Dieci re vi regnaronoda Ailuro infino a Chisutroe fu questo tempodi centoventi sariognuno dei quali novera tremila e seicento rivoluzioni delsole.

"Ad Ailuroche fu il primo resuccedettero Alapùr edAmelon; a questiAmènnoneil pre­diletto dei cieli. Imperocchèessendoegli sulla riva del marevide emergere dai flutti Oanneil dio marinoil granpesceche ha voce ed aspetto umano. Questi non prendeva cibosiccome èco­stume degli uomini; appariva ogni mattina alla spiaggiae ogni seras'inabissava nei gorghi. Fu egli che insegnò ad Amènnone l'uso delle letteresacre e l'arti che fanno felici gli uominiil semi­nareil raccogliereilradunarsi a civile consor­ziomurare cittàedificar templi e far sacrifiziagli Dei.

"Prima di quel tempogli uomini non avevano legginèriti. Viveano essi sotto le tendeo va­gavano per la pianura a guisa di fiere;ammiravano le pietre e temevano il fulmineche si spri­giona dalle nubi. Madopo gl'insegnamenti di Oanneconobbero gli Dei ed offersero loro i fruttidella terra. Così nacque il culto di Oail nume emerso dai fluttiil re delmondo inferiore; di Belil risplendenteil demiurgol'ordinatore di Omoròca;di Iluil signore delle acquee così di tutte le altre personificazioni dellapotenza supremainfìno a dodiciaventi in sè doppia formavirile efemminea.

"Morto il savio Amènnonegli succedette Magalure aquesti poscia Davondurante il cui regno apparvero gli altri quattrolegislatori uomini pescie seguitarono la santa opera di Oanneinsegnando allegenti. Al re Davon tenne dietro Edurucnel cui tempo apparve il pesce Dagone;indi regnarono AmenfìnoOssiarte e Chisutro.

"Costoro erano giganti e vivevano oltre la mi­suraassegnata poscia ai mortali. L'ultimo di essiChisutroregnò diciotto sariinnanzi al giorno del diluvioossia sessantaquattro mila ottocento rivoluzionidel sole. Fu egli uomo piodotto delle antiche memoriea lui lasciate da' suoimaggiorile quali fe' incidere su tavole di pietrainsieme con la legge sacradei cinque comandamenti.

"Macome egli era pio e temente della giusti­ziacelestecosì non erano gli altri uominila cui malvagità si stendeva sullaterraspregiandosi comunemente la legge e corrompendosi ogni pen­siero. Dalunga pezza i saviiraccolti nella con­templazione degli astriprofetavano lafine del mondo; ma gli uominiinduriti nelle perverse consuetudiniavevano indispregio i certi segni del cielo.

"Allora il pesce dio apparve dall'onde a Chisutro;imperocchè questi aveva trovato grazia appo i celestie gli annunziòl'imminente diluvioche avrebbe travolto e distrutto ogni creatura vivente.Intendesse egli a costrurre una nave ed entrasse in quellaco' figli del suosangue e i familiari suoipreparandosi a navigaredappoichè l'ultima ora peimalvagi era giunta.

"- E dove volgerò io il corso? - aveva chie­stoChisutro.

"- Verso gli Dei! - rispose Oanne. - In essi soltanto èil porto di salvezza. Sta di buon animoo Chisutro! Le tavole della legge sacrae le an­tiche memorie de' padri tuoi seppellisci sotto la pietra angolare diSippara; sia la tua nave così vasta da poter contenere ogni sorta di cibisemidella terra ed animali utili al servizio dell'uomo; spalmala di bitume entro efuoricosì che essa resista all'imperversare delle acqueetosto che avraifinito l'opera tuachiuditi in quell'arca si­curainsieme co' tuoiperocchèin quel punto si squarcieranno gli abissi e comincierà la rovina dei flutti.

"Obbedì ai comandamenti Chisutro; e tostocon l'aiutod'un sapiente architettoche il pesce dio gli aveva indicatoattese allacostruzione della nave. E questa fu la misura della gran mole: cinque stadii pellungo e due di larghezza. Ivi entrò Chisutroinsieme con la mogliei figlisuoile mogli e i figli di ciaschedunoche moltissimi furono. E dentro la naveerano cibi in abbondanzasementi d'ogni pianta e una coppia d'ogni specieanimalilasciando fuori tutti quelli che nascono dal putridume e dai vaporidella terraimperocchè lo spirito di questi non è emanato dal sangue degliDei.

"Intanto gli abitatori del mondo perduravano nellaempietà e spregiavano Chisutroche in sì gran mole erasi messo a riparo. Maposciachè egli fu nella navecon tutti i nati e familiari suoiil cieloincontanente oscuròcadde la pioggia e il mare staripò con furia; Iluilsignore dell'acquesconvolgeva gli abissi. La nave allora fu solle­vata suifluttie un pesce di smisurata grandezza venne a collocarsi davanti la proraguidando il legno per mezzo a quella rovina di elementi sca­tenati. Era egliOanne medesimo; e Chisutro ben vide che la mano d'un dio li proteggevaimpe­rocchè il furore della tempesta e la violenza dei flutti niente potevanocontro di loro.

"Lunghi giorni durò la collera d'Iluper modo chetutti i monti più alti ne furono copertied ogni carne che si muove sullaterraperì. E come furono le eccelse cime così soverchiateincominciò ilgran mare a chetarsiil cielo si rattenne dal pioveree le acque andarono agrado a grado scemando. Raffidato da quell'alto silenzioChisutro mandò fuoridal tetto della nave una coppia di uccelliper sincerarsi se la terra fosse inalcun luogo scoverta; ma gli uccellinon avendo tro­vato cibonè luogo oveposarsitornarono a lui. Ed eglidopo alquanti giornimandonne altrii qualitornarono con le zampe imbrattate di fango. Altri finalmente ne mise fuoriiquali non tor­narono più; solatra questiuna colomba venne alla naverecando nel becco un ramoscello d'o­livo. Donde egli conobbe che la terrarinasceva dall'acque; e allorascoperchiata la navevide esser questa posatasu d'una vetta dell'Ararat.

"Il gran pesce era sparito; ma il sole splen­deva nelfirmamentoe di rincontro al sole si dipingeva nell'aria la luminosa strisciadell'arco­baleno. Smontò egli tostoinsieme con la moglieuna figliuola suae il sapiente architetto. E scesi che furono dalla naves'inginocchiaronoperba­ciare la terra; indialzato un altare di pietraadorarono gli Dei. Cheavvenne egli poscia di loro? I rimasti nella navenon vedendoli più ritornarescesero alla lor volta; nè altrimenti li ritrovaronosebbene con alte gridaandassero chiamandoli in giro. Bensì videro la nuvola con l'arcobalenoimpressovi sue dalla nuvola udirono la voce di Chisutroche sèla mogliela figliuola e l'architettocome primi discesi sulla terraannunziava rapitiin grato olocausto agli Dei; an­dassero i figli in pace e ripopolassero ilmondo: scendessero nel paese di Sennaarscavassero nelle fondamenta di Sipparaper ritrarne le tavole della legge sacra e i ricordi delle antichissime genti;indi vivessero felicicamminando nelle vie della giustizia e onorando i celestiche li avevano scampati dall'acque.

"Così fecero i figliuoli e nipoti di Chisutrodopoavere offerto il sacrifizio su quella medesima arache egli aveva pur dianzirizzata. Trassero fuori le sementie le sparsero nel grembo della terra; glianimalie li mandarono liberi per mezzo alle selve. La gran nave fu lasciatalassùdove gli avanzi rimangono tuttaviae del bitumegià fatto come pietrasalda e lucentesi cavano gli amuletiche preservano dallo sguardo malignodai sogni nefasti e dalle male sorti gettate.

"Queste le memorie dei primi abitatori della regione diSennaar. Ridiscesi i superstiti del diluvio alla pianurae moltiplicatisi intre figliuolanzesecondo il nome dei padri loroche furono ZeruanoTitano eJafetosi posero a edificarenon lungi da Sipparauna novella cittàallaqualeper esser eglino usciti salvi dall'acque invaditriciimposero il nome diBabiluossia la porta di Ilu. E foggiata a mattoni la molle cretae adoperatoa guisa di malta il bitume tratto dalla prossima fiumana di Ispresero a murarla città. In pari tempo cominciarono a innalzare una torre altis­simalaqualegiungendo con la cima alle nubifosse testimonio di loro possanza sullaterra.

"Ma erano eglino appena a mezzo il lavoroche ladiscordia entrò nelle loro favellee il tremuoto e la folgore dispersero queimonti d'argilla. E Sem Zeruanoil maggiore tra i principi loroavendo preso atiranneggiare le gentifu da Ti­tanodetto altresì Cam nelle prischememoriee da Jafetcacciato a settentrione del paese di Sennaar. E dalla suagente fu Cuspadre di Nemrodil possente cacciatore al cospetto di llu. Questiin­cominciò a comandare su tutte le genti dei quattro idiomie furonoprincipio del suo regnoBabilo­niaAccadCalne ed Erech.

"Nel tempo suoAssurnato dal sangue di Sem Zeruanodalle rive dell'Eufrate passò a quelle del Tigriove pose le fondamenta diNinivedi Reobotdi Cala o di Resen. Ed'altra parteAìcodel sangue diJafetricusando assoggettarsi alla pos­sanza del figlio di Cusandò co'suoirimontando l'Eufratefino alle terre di Araratove pose sua sede. ENemrod. da poi ch'ebbe stabilito salda­mente l'impero della sua stirpefutratto al cielo sull'ali poderose di Nisroc."

- Se ciò sia vero- pensò Ara in cuor suoa quel passodella lettura- lo dica il campo di Aiotzordove il Titano ebbe morte dallostrale del mio forte antenato. -

E reprimendo un sarcastico risoche gli era venuto allelabbrasi dispose ad udire la continuazione delle memorie di Babilu.

Ma la reginail cui sguardo innamorato ad ogni tratto siposava sul volto dell'ospitenotò quel moto delle sue labbrae con pensierocortese si fece a interromper lo scriba.

- Il grande progenitore dei re di Babilonia- diss'ellanobilmente- è morto da prode in bat­taglia. Correggi i tuoi annalio savioalunno della schiera di Casdim. Bene io credo che lo spirito di Bel Nemrod siastato rapito in cielo dal signor delle sorti; ma il suo corpodiligentementepla­smato di balsami e coperto di ricche vestiriposa sulla collina diKeresmannella tomba che la pietà del forte Aìco gli diede. È dei prodi nonserbar l'odiooltre la morte del nemicoe onorare con ogni lor possa lamemoria dei prodi. -

A quelle parole di Semiramide si alzò Ara com­mossoenobilmente rispose.

- Tu fai più dolce al mio cuore il debito della gratitudineo possente regina. Non è vile la stirpe di Aìco; ma quind'innanzi ella avràper massimo de' suoi vanti l'essere stata esaltata dalle tue lab­bradondescorre il miele della cortesiainsieme con gli aromi della sapienza regale.AìcoArmenàgoAramaisAmasiaKeganArma ed Aràmoprogenitori mieiesulteranno nelle lor tombe di Peznuni al soffio consolatore della tua lode.Grande è Babiloniae degna tu sei di regnare sul più forte popolo dellaterrao bellezza sovrumana e altezza d'animo veramente divina. -

Le guancie della donna leggiadra si tinsero in colore difiamma. Zerdusteil taciturnoa cui nulla sfuggivalampeggiò uno sguardoferoce.

- Possente signoradebbo io proseguire? - chiese umilmentelo scriba.

- A qual pro? Quindici età sono trascorse sotto la grand'aladi Nisrocdacchè Babilonia è sorta sulle ubertose rive dell'Eufrate. Chi nonricorda le opere dei discendenti di Nemrod? BabAnuvArbelCaelil secondoArbel e finalmente il gran Ninoche i sommi Dei hanno fatto partecipe aglionori celestiscrissero la loro istoria su queste paretine' sacri caratteridella gente degli Accade più chiaramente ancora nelle provincie conqui­statedi mano in mano all'impero. I Saci e gli Assùra a settentrionei Medi adorientegli Arabi e i Saba a mezzogiornoi Nabateii Cusii Carbaniti equanti son popoli sul mare del sole oc­cidentenarrano abbastanza la gloriadel popolo che ha nome dalle quattro favelle.

- Tu dimentichi- soggiunse il re di Armenia- le operetuele tue vittorieo regina. Balkinel paese di là dai Medie l'Indolontanodonde il sole si levatremarono allo scalpito del tuo cavallo diguerra. Al gran Nino piacesticosì per l'alto valore e per l'animo eccelsocome per la splen­dida bellezza del volto. Figlia prediletta della Dea che hail suo tempio in Ascalonanon diranno le storie i tuoi celesti natali?

- Non parliamo di ciò! - interruppe la regina. - Inmolte guise si spande e si tramuta l'adu­lazione del volgo. Io amo assai piùapparire qual sono veramentee chi mi conosce da presso m’avràsperopermigliore della mia fama a gran pezza. Più che nelle vane pompe della nascitaarcana e nella gloria dei superbi trionfiamo vi­vere onorata nella felicitàdel mio popolo.

- Gloria a Semiram! Possa ella vivere in per­petuo! -gridarono tutti gli astantiin un impeto di devoto entusiasmo.

Ed Ara fu lieto di unir la sua voce a quella degli altricommensali. Ma una felicitàuna eb­brezza pari alla suanon era nel cuor dinessuno.

Tarda era l'oraallorquando egli si alzò per togliercommiato.

- A domani! - gli aveva detto sommessa­mente la regina. -Debbo conferire di gravi cose con te.

- È la regina che mi parlerà domani? - aveva chiesto ilgarzone.

- Sìe te ne duole?

- Oh no- aveva egli aggiuntosospirando; - ma le parole diAtossa tornarono più soavi al mio cuore.

- Ingrato! - esclamò la regina. - Non hai tu ritrovatoAtossa sotto le spoglie regali di Semiramide? Così il re d'Armenia tenga fedealle pro­messe di Aracome la regina di Babilonia ricorda di aver perduto ilsuo cuore nel recinto sacro a Militta. -

 

 

CAPITOLO VIII.

 

LA VOCE DI SOTTERRA.

 

Partita Semiramide dalla sala del convitoil re d'Armenia fucondotto nelle sue stanze dal ceri­moniere di corte e da un drappello digiovaniche recavano faci per rischiarargli il cammino. Erano quelle stanze inun'ala lontana del palazzonei quartieri assegnati ai regali ospiti diBabilonia.

Colà giuntoAra dimandò d'esser lasciato soloricusandogli uffizi dei serviche erano posti a' suoi cenni. Egli aveva mestieri diraccogliersidi ordinare i suoi pensieri confusi. E cotesto era pur necessariodopo tanta varietà di strane ven­tureche gli facevano creder quasi d'esserestato in balìa d'un sogno bizzarro. L'arrivo suo in Babi­loniail tempio diMilitta Zarpanitla bella sco­nosciutai felici amori suggellati da un sacrogiuramentola donna diletta poco stante ravvisata sotto spoglie regaliilfasto della cortele grandi accoglienzequel misto di fragranze e di voluttàdi splendori e di ebbrezzeond'era stato ricintoabbagliato e compresosiccome un dio da una nuvola d'incensilo avevano tratto fuori di sègliavevano annebbiato l'intellettolo facevano dubi­tarefremereesultarevenir mancoquasi sen­tisse fallir sotto i piedi il terreno.

E inveronon aveva egli argomento di smarrir la ragione?Egliil giovine re di poca terra tra i montisceso in Babilonia a tributoegli conquistatore inconsapevole del più prezioso tesoro che al mondo fosse!Eglivenuto così a malincuorecon l'amarezza d'un triste ricordo nell'animaegli in un giornoin un'oraamante riamato di quella reginache pur dianziaborriva! Così era; così aveva voluto il destino; ed eglinon pure loringraziava in cuor suoma temeva non fosse che un sognoquella felicità dirapidi eventi; e implo­rava dagli Dei di non aversi a ridestare mai più. Donnacelestee veramente nata di Deacom'era ella mal giudicata da tutti! Ahlagioventù è ciecanon sa di quanto lievi apparenze si vesta la menzognaeporge troppo facile orecchio alle stolte voci del volgo. S'invidiasi odia e sicalun­nia così facilmente tutto ciò che sta in alto! In quella guisa che ilfango calpestato schizza sulle vesti del viandantela moltitudineche strisciaa terralargisce ai grandi le colpei viziond'è contaminata ella stessa.

Povera donna! Perchè ella era bellissimain eccelso statobuona e cortesecome tutte le anime grandisazia forse d'obbedienza edesiderosa di affettoi vanagloriosigl'improntii profani so­gnatori distragrandi fortuneavevano aguzzate fino a lei le cupide brame; erespinti daleiper­chè una donna d'alto sentire conosce l'amor men­tito e fuggevolecosì facilmente come il vero e profondos'erano riscattati delle altereripulsegittandole il loro fango sulle candide vesti. Egli è così facileinfamare una donna! Non è ella tutta quanta nella vita del cuore? Nel cuore sipuò megliosi dee soltanto ferirla. È donna; dunque impudica. È regina;dunque sanguinaria e crudele.

Povera Semiram! Lo aveva detto ella stessaed Ara benricordava le sue parole: "Nessuno amò la povera reginanessuno! Ella èsolasi sente sola nel suo vasto imperocome un'isola deserta sul mare. Ognunoin lei vede e desidera la regina; nessuno ha amata la donna."

Ed ora questa donnache finalmente aveva tro­vato chimeritasse l'amor suodi quali cose aveva ella a conferire con lui? Gravi coseaveva detto; ma ve n'erano forse di taliche non fossero quelle dell'amor loro?No certoe pensandoci meglioe meditando le ultime parole di leiparve ad Aradi aver colto nel segno. E così in nube egli ve­deva la sua diletta Armavirrappicciolirsi a mano a manoallontanarsi nel fondo e sparire. La sua Armeniail reame con tanta cura e con tanto sangue difeso dalla cupidigia degli Accad edalle correrie dei cavalieri Turanidoveva cadere per tal guisa in balla da'suoi vecchi nemici? Egliil pronipote di Aìcoavrebbe lasciata la suapic­colama nobile reggia tra i monti dell'Araratper salire sul trono diNemrod? A cotesto inten­devano le parole di Semiramide; cotesto traspa­rivadagli occhiera voluto dalla potenza mede­sima dell'amor suo.

Maper contronon c'era egli altra via? In cambiod'innalzarlo a sènon poteva la regina discendere a lui? Ninia era unadolescente: ma a qual principe ha mai fatto ostacolo l'età giova­nilepercinger corona di re? E Semiramidefatta grande dalle nobili arti del regnononsarebb'ella diventata grandissimacelebrata in tutte le età futureper altoesempio di amoreal cui cospetto impallidiscono e sfumano i gaudii del poterei sogni dell'ambizione? Piccolo era il popolo aicanoma forte; ed egliconfortato dall'amore di quella donnafatta compagna delle sue sortinondubi­tava di poterlo condurre animoso sul cammino della vittoria e di dareall'amata un nuovo regnoche nulla invidiasse all'antico.

In queste dubbiezzein questi sogni dell'anima amantesistava il giovane Ara; nè sempre pen­sandoimperocchè tal fiata il pensieroama po­sarsi e dormirementre gli occhi son destie va­gano intornovedendosenza guardareo guar­dando senza vedere.

Un mite chiarore si diffondeva per la camera dai lucignolid'una gran lampada di rameche pendeva dal soffittoilluminando le storiatepareti. Tenui fragranze di eletti aromi vaporavano da bracieri d'argentocollocati negli angoli. Poco lontano era il lettosormontato da un sopraccielodi porpora e coperto d'una coltrela cui lana era di cammello non nato. Marifuggendo ancora dal sonnoil re d'Armenia se ne rimaneva seduto sopra untettuccio di morbidi guancialidi contro al monopodio di cedroil cui piedeera bizzarramente intagliatoe il rotondo piano si nascondeva sotto uno di que'tappetivagamente intessutiche mandava a Babilonia l'arte famosa di Tiro e diSi­done. Su quel tappeto era posata una lucernuzza da manoe poco discosto daquella un rotolo di papirocollocato per modo da attirare lo sguardo.

E tuttaviail giovine Aracosì sovra pensieri com'eranonci aveva anche badato. Più e più volte i suoi occhi s'erano volti a quelrotoloma senza che l'animo lo avvertisse del pari. Senonchèin uno di quegliintervalli che l'innamorato garzone metteva nelle sue fantasticheriegli occhiposarono tanto sul misterioso involucroda destare la sua attenzioneefinalmente la sua cu­riosità.

Rimase un tratto dubbioso a guatarlo; indi stese la mano e loafferròin quella che si accostava alla fiamma della lucernaper considerarlopiù da vicino. Un suggello di argilla rossa chiu­deva il margine del foglioein quel suggello si vedeva l'impronta d'un cigno. Un brivido gli corsea quellavistaper l'ossa. Il cigno era l'em­blema consueto di Sandidel soavecantoreamico dell'animacompagno fedele della sua giovinezza.

Che voleva dir ciò? Un senso d'angoscia inef­fabilepenetrò il cuore del giovanee una voce arcana gli bisbigliò nel profondo chein quel rotolo suggellato si chiudevano le sorti della sua vita.

Sandi! Che voleva in quell'ora l'estinto da lui? Veniva forsea rimproverarlo di qualche suo man­camento verso la memoria dell'amico? Egliper fermo non lo aveva dimenticato; ma doveva egli altresì chiudere ad ogniaffetto il suo cuore? E perchè il triste fantasma veniva egli a turbargli ilsuo primo giorno di gioia?

Ma forse la presenza di quel ricordevole em­blema altro nonera che un giuoco del caso. Ara lo speròe ruppe avidamente il suggello.

Pochi versi di scrittone' caratteri accadiial­loracomuni alle genti della pianura e della mon­tagnasi leggevano sulla internafaccia del papiro; i primi nereggianti e visibiligli altri man mano piùincerti e sbiaditi.

Ed ecco ciò che Ara vi lesse:

"Tu ami e credi di essere amato. Oravuoi tu conoscereil vero? Sandiil tuo Sandite lo dirà egli stessopur che tu il voglia. Lagran luce ti aspetta. Ma badaper giungere ad essav'hanno terribili prove asormontarefatte soltanto per animi forti.

"Hai tu ardire? Hai tu sete di verità? Ricordi tul'antica amicizia? Davanti a tea' piedi della parete che reca scolpital'immagine del leone alatosi apre un vuotoche ti guiderà fino a me. Pensa erisolvi."

Null'altro si leggeva nel foglio. Soltanto segui­vano alcunisegni scoloritiche ad Ara non venne dato d'intendere. Da que' segnigli occhidel re d'Armenia corsero alla parete. Il leone alato vi si vedeva scolpito soprauna tavola di alabastro dipintoe pareva guardarloco' suoi occhi di smalto.Un sudor freddo gli corse a quella vista per l'ossae le chiome gli sirizzarono sulla fronte.

Senonchèa' piedi della parete si vedeva il pa­vimentoliscio e lucentesenza alcun segno che indicasse una apertura sotterranea. Ilre d'Arme­nia balzò in piedicorse laggiù e guatò lunga­mente il suolomainvano. Tornò allora al lume della lucerna e si fece a legger da capo ilpapiro. Un altro verso di scritto era apparso nel foglio.

"La botola è aperta; mettivi il piedeani­moso...."

Ara tornò a guardare. E appunto allora gli venne udito unrumor sordoun cigolio come di serrami smossi. E tosto una cateratta si apersediscesee una buca spalancata si mostrò nel pa­vimento.

Il re d'Armenia era prode tra i prodi; ma quello spettacoloe dopo quella letturanon era tale da lasciarlo tranquillo. Tuttavianonapparve infe­riore al suo nome. Vi hanno uomini che il peri­colo imminentenon che abbattererinvigorisce un nemico ignoto e invisibile? Un agguato?Suvvia! egli è dei valorosi il farsi innanzichecchè avvengae solamente aconforto della propria dignità. Mancano gli spettatori; che importa? Lacoscienza del prode non è ella presente a sè stessa?

Rittoimmobilecogli occhi sbarratirimase un trattoguardando la buca; indicome trascinato da una arcana virtùmosse a quellavoltasi af­facciò in sull'orlo e cacciò lo sguardo avido nel profondo.

Un pozzo di scale gli venne veduto là dentro. Si scorgevanoi larghi gradini di mattoni scender giù ad un pianerottolodonde un altrobraccio si partivavoltando ad angolo retto; ed altri a mano a mano andavano ingiù digradantila cui sequela si perdeva nel buio. Nessun rumore di passiodaltro di somigliantegiunse all'orecchio del gio­vane; tutto era silenzio inquel baratro; solo un alitoun senso lievissimoquasi un odor di fre­scuravenne di là dentro a sfiorargli la guanciacome per dirgli che quello non eraun sepolcroe che l'aria respirabile non vi faceva difetto.

Senonchèera opera di uomini o di spiriti ignotiquellavia che gli si parava dinanzi? D'uomini forsepensò Ara in cuor suo. E tornatopresta­mente alla tavola di bronzoafferrò il suo col­tello dalla fulgidalamache già aveva depostoe lo rimise alla cintola.

Frattantogli occhi suoi correvano da capo al misteriosopapiro. Altri versi di scritto nereggia­vanodal mezzo insino al piè dellapagina. Il re d'Armenia non lessedivorò i nuovi caratteriche gli offriva loscrittore invisibile.

".... scendi; quanto più scenderaitanto più saraiinnalzato alla conoscenza del vero.

"Odi una triste istoria. È già gran tempo che duepurissimi spiritiinviati da Dio a spargere la sua luce sulla terra di Sennaardimenticarono quiper l'amore di una figlia di Babiluil loro celeste mandato.L'ingannatrice strappò dal labbro di quegli illusi il motto d'entrata alleeterne dimoredov'ella fu pronta a sollevarsi in lor vece.

"Però il santo Iddio li punìconfinandoli in unachiostra profondasotto la torre delle sette sfere. Colà vivono in tenebrefitte; colà rimarrannosospesi per le cigliafino al dì del perdono.

"Pari a costoro è il tuo Sandi. Qui sta dolorando ilsuo spiritosotto la medesima terra ov'egli ha amato e piantosotto lemedesime acque in cui ha trovato la morte. Respingerai tu l'invocazione diun'animala quale non attende che te? Vorrai tu essere maledetto ineterno?"

- Ah no! - proruppe Aragittando il foglio e correndo allabotola. - Chiunque tu siaspirito immortale o astuto ingannatoreeccomi a te!Dovess'io lottare col negro fantasma di Nemrodson pronto. AìcofortissimoAìcoproteggi invocato il tuo sangue! -

E si cacciò entro la botolagiù per la segreta scalèadaprima con passo velocesoccorrendo­gli il lume che pioveva dalla sovrastanteaper­turaquindi a mano a mano più tardopoichè la luce veniva scemandosempre più ad ogni svolta di scale.

Del restoanche quel fioco raggio gli venne meno ben tosto.Un cigolio si fe' udire alle sue spalleindi un fragoreun urtoquasi dipietra con pietra. La cateratta si richiudeva su lui. Il re d'Armenia era comesepolto in quel baratro.

Nè di codesto gli dolsequantunque il richiudersi dellacaterattatogliendogli ogni speranza di ritornogli dicesse tutta la gravitàdel peri­colo. Il dado oramai era tratto. Non lo aveva egli forse voluto?

Brancolando con le palme distese lunghesso le muraproseguìallora il cammino e potè sincerarsi che le scale giravano a pozzocoi lorori­piani tutti ad uguali distanze. Peròabbastanza speditosiccome gliveniva fattoprocedendo tentoniandava egli allo ingiùnull'altro udendo cheil rumor dei suoi passisordamente ripercosso nel vuoto. E nello scenderegliricorrevano al pen­siero i lieti splendori del convitogli sguardi amorosidella reginatutte le allegrezze di po­che ore addietrofinite cosìmalamente per luiin quel buioin quel silenzio di tomba.

Per altroseguitando egli a calare nel cieco abissoincominciò ad udire un suono lontanocome un susurroun mormorio dalprofondo. Da principiogli parve inganno dei sensi; ma il suono si faceva piùdistinto; nè egli poteva intendere che fossepoichè di voci umane non glipareva certamente. In quel mezzoanche un po' d'aria manco soffocata era venutaa soffiargli sul viso. Certo ella spirava da fori aperti nello spessore deimuri. Intanto il suono crescevacrescevasordofragorosoflottante; indidasotto che egli l'udivaincominciò a farglisi sentire di fiancoe poscia sulcapoa grado a grado men fortemu­tato in brontolìo sommessofino a tantosi tacque del tuttolasciando il giovine Ara nel sepolcrale silenzio di prima.

Egli argomentò che quel fragor d'acque scor­renti venissedall'Eufrate vicinoe chemettendo la scala sotto il gran fiumela incognitameta del suo tenebroso viaggio non dovesse ormai esser lontana. Nè male erasiapposto nel suo giu­dizio. Difattipochi istanti dopoil pozzo delle scalefinivaed eglisempre attenendosi alla pa­reteconobbe di inoltrarsi sulpianosopra un androne sterminatoin fondo al quale gli parve di scorgere unlieve barlumesimile a quello che precedenelle fredde regioniil sorgere diun neb­bioso mattino.

Guidato da quel tenue filo di luceil giovane studiò ilpasso per afferrare la meta. Magiunto colàsi avvide che il suo viaggio nonera anche finito. L'androne riusciva ad una svoltad'onde un più vastosotterraneo gli si parò improvvisa­mente dinanzi.

Il chiarore là dentro appariva men fiocoma incerto sempreconfusotorbido di vaporiche davano sembianza di un denso fumo. Per altronessun senso di oppressura al pettoo di irrita­mento alle palpebreaccennavaa cotesto; senonchèper mezzo a quella nube immobile e fissatornavamalagevole discerner la via a pochi passi più oltre.

Il re d'Armeniaabbacinatoristette sotto il grand'arcodell'ingressoche era sorretto da smi­surati piloni. Doveva egli commettersilà dentro? Doveva egli dar volta? Prima di appigliarsi ad un partitovolleesser certo del fatto suoe con voce sonoracon accento deliberatogridò:

- Ho io fallita la strada? -

 

 

CAPITOLO IX.

 

LA PORTA DI BRONZO.

 

La voce del re d'Armenia si ripercossepiù e più volteripetuta sotto le invisibili arcate. Egli per alcuni istanti aspettòinutilmente una rispo­sta. Alla perfineuna voce si udìoa dire piùveramenteun'eco di voce lontanache gli diceva:

- No; fatti innanzi per mezzo ai vaporise brami giungere anoi. -

Quella vocesebbene aspettataturbò profonda­mente ilgiovanegli fe' batter forte il cuore e cor­rere il sangue precipitoso alletempie. Ma egli si riebbe tosto da quell'assalto di terrore istintivoe conatto risoluto si cacciò dentro a quel vor­tice bianco. Ai primi passi che egliebbe fatti là entromeravigliò grandemente di non riceverne alcun sensospiacevoleo altrimenti molesto. Quel vapor biancoanzichè fumopoteva dirsiuna nebbiaun nembo di polvere diffusa nell'ariae così fittache non gliconcedeva di vedere la strada due passi più avanti. Ed egli vi navigava peren­trosenza fatica o disagio; la fendeva facilmentesiccome un raggio disole si apre la via nel grembo d'una candida nuvolachelibratasull'orizzontevorrebbe contendergli l'estremo saluto alla terra.

Dopo alcuni istanti di quel viaggio nel vapo­roso stratolanube bianchiccia ed opaca comin­ciò a diradarglisi intornoed egli a mano amano potè scorgere una sequela di arcate e di smisurati piloni di pietrainmezzo ai quali s'inoltravaandando verso un punto luminosoche ancora nonpoteva distinguer che fosse. E allora gli venne alla mente il valico segretosotto l'Eufrateopera di Semiramidene' suoi primi anni di regnoe per tuttoil mondo celebrata audacissima tra le maraviglie di Bàbilu.

Per costruire questo valico sotterraneola re­gina avevafatto deviare il corso dell'Eufratemandandolo a scaricarsi in uno sterminatoser­batoiogià scavato a tal uopoche era largo tre­cento stadii per ognisuo lato e trentacinque piedi profondo. Cosìmentre il fiume veniva colmandoil serbatoio e allagava da ultimo la pianura a mezzogiorno della cittàsi eraposto mano alle fondamenta del sotterraneofacendo girare su enormi piloni digranito gli archi delle vôltele quali erano di mattoni cotticementatid'asfalto. La vôlta aveva quattro cubiti di spessore; le pareti eranorafforzate da una profondità di venti mattonie il sotterraneo misurava dodicipiedi d'altezzaquindici di larghezza. La famache tutto ingrandisceaveva afar credere più tardi che all'opera maravigliosa fossero bastati sette giornidi assidue fatiche; e certoad esaltare degna­mente l'impresanon era bisognodi cosiffatte invenzioni. Comunque fosse dei giorni spesi in quell'operaa malapena essa era stata condotta a termine e ricoperta da parecchi strati di bitumee d'argillail fiume tornava nell'alveo e la regina aveva il suo varcosotterraneoche congiungeva celatamente i palazzi delle due rivesiccome ilponte congiungeva le due parti della cittàalla luce del sole.

Ed egli stava per l'appunto in quel sotterraneo. L'immaginedell'amata regina era per tal guisa sempre davanti agli occhi dell'ospite.Mirabil donnachecosì giovane ancora e risplendente di tutte le grazie delsuo sessoaveva potuto metter l'animo in tutte le cure più svariate e piùgravicontender tutte le palme ai più fortiai più illustriai piùfortunati re della terra! Per lei cresciuto a dismisura il regno degli Accad;per lei Babilonia innalzata a tale di possanza e di fastoche nessun'altracittà doveva emulare mai più; per lei sorte a gara le opere stupendela cuimemoria aveva a durare quanto il mondo lontana.

I piloni di granito succedevano ai pilonile ar­cate allearcatein tre ordini disposte pel lungosiccome nelle tre navate d'un tempio.E gli smisurati piloni uscivano via via dagli ultimi va­porisiccome escono apoco a poco più spic­cate le larve notturne dal sognoo le linee dei montidal crepuscolo del mattino. Intantouna luce peritosa si diffondeva dai latiche egliindi a poconotò esser tramandata da piccole lucerne collocate entrole sporgenze dei cornicioni e die­tro le capricciose spire dei capitelli. Aquell'in­certo chiarore si illuminavano sinistramente mille forme fantastichecondotte a rilievo lunghesso i muriuomini pescileoni alati e somiglianti achimereche assumevano vita e moto dintorno a luie ad ogni suo passo parevanofremereagitarsi irrequietepronte a scagliarsi sull'audace turba­tore deiloro eterni riposi.

Calmo e serenocompreso di quella onesta baldanza checonferisce agli animi forti il peri­coloprocedeva il re d'Armenia in mezzo aquelle ostili parvenze. Strani rumori si levavano a' suoi fianchigemitigridasordi ululatifischi di serpie baturli di tuono; ma egli animoso anulla ba­dava e proseguiva sicuro la via. Così giunse in capo al sotterraneodove le pareti si ristringe­vano intorno ad una porta di bronzosu cui eranoimpressi caratteri arcani. Era quella la meta; là dietro lo aspettava l'ignoto.

Pochi passi lo dividevano da quell'uscio miste­rioso; edegli muoveva risoluto alla sogliaallor­quando un cupo rombo s'inteseche lofece ri­stare ad un tratto.

- Sciaguratodove t'inoltri? - tuonò una voce minacciosaalle sue spalle.

Ara si volse indietroturbato; ma nulla videnè intesedonde venisse la voce. Incrociò allora le braccia sul pettoesorridendoamaramenteesclamò:

- Non mi avete chiamato? son qua!

- E non temi di farti più oltre? - gli chiese un'altra voceda fianco.

- Temere? io? - gridò il giovane con piglio superbo. -Chiunque voi siatesappiatelo; ignoro che sia la paura.

- Non fidar troppo nelle tue forze! - soggiunse la voce. -Esse non valgono contro le arcane potenze. Sai tu forse ciò che ti aspetta?

- La morte? - ripigliò il re d'Armenia. - Fosse pur questoil mio fatonol temo. -

E così dicendoil pronipote d'Ateo volgeva in­torno lafrontequasi volesse sfidare i suoi in­terlocutori non visti.

- Ah! - rispose la voce con accento sarca­stico. - Ben altroti si può fare.... Ben altro.... Tal colpo si può ferire su teche ti facciadocile e pauroso siccome un fanciullo. Sacri misteri ti circondanonon uominipari tuoicontro i quali basti snudare il ferrodi cui la tua mano ha giàaccarezzata l'impugnatura più volte. Tu sei nel grembo della terraricordalonel grembo della terrain cui si celano le idee madrile virtù ar­cane dellanatura.

- Sta beneed io le veneroqueste arcane virtù; - risposeAra tranquillo. - Sono avido di saperechiedo di leggere nel passato e nelfuturose pure è in poter vostro di farmelo palese. Vengo a voi fiducioso; eche mi date voidopo avermi chiamato? Come rispondete voi alla mia fededopoaver turbato il sereno dell'anima miadis­sipati i dolci miei sogniavvelenato il nappo delle mie contentezze? M'involgete nelle tenebremi niegateaccoglienzami fate minaccia di tormenti inauditi.

- Uomo cieco! - disse a lui di rimando la voce. - Le tenebredell'errore ti circondavano; le vane voci del mondo ti suonavano all'orecchio.Ora ti avvicini alla luce del veroalla quiete santissima del giusto. Se tisoccorre l'ardimentobatti dunque a quell'uscio. Ma bada; non si torna piùindietrose non educati alla scienza del bene e del male; e l'albero dellascienza dà frutti amarissimi. -

II re d'Armenia crollò alteramente le spalle e s'inoltròverso l'uscio di bronzo. Aveva appena posato il piede sulla sogliache questadiè un suono metallicouno schianto rumorosoa cui rispose un sobbalzo delgiovaneun tremito di tutta la personasiccome avviene ai più animosi e aipiù calmiper ogni inaspettato fragoreo traballìoche accenni non esserpiù sicura sotto i lor piedi la terra.

- Ah! - suonò beffardamente la voce. - Già ti sgomentipronipote di Aìco? -

Ara non rispose parola. Tornato in sulla so­gliaspinsel'uscio con urto poderoso che ne fe' andare i cedevoli battenti fin contro aglistipitie si cacciò dentro sollecito.

Ma appunto allora un orrendo frastuono si udìcome di centodischi di rame l'un contro l'altro percossie con essi un rombo di tuonounacon­fusione di grida e di urli feroci. Intronatostrinse egli ambe le palmealle tempie per turarsi gli orecchiche gli pareva dovessero andarne infran­tumi. E così avesse chiuso gli occhi del pari! Un bagliore improvvisovenne a ferirgli lo sguardoe gli si parò dinanzi come una fornaceanzi unlago di fuocoper entro a cui si agitavano con­fusamente mille figure stranebocche sganghe­ratelunghe braccia e mani armate di unghioni minacciosimostri alati che arrotavano gli occhi uscenti fuori dell'orbiteguerrieri dismisurata staturache brandivano spade roventie si raccoglievano sulle gambetesein atto di avventarsegli contro. Egli rimase un istante attonitogua­tando l'orrida scena; indisi dispose ad attendere i colpi dellamolteplice schiera.

Aspettava tranquillo la mortema la morte non venne; l'alitodi fuoco sul voltoma esso non giunse fino a lui. Per controquel torrente diluce ad un tratto si spensecessò il frastuonoe fu d'improvviso un buiounsilenzio di tomba.

- Ah! - sclamò egli allorasorridendo ama­ramente. - Viprendevate voi giuoco di me? -

E allora la voce rispose:

- Son queste le false parvenze della vitai pe­ricoli checircondano l'uomonel suo viaggio sulla terra. Guai a chi si smarrisce d'animoim­perocchè egli è dannato a perire. Il savio non teme la morte; essa non èche la liberazione dalle catene dei sensi. Da valoroso hai superata la prova.Gli spiriti arcani non t'impediscono il cam­mino. Va innanzi. -

Ara obbedì al comando e si mosse.

Intantoal suo cospetto si diradavano le tenebree un mitechiarore si diffondeva all'intornoren­dendo le sembianze smarrite alle cose.Per altrociò ch'egli vide non era più il sotterraneobensì un vastologgiatosorretto e chiuso da alte co­lonneper mezzo alle quali vedevasi ilcielo sereno e l'onda tranquilla d'un lagoche spirava fino a lui un alito disoave frescura.

Non era quello per fermo un inganno dei sensi. Una coppia dicigni correva speditamente sull'ac­queincalzando alla riva uno stuolo digiovani donnele quali si sollazzavano su quella super­ficie di liquidoargento. Ed egli ammirato le vide emergere dall'ondarasciugarsi le candidemem­brae posciamal chiuse in sottilissimi velien­trare sotto illoggiato. Colàanch'esse si avvidero della presenza del forestiero; e timoroseda primaindi fatte dal suo stupore più audacisi condus­sero con agilipassi alla volta di lui.

Bellissime eran costoro e niente que'sottilissimi lininegavano delle graziose membra allo sguardo. Una tra essela più leggiadra dicertosplendida a vedersi per sovrumana eccellenza di formepe' sciolti crinineri come bitumeche facevano risaltare viemmeglio la perlata bianchezza dellecarnivenne a rigirarsegli intorno con atti cortesie movenzedondetraspariva il desiderio di piacer­gli e di vincerlo. Si schermiva eglie giàaveva ricusato di bere alla coppa che la vaghissima ignota gli profferivaallorquando ellaavvicina­tesi in atto supplichevolementre le compagneintrecciavano a tondo le danzegli gittava le traccia attorno al collos'avvinghiava amorosa a lui e gli susurrava all'orecchio:

- Tu sei bello; io ti amo! -

Ara si divincolò tosto da quella strettasebbene in quelmodo che più gli venne fatto cortese. I baci di Atossa gli tornavano in mente.Ora l'am­plesso dell'ignota non era egli una profanazione dell'amor suo?

- Lasciami! - esclamònell'atto di allonta­narsi da lei.

E si spiccò da quel luogorompendo con le sue mani lacerchia che le mute danzatrici gli ave­vano fatta dintorno.

La lusinghiera lo saettò d'uno sguardo corrucciato.

- Ah! tu mi disprezzi? - diss'ella. - Badao re d'Armenia!Tu fuggi dalle mie bracciaper correre incontro alla morte.

- Che il mio destino si compia! - mormorò il giovaneripigliando il cammino.

E intorno a lui svanirono a mano a mano quelle femminiliparvenze; infoscò la scenafu notte da capo. Il re d'Armenia tornò abrancolar nelle te­nebre.

- Ed ora? - chiese eglifermandosi. - Che è egliquestovostro raggirarmi tra vane lusinghe e più vane paure? -

Un ghigno beffardo rispose all'inchiesta del giovine.

- Non ti dolereo figlio di Aràmo! I dolci mi­steri diMilitta Zarpanit non ti lusingarono forse? Non ti trattennero essi più delbisogno? Perdona a queste leggiadre abitatrici dell'Eufratesememoridell'amorosa vigiliati credettero più arrendevole alle loro carezze. Inveroesse non avevano pensato che dalle braccia della gran maliarda l'amico di Sandidoveva ritrarsi sfinito. -

Al crudele motteggio Ara non ebbe virtù di ri­spondere.Tutto era noto colàe il ricordo di Sandi veniva pensatamente a inchiodarglila lingua.

- Suvvia! - proseguì rabbonita la voce. - Ormai gli è tempoper te di avvicinarti alla luce. Fatti innanzie dammi sicuro la mano. -

A queste parolee mentre egli si disponeva a muovere ilpassosentì una mano che afferrava la sua.

Era quella una mano poderosae la sua stretta diceva assaipiù l'odio d'un giurato nemicoche non la benevolenza d'un patronoo lasollecitu­dine d'una guida. Ed egliil prode Aranon potè rattenere un sensodi ribrezzoun brivido di ar­cano terroreche gli corse per l'ossa. V'hannotocchi lievissimiche avvertono di danniim­minenti o lontaniassai megliodei più aperti presagi.

Il re d'Armenia procedettecosì trascinatouna ventina dipassi. L'urtare che fece il compagno contro una parete gli fe' intendere cheerano giunti alla meta.

- Ci siamo-disse infatti la voce; -ascendi la soglia. -

Ara obbedìdopo aver tastato del piede l'osta­colo. Eallora tre colpi furono battuti dal com­pagno sopra un disco di rame.

- Apritiporta della verità! - gridò questi con pienezzadi accento.

- Chi ardisce accostarsi? - dimandò dall'altra parte unavoce cupa che parea venir di sotterra.

- Un profano; - rispose il primo interlocutore.

- E che vuole?

- La luce.

- Ha egli superate tutte le prove?

- Sì; ha varcata la tenebrosa via dell'errore; ha sfidato ilpericolo della fiamma e della spadamorte del corpoe quello dei sensimortedell'a­nima.

- E sa egli che cosa l'attende? Sa egli che la gran lucepotrebbe acciecarlo e l'amara scienza mutarsi in veleno per lui?

- Lo sa ed è pronto a patire ogni cosa pel conquisto dellaluce e della scienza.

- Orbenes'inoltri! Ben venga egli alla scienzaalla luce.-

E la portacome per incantogirò tacitamente sui cardini.

Entrarono in un vestibolo partito a grosse colonne di pietrailluminato da lampade di nafta. Un guerriero vi stava a custodiacol voltocoperto di un negro veloe con una larga spada scintillante nel pugno.

- Deponi il tuo ferro! - diss'egli con piglio severo algiovine Ara. - A nulla potrebbe esso giovarti qua dentro. -

Ara si tolse dalla cintola il coltello dalla impu­gnaturagemmatache aveva preso con sèinnanzi di perigliarsi nella scala misteriosa.Frattantosi volse a guardare il suo introduttoredi cui fino a quel puntoegli non conosceva che la voce.

Era questi un uomo di alta staturadi membra robuste; ma lasua faccia non era dato vederla. Anch'egli portava un velo nero ravvolto intornoal caposiccome il guerriero che vigilava l'ingresso.

Deluso nella sua onesta curiositàil re d'Armenia siinoltrò dal vestibolo fino al limitare d'una gran salale cui pareti sivedevano impresse di sim­boli svariati e di segni arcaniche accennavano ascritture di popoli stranieri. Se egli avesse potuto por mente a tali coseglisarebbero apparse in que' simboli le deità antiche di Mesraimposte colà ariscontro di quelle del Gangee delle più vicine di Bakdi; nelle arcaneleggende egli avrebbe poi ravvisati i caratteri sacerdotali dei tre popoliacui si riferivano quelle sacre figure.

Ma il giovane non si trattenne a guardar le paretii suoiocchi essendo corsi ad un palco che sorgeva nel fondodietro a cuisiccome atribu­nale di giustiziastavano seduti tre uominioper dire più veramenteciò che gli apparverotre simulacri d'uomini immotivestiti di candide stolecinte le tempia di bende doratele quali scintil­lavano per mezzo a' veliond'erano coperti i ve­nerabili aspetti. Aveva uno di loro tra mani il fioredel lotoemblema della vita; l'altro una foglia di papirosacro ai dettamidella sapienza; il terzo un ramoscello di amòmodell'ottima tra le piante.

Una negra cortina scendeva dall'altodietro alle lorospallecelando l'adito sacroil penetrale del tempio. Sui latie sotto illume di parecchie lam­pade pendenti da bracciuoli di bronzoil re d'Ar­meniavide altre figurema coperte di nero dal capo alle piantesiccome il suointroduttoreim­mobilicon le mani appoggiate sul pomo di lunghe spadedallecui larghe lame a due tagli balenava una luce sinistra.

Il giovane era rimasto tra ammirato e confusoa guardarequei treche bene non sapeva discernere se uomini o spiritio muti simulacridi Dei. Ma poco stanteuno di loro si fece a trarlo di dubbiorivolgendogli laparola in tal guisa:

- "Fatti innanziprofano! Dalle vie dell'erroretugiungi alla luce del vero. Alla nuova aurora tornerai tra i viventimarigeneratopiù savio e più forte di loro. Nulla di ciò che hai veduto eduditonulla di ciò che vedrai ed udraiha da uscirti dal labbro. Non giurare;ciò non t'è chie­sto; ciò non è necessario. Quelle spade che vigi­lano ilnostro tribunaleti seguiranno invisibili ovunque. Oltre di cheil varco percui se' giunto fino a noifu aperto dalle possanze arcanee già non ne restapiù traccia. Nessuno aggiusterebbe fede a' tuoi racconti; ognuno li avrebbe persogni di mente infermafrutto dei vapori perniciosi dei liquor della palma. Gliuomini hanno occhi e non vedonoorecchi e non odono; soltanto a pochi eletti èdato di conoscere il veroche si nasconde sotto l'aspetto ingannatoreomanchevoledelle cose create.

"Inverol'uom savio ha due viste; quella infida deisensie l'altrapiù pura e più certadell'a­nima. Egli ha altresì duescienze: quella che in­segna al volgoe quella che custodisce gelosa­menteper sè. La prima è involucrola seconda è sostanza; quella adombraquestadisvela; nel­l'una è il simbolonell'altra la ignuda ragion delle cose. Trediverse dottrinead esempioti stanno dinanzi: MemfiBattroAyodìa. IlNilol'Arasse ed il Gangesono i tre fiumi per cui pri­mamente è discesa lasacra verità. L'Eufratenelle sue torbide acque non travolge che errore; peròsia maledetto fino a tanto egli scorra osse­quente ai superbi regnatori dellastirpe di Nemrod.

"Costoroviolentioltracotanti e ferociradu­naronosotto il loro scettro le genti sparse sulla pianuranon popolo veroma avanzidi un po­poloche la collera dell'Eterno aveva sepolto tra l'acque. Naufraghicampati a faticanon videro che sè medesimi al mondoe dissero: eccoi fortisiam noi! Tirannica mistura di favelledi credenze e di costumipretendono didettar leggi alle più antiche nazioni della terra del sole. Già le loro armihanno invase le regioni sacre dell'Irandove regna il purissimo culto dellaparola di Dio. A mezzogiornodi là dai vinti Nabateigià volgono il cupidosguardo agli avventurosi figli di Mesraimdov'è prosperità d'arti e scienzedove l'a­scosa verità si adora in effigie e templi degni di lei. Nè basta.Per mezzo ai popoli vintinon domidella stirpe di Iavanai MediaiBattrianiai Sogdianis'inoltrano audaci ad insidiare i remoti confinidell'India. Dove non correin quali imprese non si periglialo sterminatoorgoglio degli Accad? Non hanno essinel loro folle ardimentotentato digiungere al cielo? Rispetteranno essi alcuna parte di terrache faccia ostacoloai mostruosi disegni della loro ambizione? E l'Armeniaalle cui balze ospitalisi erano essi aggrappati nel grande naufragionon tentarono forse diassog­gettarla del pari? Il grande Aìco rintuzzò l'orgo­glio dei superbi; maessi non hanno già dimen­ticato lo sbaraglio del loro esercitoe fremonovendetta della uccisione di Belo. Fatti possenti su noisi scaglieranno su te.Aquila delle montagnevuoi tu collegarti con noiper fiaccare questaminacciosa potenzaper distruggere il covo dei serpentiche tutti nestringerebbero un giorno nelle molteplici spire."

- Io sono- rispose Ara- l'alleato della regina.

- Il tributario della regina eri tued oggi sei lo schiavodella donna. Sìschiavoed imbelle; non ti sdegnare; qui tutto è noto. Chiti ha chia­mato quaggiù nulla ignora dei tuoi facili amori. Lui forsepretenderesti ingannare? -

II giovaneche giànell'impeto dell'iraaveva dato unsobbalzochinò raumiliato la fronte. Un turbine di confusi pensieri loassalse. Che era egli tutto ciò che udiva? E tra qual gente era egli disceso?Lo avevano chiamato alla luce del veronel regno delle ombrein mezzo aspiriti arcani; ed eccosi vedeva in balìa di uomini congiurati. Per altro lachiamata di sotterra non eragli apparsa nel misterioso papiro come cosasovrannaturale? E se l'estinto amico doveva mo­strarsi ai suoi occhinon eranoquei tre uomini velati gli arbitri del passato e del futurocredibili evenerandi maestri di alto sapere alla sua mente in angustie?

Il dubbio del giovane non isfuggì per fermo allo sguardoacuto del suo interlocutore; il quale fu pronto a soggiungere:

- La verità dee risplenderti intiera. Per gli increduliella si cela dietro a questa negra cortinache ci basterà sollevare. Peicredentiella si svolge dai penetrali del pensieroraccolto savia­mente insè stesso. Tu sceglierai. Preparati ora al grande arcanoascoltando la vocedel veroche si sprigiona dai veli discreti delle sante dottrine. Le storiedell'errore ti furono narrate po­c'anzitra i fumi del regio convito; odi orale nostre. Ma anzituttobevi alla coppa ospitalepurifica il tuo cuore coi tresorsi della sacra bevanda. -

Uno dei muti servi del misterioso tribunale si mosse allorae profferse al re di Armenia una coppa d'argentoin cui tremolava un liquorebiancastro. Egli vi intinse tre volte le labbrae il liquore gli seppe didolcemisto con alcun che di aromatico e di frizzante al palato. Indi si assisesu di uno scannoche gli era pôrto in quel mezzoe stette in attesaguardando i tre uomini velati.

Allora uno di essiquegli che aveva tra le mani il fiore dellotocominciò in questa guisa a parlare.

 

CAPITOLO X.

 

LA DOTTRINA DEI SAVI.

 

"Uno è il Dio verouno per tutti i popoli della terra;ma la sua semplice e profonda grandezza non risplende che allo intelletto deisavimentre il volgo lo intravvede a mala pena da lungisiccome lampo tranubie lo adora moltiplicato nelle sue manifestazioni terrestriascoso nelfitto invo­lucro dei simbolitrasformato in mille guise e parvenzecome portal'indole varia e il costume mutevole delle genti. Uno per tuttiegli è trinoin sè stesso; alto mistero disvelato a pochissimicontemplatoricustodi edinterpetri della sublime veritàche tu sei per grande ventura chiamato adintendere.

"Odi colui che siede alla mia mancail savio diMèsraim; egli ti dirà ciò che è scritto nel sa­cro papirochiuso aglisguardi profani. Prima di tutte le cose ora esistentiera un Dioimmobilenella sua unità. Chi sei? gli domandò il savioprostrandosi nella polveredavanti a lui. E allora per mezzo alla gran notte scintillarono le tre sa­creparole Nuk pu Nuk (Io son chi sono). Egli il solo generatore in cielo esulla terra; nè egli è generato; egli il solo Diogenerator di sè stessoche è fin dal principioincreato creatore d'ogni cosa. Da luiche ha tra gliuomini il nome di Knefemana Ftalo spirito onnipossente; da ambi procede Oroo Frèil demiurgo celeste.

"Odi colui che siede alla mia destrail savio di Bakdinella terra di Javan; egli ti dirà ciò che è scritto nel libro della legge alui dettato nella caverna del monte Elburzdagli spiriti immortali. Daprincipio era Zervane Acherenel'essere assurto nella propria eccellenzailtempo senza misural'eterno senza estremità e senza radice. Con lui ed in luiesisteva Honnoveril verboprocedente da luifonte ed esempio d'ogniperfezioneproduttore degli esseri. Da lui è nato Ahuramazdail principio delbene; da lui Ahriinaneil principio del male; ambedue in lotta continua tralorofino alla consumazione dei secoli.

"Seguimi ora con la menteseguimi alle fortu­nate sedidegli Ariaalla sacra vetta del monte Merùculla del veroche illuminòl'universo. Dal grembo di Jarvam Akiaramil tempo senza mi­suraesce Bramail dio che esiste per sè mede­simo. Egli è in ogni cosaed ogni cosa è inlui. Il Gange che scorreil mare che ruggeil vento che fremela nube chetuonala folgore che splendetutto è sostanzaformaimmagine sua. Il creatoera nella sua mente fin dall'eternità; tutto ciò che esiste reca l'improntadella sua mano. Egli è la vita e il moto; egli Naraianalo spirito che vasulle acque; egli il creatore del mondo e degli spiriti inferioriche attestanola sua gloria. In lui sono tre essenze e l'una procede dall'altra. Brama è ilcreatoreVisnù il protettoreSiva il trasformatore d'ogni cosa.

"La lucel'ariale acque e la terrasono opera diBrama. Egli dall'anima sua alitò la vita comune alle piante e ad ogni sortad'animali: dall'anima sua la coscienzal'intelletto e la parola nell'uomo. Fuquesta l'ultima creazione del Dio; e l'uomoper volere di Bramafu da più ditutti gli animali della terrainferiore soltanto agli spiriti celesti.

"Orasiccome le piante e gli animali furono creati permodo che potessero riprodursicosì avvenne dell'uomoche fosse creato in duecorpimaschio e femmina; al primo dei quali Iddio diede la maestà e la forzaal secondo la bellezza e la soavità. E al maschio impose il nome di Adìmachesignifica il primo uomo: alla femmina il nome di Evacioè a dire compimento divita.

"Andatediss'egli posciaamatevi e procreate esseriche siano a somiglianza vostra sulla terrafino a' tempi più lontani da voi.Iosignore di ogni cosa che esistevi ho creati perchè m'ado­riate tutta lavitae tutti coloro che crederanno in me parteciperanno alla mia beatitudinedopo la consumazione dei secoli. Insegnate ciò ai figli vostriaffinchèeglino si ricordino di me; impe­rocchè io sarò con esso lorofino a tantopro­nunzieranno il mio nome.

"E avendoli collocati in un'isoladi cui non è la piùbellanè la più riccasui mariil sommo Iddio proseguì:

"Sia vostro ufficio di popolare questo lembo felice diterrae di spargere il mio culto tra co­loro che di voi nasceranno. Tuttol'altro del mondo è inabitabile ancora; ma se in progresso di tempo il noverodei figli vostri crescesse in tal guisa che l'isola non bastasse a nutrirlilasciate lor detto d'interrogarmi in mezzo ai sacrifizied io farò loroconoscere la mia volontà.

"Ciò dettodisparve. E in quel punto Adìma si volsealla sua giovine compagna; la guardòe il sangue gli riarse nelle veneallavista di così splendida bellezza. Ella stavasi ritta dinanzi a luisorridentenel suo virgineo candorepalpitante d'arcani desiderii. Il morbido volume deineri capegli le ricadeva disciolto sui bianchi òmeri e in­torno al colmo senoche l'interno tumulto degli affetti incominciava a commuovere.

"Adìma le si avvicinò trepidante. Lontan lon­tanoilsole stava per inabissarsi nell'oceanoe i calici dei fiori si alzavano desiosiper suggere le vespertine rugiade; migliaia d'uccelli variopinti cantavano tra irami il loro inno all'amore: le lucciole fosforescenti cominciavano ad aliareper l'azzurro dell'ariae tutti i mille rumori dell'operosa natura salivano aBramache si rallegrava in cuor suodall'alto delle celesti dimore.

"Ed in quel puntoAdìma stese la mano a ca­rezzare lemorbide chiome fragranti della sua vezzosa compagna. Egli sentì come un tremitoscorrere per le membra di leie quel tremito invase eziandio le sue vene. Lastrinse allora tra le sue braccia e impresse il primo bacio sul viso della donnadilettasommessamente chiamandola per nome. Adìma! mormorò ella consoavissimo accentoe tremanteconfusasi abbandonò nelle braccia di lui.

"La notte era giunta: gli augelli tacevano nel boscoeIddio era lieto nel profondo del cuor suoimperocchè l'amore era nato. Ciòegli volevail sapientissimo Iddiodirittamente vedendo esser cosa brutaleindegna di puri spiritil'amplessola confusione di due vitea cui nonpresiedesse amore.

"Così felici vissero a lungo i due primi mor­tali; nèmai nube di tristezza era venuta a tur­bare il sereno di quella beataesistenza. Ma un giornouna vaga inquietudine cominciò a serpeg­giare neicandidi cuori. Invidioso della loro feli­cità senza pari e dell'opera perfettadi Bramalo spirito del male bisbigliò al loro orecchio arcane parolespiròin quell'anime desiderii ignoti. An­diamo a diporto per l'isoladisse Adìmaalla sua leggiadra compagnae vediamo se non ci è dato trovare un luogo piùdilettoso di questo.

"Eva seguì obbediente il maritoed entrambi andaronooltre; viaggiarono per giorni e per mesisoffermandosi al margine delle chiaresorgenti e al meriggio degli alberi giganteschiche celavano ad essi la speradel sole. Ma più s'innoltravanoe più la donna si sentiva sopraffatta da unarcano sgomento. - Adìmadiceva ella al maritonon andiamo più innanzicheper fermo noi facciam contro al comandamento di Dio. Non ci siamo noi giàdipartiti dal luogo che egli ci aveva assegnato a dimora?

"Non temererispose Adìma alla donna diletta. Vedi?Non è già questa la terra inabitabile che egli ci disse. Avanti sempreavanti; l'uomo non è nato per poltrire nell'angolo in cui egli ha ve­duto laluce.

"E andarono innanzi; ella obbediente ed amo­rosaeglisempre più ansiosotormentato dal de­siderio di vedere e sapere. Cosìgiunsero alla punta estrema dell'isoladonde poterono scorgere ai loro piedi unbreve tratto di maree di là da questo una lista di terrache parevadilungarsi all'infinito sui margini del lontano orizzonte. Uno stretto emalagevole passoformato di scogli a fior d'acquacollegava l'isola alcontinente ignoto.

"I due viandanti si fermarono ammirati. La terra che sistendeva dinanzi ai loro occhiappa­riva vestita di alberi svariati elargamente fron­dosi; augelli dai mille colori correvano cinguet­tando difrasca in frascao s'inseguivano a volo. - Splendida vista! - esclamò Adìma.E come hanno ad essere gustosi i frutti di quegli alberi! Vienio diletta;andiamo ad assaggiarnee se quella terra è migliore della nostranoi laggiùmetteremo dimora.

"La donna tremante supplicò Adìmache non volessetentare più oltre la collera celeste. - Non viviamo noi bene in questa isola?Non abbiamo noi chiarefresche e dolci acque per dissetarcie frutti soaviche nulla piùdopo i tuoi baci? Perchè cercheremmo noi altro?

"E sia; torneremo; disse Adìma a lei di ri­mando. Chefacciam noi di malea visitare que­sta terra ignotache si profferisce ainostri occhi?

"Così dicendos'innoltrò verso la scogliera. Eva loseguì tutta tremante in cuor suo. Egli allorasollevata la donna da terrasirecò il dolce peso sull'òmero emutando i saldi passi tra pietra e pietrasifece a valicarequanto più speditamente potèquel tratto di umida viachelo disgiungeva dall'argomento dei suoi desiderii.

"Avevano essi a mala pena raggiunto il lido vietatocheun terribile schianto si udì. Lido verdeggiantealberifiorifamiglia dipennutiogni cosa che prima aveano veduta di là dal marein un balenodisparve. La scogliera per cui erano venuti si sprofondò nei gorghi frementi esolo alcune creste qua e là rimasero ritte fuor d'acquacome indizi d'una viaper sempre distrutta.

"La lieta verzurache i due infelici aveano vedutacolànon era che una mostra ingannevolesuscitata dal principe degli spiritimalvagiper tirarli alla disobbedienza. Adìma conobbe allora il suo falloecosì perduto dell'animocom'era stato baldanzoso da primacadde piangendosull'inospite arena. Ma in quel punto Eva gli si accostòpose le bracciaintorno al suo collo e gli disse: - Non ti affliggereamor mio; preghiamo inquella vece il Signoreche voglia condonarci il nostro peccato!

"E una voce si fece udir dalla nubeche parlò ad essiin tal guisa: - Donnatu hai peccato soltanto per affetto all'uomoche io tiho coman­dato di amareed hai posta in me la tua fede. Io ti perdonoed anchea luimercè tua. Ma uditevoi non riporrete più il piede in quel luogo didelizieche io avevo creato per la vostra felicità. A cagione delladisobbedienza vostraeccoil mal­vagio ha invaso la terra. I figli vostricondan­nati a patire e a romper le glebe in penitenza del vostro fallointristiranno nel corso dei se­coli e dimenticheranno il mio nome. Nonpian­gereo donna; il dì della clemenza verrà. In quel giorno Visnùprenderà umana veste nel grembo d'una figlia tuarecando a tutti la miaparolae con essa la speranza di un premio futuro e il modo di alleviare i lormali nella ardente pre­ghiera.

"Raffidati dalla voce di Bramasi alzarono i duepiangenti da terra e ripigliarono la via dell'esilio. Ma da quel giornofuronocostretti a duro travaglioper ottenere il nutrimento dal suolo.

"E giusta il comando di Diosi venne popo­lando laterra. I figli di Adìma e di Eva si moltiplicarono ed intristirono per guisache più non poterono durarla in pace tra loro. Dimenticarono essi il nome e lepromesse di Dioed egli si stancò finalmente del rumore di loro asprecon­tese. La sua folgore tuonava tra le nubisalutare ammonimento ai perversi;ma gli uomini non conobbero la voce di Bramae il re Dayta non si peritò discagliare le sue maledizioni alla fol­goreminacciandolase non tacessedisalire co' suoi guerrieri alla conquista del cielo.

"Allora il Dio deliberò d'infliggere alle suecrea­ture un tremendo castigoche fosse d'insegna­mento ai superstiti e alladiscendenza loro. E avendo rivolto lo sguardo sulla terraper cono­scere tratutti l'uomo non indegno della celeste clemenzavide il giusto Vaiwastata e sirallegrò delle opere sue.

"II virtuoso uomol'unico che ancora te­messe edonorasse il Signorefaceva le sue mat­tutine abluzioni nelle sacre acque dellaViriny. E in quel mezzoun pesciolinodalle squame lucenti di vivi colorivenne a lui con le ultime spume del flutto.

"Salvamidisse il pesciolino a Vaiwasvataimperocchèi più grossi di meche vivono nel fiumeminacciano d'ingoiarmi.

"Impietositoil sant'uomo lo colselo ripose nel vasodi rameche gli serviva ad attinger ac­qua dal fiumee lo portò sotto il suopovero tetto. Ma il pesciolino incominciò a crescere ad occhi veggentipermodo chenon bastando un più capace vaso a contenerlo più oltreVaiwasvatafu costretto a recarlo in uno stagno vicino.

"Uomo virtuoso e beneficodisse il pesceche andavacrescendo a dismisuraportami nel Gange.

"Come lo potrei io? chiese Vaiwasvata. Io non ho forzada tanto.

"Fanne la prova! rispose il natante. E Vaiwasvatapoiche l'ebbe preso tra le palmelo sollevò agevolmente e lo portò nel granfiume. Ora il mostruoso pescenon pure era leggero come un fuscellino dipagliama spandeva intorno le più soavi fragranze. Donde il sant'uomo pensòche quello era messaggio di Dioe stette in attesa di mirabili eventi.

"Difattinon andò molto che il pesce gli chiese diessere trasportato all'Oceano. E contentato nel suo desideriodisse allora aVaiwasvata: Odimio santo. Il mondo sta per esser sommerso nei flutti e i suoiabitatori moriranno. Affrettati a costruire una nave e chiuditi in essa coituoi. Togli teco i semi di tutte le piante e una coppia di tutte le specied'animalitranne di quelli che nascono dai vapori e dalla putredineimperoc­chè il loro principio vitale non emana dalla gran­d'animadell'universo; poscia attendi fiducioso le sorti.

"L'uomo giusto fece ogni cosa secondo i co­mandamentiricevutied egli e la sua famiglia furono campati dalla rovina delle acquesulle estreme vette dell'Imalaya. Visnù vi ha salvi da mortedisse il pesceche era stato guida alla nave; per sua intercessioneBrama ha fatto graziaall'umanità; andate ora a compiere i voleri di Dio e ripopolate la terra.

"Così fucome aveva disposto l'Eterno che fosse. Ecent'anni dopo la rovina delle acquevisse il savio Adgigartanipote diVaiwasvatauomo pio e temente il Signore.

"Egli abitava nella contrada di Gangae quan­tunquevolte sorgesse l'aurorao cadessero i cre­puscoli della seraAdgigarta siriduceva in luogo appartatonel profondo delle selveo sulle rive dei sacrifiumiper offerirvi olocausti al Signore. Colàprostrato dinanzi all'aradopo aver pro­nunziato sommessamente il mistico Aumche è l'invocazioneall'Altissimoegli scioglieva l'inno della Savitri.

"- Signore dei mondi e delle creatureaccogli l'umilpreghiera del tuo servodistogliti un tratto dalla contemplazione di tua eternapos­sanza. Un solo dei tuoi sguardi purificherà l'anima mia.

"- Vieni a mecosì che io oda la tua voce nellostormir delle foglienel mormorio delle correntinel crepito della fiammaconsacrata.

"- L'anima mia ha mestieri di respirare il purissimoalito che emana dalla tua grand'anima. Ascolta la mia invocazioneSignore deimondi e delle creature.

"- La tua parola sarà più dolce al mio spiritoassetatoche non le lagrime della notte alle arene del desertopiù soave chenon la voce della madre al bambino.

"- Vieni a metula cui mercè fiorisce la terra ematuran le biade; per cui si svolgono i germi e scintillano i cieli; per cui lemadri pongono alla luce i dolci nati e i savi conoscono le virtù.

"- L'anima mia ha sete di conoscerti e di liberarsidalla sua spoglia mortaleper godere la beatitudine celesteper essere rapitanella tua luce. -

"Indirivoltosi al soleche sorgeva glorioso sulla viadel firmamentocosì cantava il savio Adgigarta:

"- O radiante e splendido soleaccogli quest'inno cheio sciolgo alla tua virtù senza pari. - Accoglite ne pregola miainvocazione; scendano i tuoi raggi a visitare il mio spirito desiosocome ungarzone innamorato che vola ai primi baci della donna diletta.

"- O soleo tu che illumini la terrae la cui lucefeconda ogni cosaproteggimi.

"- Meditiamo il tuo mirabile splendoreo purissimosole; rischiari esso e volga alla sua meta il nostro intelletto.

"- I sacerdoticon olocausti e canticit'onoranoopurissimo sole; imperocchè la mente loro scorge in te la più bella fra leopere di Dio.

"- Avido di nutrimento celesteio imploro con umilipreghiere i tuoi doni preziosio sublime e fulgido sole! -

"Così pregava Adgigartauomo pio e caro al Signore. EPavàcail suo sapiente maestrogli disse un giornonell'atto di dargli inpresente una giovenca senza macchia e inghirlandata di fiori: - Ecco il dono cheBrama ci raccomanda di fare a coloro i quali hanno posto fine allo studio deiVeda. Tu non hai più mestieri de' miei insegnamentio Adgigarta; pensa ora adottenere un figlioil quale possa compiere sulla tua se­poltura le cerimonieche ti schiuderanno la di­mora dei cieli.

"Padre miorispose Adgigartae come lo potrei ioilquale non conosco donna veruna? Il mio cuore ha sete di affettoma non sa a cuirivol­gere la sua prece.

"Io ti ho data la vita dell'intellettodisse a lui dirimando il maestro; eccoio ti darò quella eziandio della felicità e delloamore. Mia figlia Parvàdi risplende fra tutte le vergini per saviezza e beltà.Dal dì che nacqueio te l'ho destinata in moglie; i suoi sguardi non si sonoancora sof­fermati sopra alcun uomoe nessuno ha veduto mai il suo voltoleggiadro.

"Giubilò nel suo cuore Adgigartaed impalmò la bellaParvàdi. Scorsero gli anni senza che nulla venisse a turbare la loro felicità.I loro armenti erano i più vistosi della contrada: le loro messi benedette daDio. Solo una cosa mancava ai loro voti; Parvàdi era sterile. Invano ella eraandata in pellegrinaggio all'onda sacra del Gangeinvano aveva ella pregato; el'ottavo anno di sterilità si appressavadopo cuigiusta la leggedoveari­pudiarla come disutil compagna il marito.

"Triste nel profondo dell'animaAdgigarta tolse ungiorno il più bello fra i capretti dell'armentoe andò in luogo appartatoafarne olocausto al Si­gnore. - Mio Diodisse eglinon voler separare ciò chetu stesso hai unito.... E null'altro potè aggiun­gerepoichè i singhiozzisoffocavano le parole.

"Ma eccoin quella ch'egli si rimaneva colla faccia aterragemendo e invocando il Signoreuna voce si udì dalla nube: - Torna alletue caseAdgigarta; imperocchè Dio ha ascoltato la tua preghiera ed hacompassione di te.

"Oratornando il savio alla sua dimoravide farglisiincontro Parvàditutta sorridente e lietacome da lunga pezza non gli erapiù occorso ve­derla. E chiestole il perchè di quel suo muta­menton'ebbeda lei in risposta: - Un uomo af­franto dalla stanchezza è venuto pur dianzi apo­sarsi sotto il nostro pergolato. Io gli ho proferto l'acqua limpidail risoe il latte che si offre ai viandanti. Ed egli mi ha detto partendo: il tuo cuoreè triste e i tuoi occhi sono rossi dalle la­grime; ma statti di buon animoimperocchè di te nascerà un figlioal quale tu imporrai il nome diViashàganaossia nato dalla elemosina; ed egli ti serberà l'amore di tuomarito e sarà l'onore del vostro legnaggio.

"A sua volta Adgigarta raccontò alla moglie ciò chegli era occorso nell'ora del sacrificioed ambedue si consolarono pensando chele loro angoscie stavano per finire e che l'un d'essi non sarebbe statodisgiunto dall'altro.

"Nacque il figlio aspettatoe fu il solo del suo sessoquantunque Parvàdi allegrasse ancora di numerosa prole la casa benedetta. Ecome il fan­ciullo ebbe raggiunto il dodicesimo annoAdgi­garta vollecondurlo sulla montagna con sèper render grazie al Signore e sacrificargli unca­prettoil più bello che fosse nell'armento.

"Ed eccomentre valicavano un folto boscosiabbatterono in una tenera colombacaduta dal nidoche stava per esser la predadi un serpe. Viashàgana si gettò allora sul rettilelo uccise d'un colpo colsuo vincastro e ripose la colombella nel nido. La madreche aliava tutt'intornoriempiendo l'aria di stridaringraziò con verso mutato il pietoso fanciullo.Ed Adgigarta giubilò nel profondo del cuorevedendo come il figlio suo fosseprode e buono dell'animo.

"Poi che furono sulla vetta del montesi detteroambidue a raccattare la stipa e i sarmenti per l'ara del sacrificio. E in quelmezzoil caprettoche avevano condotto per l'olocaustoruppe il suo vincolo esi appiattò tra i cespuglicosicchè non fu più dato rinvenirlo. E alloraAdgigarta disse al figliuolo: - Ecco la stipa pel sacrificioma oramai ci mancala vittima. Vanne tu al nido della colomba che hai salvata poc'anzi e portala ameperchè io l'offra al Signorein luogo del capretto fuggito.

"Viashàgana era già per obbedire al cenno del padreallorquando la voce sdegnata di Brama si udì. - Perchè comandi tu ciò alfiglio tuo? Avre­ste campato la colomba dalle fauci del serpentesolo perimitar questo nella sua malvagità? Colui che distrugge in tal modo i suoibenefizinon è degno di me. Tu hai peccatoAdgigarta; in pe­nitenza delfalloimmolerai il figlio tuo su que­st'ara!

"Il che udendo Adgigartasi contristò grande­mente. Ecaduto a terranell'impeto del doloregridò: Parvàdi! o diletta mia! Chedirai tuquando io tornerò solo alla soglia domestica? che potrò iorispondertiquando tu mi chiederai del nostro amato figliuolo?

"E in tal guisa si dolse fino a seranon po­tendorisolversi a compiere il funesto sacrifizionè osando disobbedire all'Eterno;mentre Viashàganad'animo saldo oltre l'etàveniva pregando il padre chevolesse immolarlogiusta il comando divino. A ciò finalmente si disposeAdgigarta; con mano tremebonda legò il fanciullo all'altaree giàbranditoil coltello di pietrastava per ferirlo alla golaallorquando Visnùsotto laforma di una colombavenne a posarsi sul capo innocente. - O Adgigartadiss'eglirompi i legami della vit­tima e disperdi la stipa raunata. Iddio ècontento della tua obbedienza; e tuo figlioper la fortezza dell'animohatrovato grazia appo lui. Viva egli lunghi anni e feliciimperocchè dalla suadiscen­denza nascerà l'aspettata Devanaguynel cui seno io ripiglierò formamortaleper la salvezza degli uomini."

 

 

CAPITOLO XI.

 

IL FANTASMA.

 

Altro aggiunsenarrandoil savio che aveva tra mani ilsimbolico fiore del loto. Parlò della incarnazione di Visnùche già eral'ottavadopo la creazione del mondo. Egli era venuto (diceva)egli eravenutoil divino Paramatmaossia l'anima dell'universonella prima ora delCali yugache era la quarta età del mondo; egli era venutopiù dolce delmiele e dell'amrita celestepiù puro dell'agnello senza macchia e del labbrod'una vergine; egli era uscito dal grembo della Devanaguyed aveva riconciliatoBrama con la sua creatura. Un fremito sovrannaturale aveva invaso l'aere ed ilsuolo; voci misteriose avevano dato l'annunzio ai santi eremiti nei boschi; iGandarvi avevano fatto suonar l'etra di loro celestiali ar­monie; le acque delmare avevano esultato dai gorghi profondi; i venti si erano infusi di elettefragranze; al primo vagito di Crisna la natura aveva riconosciuto il suo altosignore.

Così aveva proseguito il savio dal fiore di lotoe i duevenerandi compagni avevano chiarito quanto ci fosse nelle sue parole di conformealle loro istesse dottrine. Avevano inoltre notato come que' santi veri fosseroantichi di antichità sterminatae come quell'ultima teogonia risalisse a millee più anni addietrofin oltre la medesima età che assegnavano alla lor torredelle lingue i sacerdoti degli Accad. Inveroquei superbi figli di Cusvenutiper mezzo alle arene del deserto sulla terra di Sennaarpoveri di storiaodimentichi del loro passatonon avevano fatto altro che accogliere le sparseleggende e i primi racconti degli Ariacon­fusi insieme con le sparse memoriedei nomadi figliuoli di Semper gustarne il senso arcano e far dell'impuromiscuglio un fondamento alla loro mostruosa idolatria. Ben più anticasoggiunge­vano i tre savi velati essere la stirpe umanache non la facessero iCasdim; la luce del vero es­ser dono d'Orientesiccome la stessa luce delsole.

Dicevano; ma il giovine Arao non udiva già più i loroprofondi ragionario molto confusa­mente li udivae senza coglierne il senso.In quella guisa che per vapori esalati sul far della sera dalla superficie d'unlagos'ingombra di fitta caligine la silenziosa convallecosì a grado agradolentamenteerasi offuscato l'intelletto del giovine. Ammirato da primacolto al fascino di quella grave parolaaveva seguito con avida cura ildiscorso del saviosiccome avrebbe ascoltatolà nella sua reggia d'Armavirla canzone d'un poetao il racconto d'un ospite pellegrinoo un passo delleprime istorie della sua stirpe dal lab­bro d'uno scriba ossequente. Ma a poco apoco un'insolita stanchezzaun torporequasi un senso grave d'ebbrietàglieran venuti serpeggiando nelle fibregli avevano intorbidita la mente epro­strate le forze. Di tratto in tratto tentava riscuotersi; qua e làafferrava una fraseun concettoma senza poter altrimenti seguire nel suocorso il ragionamento dei tre venerandi. E quelle frasiquei concetti slegatierano come favilleche guiz­zano e si disperdono nel buio; passavano da­vantiagli occhi della sua mente e fuggivano.

Si avvidero i tre dello stato in cui era il re d'Armeniaead un lor cenno si fece innanzi il coppiereprofferendogli la tazza ospitalecolma d'un liquore verdognolo. Bevve egli avidamente a ripetuti sorsie sisentì come rinascere. La bevanda aveva grato sapore; dava senso di frescuraalle fauci riarseedestandogli le forze languentigli snebbiava altresìl'intelletto. Così almeno a lui parve.

- Bevi; - gli diceva frattanto uno dei tre; - tu hai d'uopodi rinfrancarti le membra e lo spirito. Le prove ti riuscirono faticose e laparola del vero ti è tornata molesta....

- Non già! - si affrettò il re d'Armenia a ri­spondere. -Cara mi è giuntacome mi fu sem­pre caro di udire gli insegnamenti dei savii.Le vostre paroleo venerandineppur mi vengono nuove del tutto; esse miricordanosebbene alla lontanacose già udite nella mia adolescenzadallabbro di santissimi uominitra' miei monti natali.

- Il vero- rispose quell'altro- è come il sole; essospande un raggio della sua luce do­vunque. Del resto sono a noi congiunti disangue gli Armeninon già derivati dalle genti della pia­nuracomefavoleggiano i Casdim. Questi vana­gloriosi credono di aver essi popolata laterraessigli ultimi venuti nel Sennaarsu questa foce del gran fiumearianoche inonderàfecondan­doloil mondo. Vogliono esser diga; sarannoso­verchiati e dispersi. Come Dio è uno e trinocosì una e trina è laverità. IranJavanMesraimil Gangel'Arasse ed il Nilosi collegano perab­battere la mostruosa possanza dei figli di Nemrod. La tua schiattao reprocede dal nobile ceppo degli Aria. Il forte Aìco avrebbe egli dovutopu­gnare contro l'esercito di Nemrodse gli eroi dei due campi fossero statidel medesimo sangue? Disgiunti di famiglia e nemici alloradurano ne­mici pursempre; equel che è peggionon sono più paricome allora le forze. Troppoè divenuto possente il popolo di Kiprat Arbate nella isperata felicità disue sorti vagheggia ambizioso la padronanza del mondo. Ogni terrafelice dipo­polodi naturali doviziee di utili industrie; Tiro e Sidonecoi lorodrappi di bissotinti nei vaghi colori della porpora; le isole del mard'occidentecoi loro candidi marmi e col più meraviglioso candore dellebellissime schiave; Mesrairnco' suoi nobili aromi e coi finissimi lini; Ofircon l'oro e col cedro; Bakdicoi poderosi cammelli e colle gemme preziose;l'India lontanacon le sue molli lane variopinte e co' tenui veli intessutid'ar­gento; l'Armeniaco' suoi corsieri veloci come il soffio della tempesta:ecco le invidiei desideriile cupidigie di questi ladroni. Nuotano essi nelledeliziesi sprofondano nelle voluttàimperocchè li affida il genio guerrescodi Semiramideche rassodi le prime conquiste e ne faccia di nuove all'intornovuoi con aperte guerrevuoi con in­finte alleanze ed amicizie.... le qualipagan tri­buto.... -

Ara sentì il colpo e chinò gli occhi a terrasenzarisponder parola. Frattanto quell'altro proseguivaincalzando.

- Ahfacil maestra d'inganni è costei! La sua bellezzachela mercè di arcani filtriresiste alle ingiurie del tempo e sfida glistruggimenti delle protratte vigilieè pari all'albero della morteal cuimeriggio posandol'incauto pellegrinos'ad­dormenta in eterno. Te pureogenerosoella ha colto ne' suoi laccicome altri prima di te. Ma costoronegl'incantesimi suoi perdettero solamente la vita: tu perdesti la vita in paritempo e l'onore della tua fortissima schiatta. -

Udì le dure parole il re d'Armeniae non ne prese sdegnosiccome qualche ora innanzi egli avrebbe pur fatto. Ma il dubbioatroce dubbiogli lacerava il cuore; ma la fede in quei tre uo­mini velati gli era cresciutanell'anima. Infinenon dovevano costoropotenti sugli spiriti invisibilidargli le chiarele certele incontrastabili prove di tutto ciò cheasserivano? Queste prove atten­devaa queste miravadi null'altro gliimportava in quel punto. E il capo gli ardeva; il sangue ribolliva nelle venegli martellava concitato alle tempie.

- Lasciamo di me! - gridò egliche temevadesideravae adogni modoper quelle dirette allusioni del suo interlocutoresentiva vicina lacatastrofe. - Di leidell'amor suodella fine di Sandiio vi chiedo; non peraltro son io disceso quaggiù. Perdonateo venerandialla mia impazienzaallamia soverchia cura di cose terrene; ora io non sono già più signore di me. Miavete soffiato il dubbio nell'anima; mostratemi il vero; esso sarà sempre menoacerbo del dubbio. M'in­gannò quella donna? E sia; svanirà il mio sognocadrà la mia corona nel sanguemorrà con me la stirpe d'Aìco.... Ma che ion'abbia le prove! Che il verol'amarissirno veromi si mostri in tutta la suadolorosa pienezza!

- Tu lo vuoie sia! - disse il savio dal fiore di loto. -Virtù dormenti della naturaidee ma­dri di ciò che èincancellabiliparvenze di ciò che furipigliate forma visibile davanti agli occhi del re.Gli sia mostrato da voi quanto egli ebbe di più caro sulla terra; e cosìvivamenteche i sensi di luioffuscati finora dal dubbionon ricusino piùoltre la testimonianza del vero. Schiuditiadunquemisteriosa cortinache cinascondi il passato! -

Una mano invisibile fe' scorrerea quel co­mandoglianelli della negra cortinache partita in due si ritrasse sui latilasciandoscoperto un largo spazio nel mezzo. Nulla vide il re d'Arme­nia là dentro;nulla più vide intorno a sèil lume delle lampade essendosi spento ad untratto.

- Noi ti lasciamo; - disse la voce del savioallontanandosida lui. - Volgi in quel nero spa­zio tutta la possanza del tuo desiderio;aguzza lo sguardoe prega Iddio che t'illumini. -

Il giovine Ara si sentì solo un'altra volta. Tese l'occhioobbedienterimase a lungo aspettandoe finalmente gli parve che il buio sirischiarasse di mano in mano. Era dinanzi a lui come una superfìcie pianalevigatama trasparente in pari tempo e profondaentro la quale si venivadise­gnando lentamente alcun che d'incerto e di mutevoleincognito indistintodi ombre e di barlumidi di forme e di colori nascenti. Che voleva dir ciò? Ecome chiarire a sè stesso l'arcano di quel dop­pio aspetto del piano e delprofondodel diritto e del concavo? Avea trasparenza d'acqua tranquillaciòche egli vedeva; ma come poteva l'acqua rimanersi in tal modo sospesa nell'ariaa somi­glianza di velo? Noacqua non era quellaper fermo; imperocchècomeavrebbero potuto prodursi nel suo grembo opaco quelle forme sva­riateecrescereilluminarsiassumer contorni e colori? Eccodi fatti; alla suadestra si pro­tendeva una massa scurasi allungava il ciglionesi partiva increste e sporgenzeindorate dal sole. Più indietro erano colline digradantiquali tinte d'azzurroperchè più lontanequali di violetto e di verdeseminate di punti bianchi e lucidiche si facevano più frequenti nel bassoverso la sponda d'un lagola cui superficie si vedeva increspata dalle lievibrezze del nascente mattino.

- Peznuni! - gridò il giovanecompreso di maraviglia.

E tutto intentoansiosopalpitante per memore affettosistette egli rimirando quella magica scenache prendeva sembianza di verodavanti al cupido sguardoe cercando con assidua cura e ritro­vando di mano inmano i cari luoghile balze sporgentile insenaturei margini del lagogliedifiziie via via tutte le cose più ripostedi cui gli tornavano in mente leimmagini. Di pari passo con le sue ricordanzequasi rispondendo ai suoidesideriiuscivano lucide forme dalla vaporosa penombrae il quadro si facevasempre più vivo. Sìerano quelli i suoi monti; quella era la rocca di Van;quel colmo di case che biancheg­giava là in fondoera Armavirla sua dilettaArmavir; quegli alberi verdeggianti eran pure i sa­cri platani di Peznuni;quella candida striscia serpeggiante lunghesso la sponda del lagoera ilfiorito sentiero che egli adolescente aveva corso e ricorso le tante volte incompagnia dell'amico.

E appunto allorasu quel noto sentierovide egliaffacciarsi da un ammasso di lieta verdura due giovinetti che procedevano ilarie baldil'uno a fianco dell'altro. Vestivano entrambi ad un modo e d'uno stessocolore; donde si sarebbe argomen­tato che fossero fratelli. Senonchèl'und'essialquanto più rilevato della persona e biondo di capellialladimestichezza con cui s'appoggiava sull'òmero del compagnoappariva essere dipiù alto gradoe l'altronotevole per le chiome cor­vineinanellate elucentimostrava agli atti non essere dall'amicizia disgiunto l'ossequio. Delrestolieti ambidue di vivere insieme e tutti assorti nelle tenerezze di unfraterno colloquio.

Poco stante si fermaronoed Ara rimase estatico acontemplarli. Vide allora l'un di essi re­carsi tra mani un cavo strumento dilegnoche portava ad armacolloe dalle cordetese sovr'essotrar suoni conle agili dita. Era egli in­ganno dei sensio verità? I suoni della cetragiunsero distintamente all'orecchio di Ara.

- Sandi! ohSandi! - gridò egli commosso. E gli parveallora di non essere più al suo luogospettatore lontano di quella scena delsuo dolce passato. Si sentìin quella vecesi vide vicino all'amicoeimmedesimato con quel biondo adolescente che sedeva sulle molli erbe del pratoal fianco di Sandiin atto di pendere dal suo lab­bro e dal fremito dellecorde canore.

- Prosegui! - diceva egli con amorosa sol­lecitudine alcompagno. - Grato m'è il suono della cetrae più grato il suono della tuavoce. -

Ma Sandi aveva cessato; il suo strumento gia­ceva a terracolle corde spezzate.

- No; - rispose egli all'amico. - La mia cetra non ha piùsuoni; nè più ha canzoni il mio labbro. Non vedi? Son morto. -

E allora il re d'Armenia si fece a contemplarloe un sensodi raccapriccio gli corse per l'ossa. Sandiil suo Sandinon era più ilbaldosorri­dente e roseo garzoneche egli aveva conosciuto ed amato. Lafaccia aveva livida e gonfia; le membrasiccome apparivano dalle lacere e lordevestiammaccate e sanguinolenti. Nelle peste oc­chiaie si sprofondavano lepupille smorte sotto le palpebre semichiuse; i capegligià sì neri e lucentisi vedevano rappresi alle tempiestilla­vano acqua limacciosa lunghesso iltumido collo. Era il cadavere di un annegatoeorribile a ve­dersipiùorribile ad udirsiil cadavere parlante!

- O Sandi! - gridò il re d'Armenia atterrito; - Sandimiodolce amicoche è ciò?

- Ella mi ha ucciso; - rispose Sandicon voce cavernosa.

- Ella? chi?

- Atossala tua leggiadra ed amatissima Atossa.

- Atossa! - balbettò Ara tremante. - Io non t'intendo....

- Sì- soggiunse il fantasma- non è egli forse questo ilnome che la perfida donna as­sumea nascondere i suoi amori feroci? Vana curadel resto! Ella è ben nota in tutte le opere suel'impudica. Ognuno la conoscein Babiloniae la fugge. Si teme la regina e si disprezza la donna. Perònonamorema ripugnanza per leiper la notturna cacciatrice degl'incautistranieri!

- Ah! dici tu il vero? - gridò Araferito nel profondodell'animae in quella parte più gelosache l'uomo vorrebbe asconderenonpure altruima a sè stesso.

- Può il labbro d'un estinto mentire? - gli chiese Sandicon accento severo. - Evivo an­corahai tu mai potuto notarlo di menzognal'a­mico della tua fanciullezza? -

E così dicendoil fantasma si veniva facendo più pallidonell'aspettopiù incerto ne' contornia guisa di visione che si dileguio disogno che abbandoni il capezzale d'un dormente.

- Ah noSandifermatinon mi lasciare così! - proruppeAratendendo le palme verso le ami­che sembianze. - Io non dubito già delletue parole; dubito di medella vitadi tuttopoichè la mia fede in quelladonna s'è scossa.

- Tanto ti aveva ella ammaliato! - sclamò Sanditornando alui e guardandolo con aria di profonda mestizia. - E forse domani ancora....

- Ah nonon temere! Io non vedrò più quella donna; logiuro pei sacri platani di Peznuni; pel sangue di Aìcolo giuro. Uccider temio Sandi! Teil più caroil più nobileil più affettuoso degli uomini! Epotrei io più avvicinarmi a costeisenza sdegnoaccogliere i suoi baci senzari­brezzo? Ma dimmi- proseguì Aracon accento peritoso; - condona a chiamòe credette di esser riamatola molesta dimanda. Come ti av­venne diconoscere costei? Come fu ella cagione della tua morte? La fama che corse deltriste caso in Armenianon era dunque mendace?

- Assai meno del vero recò intorno la fama; - rispose Sandiall'amico. - Ascoltamio ree vedi in chi avevi tu posto il cuor tuo. Tu losaidolce amicoche io non vedrò più sulla terra; egli fu nello scorso annoe nel primo giorno del mese di Bagayadisc (i Babilonesi lo chiamano Ziggar) chenoi ci demmo l'addio della partenza. Te chiamava debito di figlio e di principeal fianco del fortissimo Aràmosui confini del set­tentrioneper castigarecoll'armi gli irrequieti scorridori Turani. Me vaghezza di cose nuoveamore digloriafolliatrassero in quella vece alla pianura di Sennaar. Ohavess'ioseguito il tuo affettuoso consiglioche mi chiamava ai campi di Masciagpercelebrare cogl'inni alati la virtù dei combattentii corsi pericolilevittoriei trionfi! Ma il Dio delle sorti m'aveva posto le mani po­deroseentro i capeglimi volevami trascinava quaggiù. E venniacceso il cuore diliete spe­ranzel'anima riboccante di auree canzoni; vennie nel bosco sacroa Militta....

- Ahcom'ioSandicom'io'....

- Sìpur troppo; egli è in tal guisa che il gio­vinestraniero si perdeche l'aquila della montagna si lascia cogliere al laccio.Così la vidiudii il suono delle sue dolci parolem'inebbriai nella voluttàdei suoi baci. E non sapevo credere a me stesso; la mia felicità mi pareva unsognoda cui dovessi col mattino svegliarmi. Imperoc­chècome poteva egliaccadere che un ignoto stranieroun oscuro artefice di canzonigiunto nelmedesimo giorno alle mura di Babilus'incon­trasse in un tale miracolo dibellezzae questo miracolo non gli fosse conteso da mille rivali? Tutti que'baldi garzonifiorenti di gioventù e di leggiadriache s'accalcavano nelsacro recintoin traccia di liete ventureerano essi usciti di senno? Ma forseella non si cura di loropensai; destinata all'amor mio dal provvido volere diMilittacostei ha negletti gli omaggi di così vani amatori. Diffattiamanoessi veramentei figli di Babilu? Amano essicome noi amiamouna volta solanella vitae per sempre? Così pensavo; nè le sue parole suonarono disformidal giudizio ch'io facevo di lei. Cercava affettoma invanogagliardo esincero come il suo. Ognuno in lei vedeva e desiderava la reginanessuno avevaamata la donna. Ed era solasi sentiva sola nel suo vasto imperocome un'isoladeserta sul mare!.. -

Il re d'Armenia mandò fuori dal petto un sordo grido cheparve ruggito di belvaa cui il giavel­lotto del cacciatore siasi conficcatonel fianco. In­veroquelle erano parole di Semiramide; l'ingannatrice avevacosì parlato anche a lui!

- Prosegui! - disse egli impaziente. - Pro­segui!

- Io l'amai- ripigliò con accento disperato il fantasma-l'amai con tutto l'impeto del cuor mio giovanile. Amante della donnanon vennimeno all'ossequio dovuto alla regina. No; io te lo giuro per l'antica amicizia;la vanitàl'ambi­zione non fecero velo ai miei occhi. In lei non vidinonconobbi che Atossa. Fu ella che non si tenne paga di ciòche mi volle ospitesuo nella reggia. La donna che ama (fino a tanto questo incendio le duri nelsangue) non sanon puònon vuole celare l'amor suo alle genti; ella se neadorna come di un prezioso monileal cospetto del mondo; ognuno ha dascorgerloda invidiarlo eziandio; che montase domaniinfastiditaellagetterà lungi da sè quell'ornamento di un giorno? Così apparve nella reggiail tuo Sandicosì fu assunto alla superba allegrezzaagli splendori delvivere cortigiano; così fu festeggiatoaccarez­zato e fatto segno d'invidiaprofonda. Ma eglinon mutato dal regio favoreagli ossequi della moltitudinerispondeva con riguardosa umiltàalle lodi dei grandi con grata riverenzaaisorrisi delle vezzose ancelle e compagne della regina con modesto riserbo.L'innamorato garzone non ve­deva che lei. Ed ellacome rispose all'amor suo?Due lune erano trascorsee Semiram non lo amava già più. Era giusto! Un vilcantore d'Armenia!... Ma alloraperchè innalzarlo fino al piè del suo trono?Perchè giurargli un'eternità d'affetto?

Pregatascongiuratasi schermivaadonestava il suomutamento con le assidue cure del regno o cogli urgenti apparecchi di unaguerrache ella stava per muovere ai popoli dell'estremo Oriente. Intantolecare notti vegliate tra i pensili ortidi contro alla dormente cittàsottol'azzurra vòlta seminata di astri lucentierano finite per Sandied egligemeva solingo e negletto nelle sue stanze obliate. M'intendi tu! Solingo enegletto! Così teneva fede a' suoi giuramenti costei!

- Finisci! - incalzò il re d'Armeniacon voce soffocatadall'angoscia.

- Sì; la storia è breveoramai. Una seraatroci sospettimi morseromi lacerarono il cuore. Se fossi tradito!... Volli correre a leisincerarmi co' miei occhi medesimiudire la mia sentenza dalle sue labbra.Palpitante d'amore e di rabbiabalzai fuori dalle mie stanze; m'avviai per unandito segretoche conduceva agli appartamenti della regina. Da più giorniella mi aveva vietato di rifare quel noto cammino; ma io non badavo già più alsuo divieto. Il mio sangue ardeva; non ero più padrone di me. Corsidunquemainvano; l'uscio era sbarrato ed io mi ritrassi impossente. Un dubbiocome lamponelle tenebremi guizzò nella mente. Uscii dalla reggia. Ero noto ai custodie mi dischiusero il passo. Dove correvo ioin tanta angosciaper le sterminatevie di Babilonia? Tu lo indovinio re; al sacro bosco di Milittadove il cuoremi diceva che le gravi cure del regnoi pensieri della guerra imminenteavesser tratta costei. Presago mio cuore! Ben mi parve di ravvisarla colàtutta chiusa nel suo candido pallio di bissodal cui lembo traspariva la lungastola violaceafrangiata d'argento! Fuggìquando mi videe il mio ignotorivale con lei; di guisa cheper mezzo alla calca dei felicinon mi vennefatto raggiungerlie gl'intricati meandri del bo­sco mi fecero perder latraccia. Era dessa; ohnon si poteva dubitarne; era ella Semiram Gli occhi suoibalenarono attraverso il fitto velo che la coprivaed io sentii quello sguardopenetrarmigelida puntanel cuore. Ah mi fosse bastato quel cenno! mi foss'iorattenuto a quel punto! Ma tu lo saiAra; l'amore accieca. Errai lungamenteignaro di medella via percorsadi tutto. Il di vegnenteella era chiusa aconsiglio co' suoi mi­nistri e capitani d'esercitonè mi fu dato vederla.Solamente sul far della sera ella fece chieder di mecome per lo passatoe ilmio cuore si ria­perse alla speranzanello scorgere il muto messaggiero de'suoi teneri inviti. Patimenti duraticollere e piantitutto dimenticai in unpunto. Nella sùbita ebbrezzagiunsi perfino a negar fede a' miei occhi; mipersuasi di aver travedutola notte addietronel bosco di Zarpanit; la federaggio di sole dopo i rovesci della tempestami racconso­lava lo spiritocancellava ogni passata tristezza. Così è l'uomo che ama! E giunse finalmentel'ora aspettata. Uscii commossopalpitantedalle mie stanzem'avviai perl'andito segreto.... Ahmaledizione! Avevo a mala pena oltrepassato l'uscionon più chiuso tra me e l'argomento miei desideriiche il suolo mi mancòsotto i piedi. Brancolaitentando aggrapparmi da qualche latoma invano; ioprecipitavo nel vuototrabalzato contro le liscie pareti d'un pozzo. La cadutaera altaquanto il palazzo medesimo della reginae fu tutta per me una lungabestemmiauno spavento supremouna feroce agonia. I ripe­tuti sbalzimipestavano le membrami fiaccavano l'ossa; lame corte e taglientiinfisse ne'murimi coglievano al varcomi spiccavano brandelli di carne. Finalmente ebbitregua nella morte; diedi un tonfo; larghe ondate mi schizzarono intornoe igorghi romorosi dell'Eufrate si chiusero sopra di me. -

Le chiome si rizzarono per raccapriccio sulla fronte di Arae un sudor freddo gli stillò per tutte le membra.

- Orrore! - gridò eglipoichè il doloroso fan­tasma ebbefinito il racconto. - Ma è una belvacostei?

- Ben diciuna belva. E tu pure finiresti cosìrimanendo.

- Ahsarebbe il minor dannocotesto! Lon­tano da leinonavrò io morte del pari? O Sandiil mio cuore è spezzato. Ma ella mi udrà.

- Non tentare la provasconsigliato! Che po­tresti tusoloed inermecontro la signora di cento popoli? Che ardiresti tuuomo e di nobilsentirecontro una donna? O ti romperesti come una fragil canna nel pugno dellaoffesa reginao piegheresticome giuncoalle lusinghe della im­puramaliarda.

- Oh maite lo giuro! Ma dimmiconsigliamiombra diletta;che altro debbo io fareche non dispiaccia alla tua vigile amicizia?

- Fuggire; non già come pauroso cerbiatto che teme lo straledel cacciatorema come leone che rompe le sbarre del carcere e ripiglia la suali­bertà. Va; mostrerai alla ingannatrice come a te le sue male arti siannote. Rammenti l'oracolo di Peznuniinnanzi che tu lasciassi Armavir? " Laterra di Sennaar ti sarà fatale! " Torna alla tua reggiameno sontuosama più ricca d'onore; la­scia che costei si strugga nella sua rabbiaim­possentee farainelle tuele vendette di Sandi. Ed oraaddio; tisovvenga di me!

- Già mi lasci?

- Sì: l'alba novella è vicina; il dio delle om­bre non miconcede più lunga dimora.

- O Sandimio dilettonon ti vedrò io ancora una voltasulla terra?

- Forse! - rispose mestamente il fantasma.

- E dimmi.... - aggiunse Ara peritosocome chi teme dichieder troppo; - non avrò io da te un pegno del nostro colloquio?

- Dubiti ancora! - esclamò Sandi con accento di rimprovero.- Orbeneeccoti il pegno. -

Così dicendo il fantasma si appressòpose le palme sugliòmeri di Ara ed accostò le labbra al suo volto.

Il re d'Armenia sentìinsieme col baciol'im­pressionedell'acqua diacciatache grondava dalle chiome del morto; diè un grido di altoterrore e cadde esanime al suolo.

La visione era sparita; le tenebre regnavano nel sotterraneo.

Poco stante uno scalpiccioun bisbiglio som­messo si udì;quindi apparve una faceportata da uno dei muti custodi del luogoe il suochia­rore illuminò i tre savitornati allora là dentro. Il re d'Armeniaappariva disteso a terracolle membra proscioltedavanti alla negra cortinache erasi richiusa da capo.

- Avrà egli creduto? - domandò il savio che portava tramani il ramoscello di amòmo.

- Non l'hai tu udito favellare col fantasma? - disse a lui dirimando il compagno del fiore di loto. - Il filtro ha fatto opera efficace sului.

- Ma partirà egli? - chiese ancora quell'altro.

- Ne dubiti? Io n'ho certezza. Ardente e pieno di fedecometutti i generosiegli non vedrà più reginaseguirà il nostro consiglio.

- Eppure....

- Eppuret'intendotu vagheggi sempre il di­segno diucciderlo.

- Sempre! Nemico ucciso non dà più molestia.

- Nol nego; ma egli non è più nemico.

- Nostroconcedo: ma mioegli non ha ces­sato di essereper questo suo odierno corruccio contro di lei. Però torno al mio primoconsiglio; uccidiamolo. Badate- soggiunse il savio dal ra­moscello d'amòmoparendogli che gli altri due si rimanessero ancora perplessi; - noi siamo unitidal vincolo del vantaggio comune. Prose­guiamo tutti un medesimo fine; il mionon può non essere il vostro.

- Bada a te piuttostoo Zerduste- rispose il savio dalfiore di loto. - Nella tua privata ven­detta naufragherebbe l'alto propositoche ci ha collegati. Rivale negletto di questo giovane Ar­menoa cui bastòmostrarsi per conquiderle il cuorepuoi tu fare che ciò che è accaduto nonsia? Tanto varrebbe comandare ai fiumi discor­rere a ritroso e rifarsi alleprime sorgenti. Dimmi: la tua maschia virtùil tuo antiveggente consi­glioti avrebbero forse abbandonato di un tratto? Ameresti tu sempre colei?

- Not'ingannio Sumàti. Profondotenaceè l'odio miosiccome fu un giorno l'amore. Cosìnon bevuto a tempoinasprisce il soaveliquor dell'amòmoe si converte in veleno. Ma io temo ancora.... Lui vivopotremmo viver sicuri?

- Lui mortotemiamone un altro; - notò pron­tamenteSumàti. - Ella è donnaesiccome avvien delle donnemutevole ha il cuoresempre bisognoso d'affetto. Ma lascia che viva costuibellissimo fra gliuomini; lascia chefuggiasco tra' suoi monti natalisi manifesti a lei superbospregiatore di sua facil conquistae vedraive­drai furore di donnacomealto divampa!

- Sì; - soggiunse il compagno che aveva tra mani la fogliadi papiro; - ben dice Sumàti. E spento da noi il re d'Armeniache altroavverràche giovi ai nostri disegni? Niente saprà la re­gina del disprezzodi lui; sconsolatalo piangerànè certo si rimarrà dal cercare gli autoridella sua morteper trarne aspra vendetta. Siam noi così certi che i misteridella Triade non abbiano un giorno a scoprirsifors'anco prima che l'operanostra sia condotta a buon porto?

- Tu lo vedi; - ripigliò allora Sumàti; - an­che il savioManète è contro di te. Cedi ai nostri consigliall'utile della causa comune.Infinedi che abbiam noi mestieri? Di che tu stessoo Zerdusteil qualegagliardamente ti adoperi per la liberazione della tua Bakdi dal servaggio deifigli di Cus? Viva ed aiuti i nostri disegni il pronipote di Aìco; egli è unnuovo e possente arnese di guerra contro i superbi dominatori di Babilonia. Nonlo dicevi tu stessoierimostrandoci la ne­cessità di questo rapido colpo sului? Nemici av­venturati di Babilonia furono un giorno gli Ar­meni; sospettosivicini durarono pur sempre; son tributarii oggima tementi di peggioepreparati a resistere. La favilla che può destare l'incendio sta in nostramanoe noi la spegneremmodis­sennatiin quest'ora? Lo sdegno di Semiramlaguerra all'Armenia; non è questa l'occasione for­tunata che attendono i tuoiper ribellarsi al giogo? Ed in questo risveglio di popoli soggettinon è lanostra salvezza comune? Ai pattiZerdusteai pattiche tu stesso hai giurati;e rammenta che il numero è legge. -

Così parlò risoluto il savio del Gangee Zer­duste chinòil capo al voler dei compagni.

- E sia come a voi piace! - diss'egli. - Così torni utilealla gran causa il vostro decretocom'io mi sommetto alla legge del numero. -

Ciò dettosi trasse in disparte. E Sumàti frat­tantoavvicinatosi al re d'Armeniasi chinò sopra di luidandogli a respirar per lenari le acute fragranze d'una ampollache egli aveva cavata pur dianzi dalseno.

 

 

CAPITOLO XII.

 

LA FUGA.

 

Il mattino era sortorestituendo i colori smar­riti allecose. La vôlta celestecon soavi trapassidi cenerognola che l'aveva mostratail primo bar­lume del giornoerasi venuta schiarando in un bianco perlatocheverso oriente volgeva allo smeraldoper mutarsi più oltre in colore di fiammasu quell'ultimo confine donde aveva a sorgere il sole. Commosse al lene soffiodella brezza mat­tutinaondeggiavano le biade per l'immenso piano; e qua elàda un mare di lieta verduraspunta­vano le castella lontanei villaggii casolarisparsi a guisa d'armenti sui pascoli.

Intantouna lunga cavalcatauscita pur dianzi dal sobborgosettentrionale di Babiloniarisaliva di buon trotto la strada maestralunghesso la riva destra del fiume. Già biancheggiava davanti alla torma ilvillaggio di Lahirù; e l'astro del giornoapparso in quel mentresull'orizzontemandava il suo primo saluto alle torri predilette di Sippara.

Correvano frettolosivolavano via come il vento i cavaliericoi grand'archi sull'òmero e le frecce risuonanti nelle lucide faretre. Dinanzia loro cavalcava un nobil garzonepallidosmunto le guanceaccigliato e cupoil sembiantepur tutta­via bellissimo sempre a vedersi. Un'acerba curapiùassai che l'insonniasegnava di triste nota il suo voltoe lo facevanoncurante d'ogni cosa che il suo pensiero non fosse. Difattimentre i seguacisuoi ad ogni tanto si volgevano indietro sulle groppe dei cavalliper rimirareancora una volta la gigantesca cittàche si veniva illuminando alle lorospalle e sempre nuovi aspetti assumeva ai crescenti raggi del soleegliiltaciturno coman­dantenon dava da quella parte neppure una fug­gevoleocchiatae al premer convulso delle ginocchia ne' fianchi del suo corsieroallentargli le redini sul collopareva che avesse fretta di correrediallontanarsi da un luogo odiatoo te­muto. Per contronon badava ai compagnise pronti d'ugual metro gli tenessero dietro. Istinti­vamente faceva camminorespirando a larghe ondate l'aria frizzante del mattinoquasi a sneghittirsi lefibre; ma il pensiero teneva sempre rivolto in sè stessoe si faceva semprepiù cupocome chinon trovando la via per uscir di tristezzasi chiudedisperato e si compiace nel dolore che lo uccide.

Frattanto i mattinieri abitatori de' campigli ar­teficiborghigianiin volta fra villaggi e castellasi tiravanoessi e le cose lorosui margini della strada; frotte di popolo agreste si affacciavano dalle siepifiorite; curiosi volti di donne ap­parivano in sull'uscio dei casolariperveder pas­sare la cavalcatadi cui si udiva da lontano lo scalpito.

- Chi sono costoro? - si diceva qua e lànella moltitudinedegli astanti. - Ahi baldi ca­valieri d'Armeniache tornano ai loro montina­tali. Giunti a mala pena ier l'altro! Breve dimora hanno fatto essi nellemura di Babilu! E il malka? Vedetelo; è quegli che va innanzi a tuttiloroAra il bello! Ara il prode! Viva in perpetuo il leggia­dro malka dellemontagne! Invero egli è simile a Neboal malka della vôlta azzurra. Ma comerannuvolato! che ha egli maiche lo rende così triste? Forse il dover partiredalla terra di Kiprat Arbat. Ma perchè tornarsene così presto? Le rose diSennaarnon non avevano dunque fragranze per lui? Vedete; egli neppure s'accorgedella nostra presenza: non cura i salutinon risponde agli ev­viva. Orgogliosoè l'Armenocome tutto il suo popolo. Pureegli ha dovuto scendereportartributo alla gloriosa regina degli Accad! -

Così dicevano gli abitatori dei campi; e proseguiva Aravelocesenza por mente alla turba curiosao dare ascolto ai clamoriaglievviva.

Che era egli avvenuto? Come a quell'ora già tanto lontano daImgur Belcolla sua gente raccolta e frettolosa a seguirlo?

Ricuperati i sensi e riavutosi dal suo smarri­mento nelsotterraneoil re d'Armenia aveva veduto daccanto a sè il savio dal fiore dilotonon più velata la facciache lo guardava con occhio amorevole e sistudiava con paterna cura di essergli utile.

- Santo vegliardo- disse Aracrollando me­stamente ilcapo- la mia anima è triste fino alla morte.

- Suvvia- gli rispose Sumàti- non ti per­der d'animoore. L'uomo antico è morto quag­giù; tu rinasci da' tuoi erroripiù giovanepiù ar­dito e più forte. La terra di Sennaar non ti sarà più oltre fatale.Il destino è scongiuratoe quialle sacre fonti del verotu hai attinta lavita.

- Ah! - esclamò il giovanesospirando. - E per che farneormai?

- Fanciullo! - disse il saviocon piglio affet­tuosochetemperava il rigore della parola. - E credi tu che nulla più ci rimanga asperare sulla terraperchè abbiam conosciuto menzognero un affetto? Ma a chesplende il sole nel firmamento? A che accese in noi il creatore la fiammaimmor­tale dell'intellettoparte dell'anima sua? Sorgi e camminao predilettacreatura di Brama! Non sei tu di quella casta d'uomini ch'egli trasse dal suomedesimo braccioperchè avessero ad im­pugnare lo scettroper comandare allegentie farle gloriose e felici? Non ami tu il tuo popolo? Non ricordi la tuareggia d'Armavir e i noti volti che ti sorrideranno ossequenti al ritorno?

- Sì; - rispose Ara commosso; - un Dio parla per le tuelabbrao venerando. Noi non na­scemmo per noi. -

Così dicendoaveva tentato di sollevarsi da terra; ma nonpotè reggersi sulle ginocchiabar­collò e cadde tra le braccia del savioche fu sol­lecito a trattenerlo.

- Bevi; questo ti rinfrancherà; - disse Sumàtistillandogli sulle labbra alcune gocce da una fiala che aveva tolta dallacintura. - Ed orafigliuol mioadagiati su questa lettiga; mentre turistorerai le membra affaticate nel sonnoi no­stri uomini ti ricondurrannofuori di qua.

- Dove? - chiese Aracon atto di ripugnanzache non sfuggìall'occhio del savio.

- Ohnon già nelle tue stanze di iersera. Gli spiritiinvisibili che t'hanno dischiuso la via allo scamponon riaprirebberocertamente il cammino della tua perdizione. Quell'adito è chiuso per sem­pre.Ti desterai in quella vece dove più ami ve­derti.... fra i tuoi.

- Fra i miei; - balbettò il re d'Armeniaa cui già ilsonno faceva gravi le ciglia: - fra i miei! Ma tusanto vegliardomi lasci?

- È necessario.

- Non ti vedrò io dunque più?

- In seno di Brama è il futuro; - rispose so­lennemente ilsavio dal fiore di loto. - Dormio re d'Armeniae dimentica! -

Il vecchio era sparito; ed Arapoco stantedor­mivaprofondamentein quella che i muti custodi del sotterraneoalzata la lettigasugli òmerisi disponevano a condurlo all'aperto.

Allorquando il re d'Armenia si risvegliò da quel sonnoletargicoegli era disteso su d'un letto di piumein una camera adorna disontuosi tap­peti e morbide pelli di fiere. Pendevano sopra il suo caporaccolte a festonile ampie cortine di un padiglione di porpora; lucerne diforbito rame spandevano per la camera un mite chiarore. At­tonitovolse gliocchi lungamente in giroe ri­conobbe il suo posatoio della prima seranell'edifizio fuori la cinta di Nivitti Beidove era smon­tato ad alloggio co'suoi.

Maper qual via era egli giunto colà? Come si trovava egliadagiato in quel letto? Aveva egli sognato dapprimao sognava in quel punto?

Mentre egli era in cosiffatte incertezzeBared gli si feceinnanzi ossequioso. Il suo fidato Bared appariva vestito di tutto puntoinarnese da viag­giocon la sua fascia di lana intorno ai lombi e la spadapendente dal fianco.

- Tutto è pronto! - diss'egli.

Il re d'Armenia lo guardò trasognato. Ma Ba­red non volgevagli occhi su lui.

- Che cosa? - domandò allora il re.

- Il corteomio dolce signore; - rispose Ba­redinchinandosi. - I cavalli sono in ordinanza sulla viae i cavalieri fermi inarcione. I cam­mellicoi bagaglionison già da un'ora in cam­mino.

- E.... - balbettò Arastupefatto- perchè tutto ciò?

- Ma.... - soggiunse umilmente quell'altro; - non sei tusceso stanotte al mio capezzaleper comandarmelo?

- Io?

- Sìmio signore. Inverotu mi parevi turbato oltremodo." Suvviami dicesti; svegliatio Barede fa che tosto si alzino i nostriuomini. Bisogna partire innanzi giorno; si torna in Armavir; tra un'ora cimetteremo in cammino. " Furono queste le tue parole; non le rammenti?Temendo di alcun triste caso che ti fosse intervenutoardii chiederti ilperchè dell'improvvisa partenza. Non m'hai risposto; io mi sono affrettato adobbedirti; ed eccomi quapronto ai tuoi cenni. -

II re d'Armenia stette alquanto sopra di sèmentre Baredparlavae richiamò alla mente smarrita tutte le confuse memorie diquell'orrida notte. Furono allora argomenti di tristezza inef­fabilepaurosevisioniacutissime spine che gli si strinsero al cuore. Così la cervatrafelatapoichè vanamente ha tentato di sottrarsi allo stuolo de'cacciatoris'arresta e vede d'ogni banda se­gugi in voltacavalli accorrentied architesiche le fanno piover sopra un nembo di strali.

- Io non ho parlato a Bared; - pensava egli in cuor suo; - macome potrebb'egli essersi in­gannato a tal segno? Ahcerto egli è Sandichegli ha recato il provvido avvisoil suo volere si compia! -

E balzò prontamente dal letto; indossò la tunica bigialistata di rossoche gli profferiva il suo fido; cinse la spada; imprigionò icapegli nella mitra di nera pellicciaornata al sommo da un mobil ciuffo dipenne; si gittò il mantello sugli òmerie uscì e si affrettò per le scalefino all'in­gressodov'era il suo cavallo bardato; tutto ciò senza far motocon rapidità fulmineacon atti convulsi. Indi a pochi istanti era in arcioni espingeva il generoso corsiero a galoppo; gli altri tutti dietro di luiinordinanza serrataverso la porta settentrionale della città.

Così erano partiti; ed Araspronando il cavallo di làdalla porta di bronzonon avea pur vôlto indietro lo sguardo a rimirarBabiloniala maravigliosa città che egli abbandonava per sem­pre. Un misto diodio e di raccapricciopiù an­cora di rabbia e fastidio di sègl'ingombravalo spirito. Pur di sottrarsi a quella oppressuraavrebbe amato uscir di sennoaddormentarsi in perpetuonon essere.

Povero cuore umano! Com'è egli sempre schiavo delle suemedesime finzioni! Ma infinee non son esse la parte migliore della vita? E ilcuore che fosse assoluto signore di sènon regnerebbe egli nel deserto?Inverosenza questa eterna ca­gione di piantiche sono gli affetti nostrilefan­tasiei rapimentigl'inganniil cuore sarebbe da paragonarsi ad unasolitudine ignuda. Ahimècosì sia dunque; amarepensareviveree sempresoffrire.

Un senso di sollievocomunque leggiero e tutto materialeera pel giovane il correrevolar viafendere la brezza del mattinoin groppaal suo palafrenodocile agl'impulsisaldo alla faticasiccome tutti i cavallid'Armeniacelebrati allora per forza e rapidità singolare nel mondo.

Bello è il corsieroe veramente degno dell'amore dell'uomo.Nobile e generososi acconcia di buon animo ai voleri del suo signore; servoossequentenon vileama e non lo dicema ne' suoi grandi occhi umidi èun'eloquenza ineffabile. Delicato e sensibileun nulla lo turbagli faarricciar le naridrizzar le orecchie e correre un tremito per tutte le membra;ma una parolaun gridoun incitamento lievissimogli fa vincere ogni temasquassar la criniera e pigliare il galoppo contro l'ignoto pericolo. Ha terrorifemmineied impeti virili. Amico dell'uomosia che ci porti a ritrovo d'amoresia che ci tragga in battagliao ci scampi da inseguenti nemiciintende leansiei palpitii moti tutti dell'animo; partecipa ai nostri affettiaglisdegniai dolori; non si lagna della nostra crudeltà momentaneapoichè cisente accorati; patisce ogni disagiopoichè ci vede soffrire con lui; sfidaanimoso la mortecade sfi­nito di stanchezzao coperto di ferite per noi;pago d'uno sguardo compassionevolelieto di un'ultima carezza su quel poderososuo colloma­dido di sudore e di sangue.

VacorriTiglat; divora la viageneroso cor­siero. Il tuosignore è tristecome notte d'inverno nelle gole dell'Ararat; lontanoassailontano da Babiloniapotranno aver le sue membra un'ora di riposonon il suospirito un istante di tregua. Ben più sereno dell'animo tu l'hai portato a volosui combattuti campi di Masciagcontro le schiere fuggenti dei predatoriTurani. VacorriTiglat; divora la viaperchè oggi ti converrà fare undoppio cammino. Dopo una breve sosta alle case di Isla cavalcata proseguiràveloce fino alle mura di Erech. E domani? Domani toccherete ai confini dellaterra di Naraimdove a nessun cavaliere che parta da Babilonia sarà più datoraggiungervi.

E viafrattanto; volavano via i cavalli sonanti tra nembi dipolvereallontanandosi sempre più dalla vista di Babilonia. Era bellal'immensa cittàsplendida ai raggi del sole nascentevero giar­dino didelizieinnalzato sovr'archi giganteschi alla gloria di Belo.

Bella era e splendidapiena di delizie per tutti i popoliche accorrevano alle sue mura; ma non più doveva esser tale per la sua gloriosaregina! Quel dìgiusta il costumela celeste Semiram erasi alzata per tempodai molli riposi. Il corpo aveva di donnama virile la temprae sa­pevamandare di pari passo le morbidezze del vivere femminilecon le aspre fatichedel campo e le gravi cure del consiglio. Asterse le membra nei limpidi lavacriraccolte in lucide anella le chiomeradiante di fresca bellezza e di sennomaturoaveva chiamati alla sua presenza i ministrideliberato sulle faccendepiù rilevanti della cittàudito le novelle dei corrierigiunti nella nottedalle più lontane contrade.

Senonchèquel giornouna nuova curae più dolcelafaceva impaziente. Udì a mala pena gli avventurosi messaggi; impartì brevicomandi e facili perdoni; nè prestò lungamente orecchie alle lodiche loscriba le riferiva essere state incise su nuovi marmidall'ossequio deigovernatori delle provincie.

Sola alfinechiusa negl'intimi recessi del suo appartamentoritornò ai geniali apparecchi della conscia bellezza. Cosa agevole adintendersi nello stato dell'anima suaella era così sicura di sècome inpassato; bene lo specchio le veniva ripe­tendocon la sua muta eloquenza:"sei bella" ma la regal donna non pareva contentarsi a quelletestimonianze cortesi. Il pensiero correva malinconico alla sua giovinezzaperduta e le faceva temere vicinipresenti quasii futuri oltraggi del tempo.Eppure ella vedevasi allora nel pieno rigoglio delle sue irresistibili graziel'invidiata rosa di Sennaar; in quella stagione che la donna apparisce piùbellasiccome il fiore più smagliante sul ramo; in quello che può dirsi ilriposo nella maturitàcosì lieto di vivaci coloricosì liberale disoavissimi effluvi; più bellainsommapiù giovane che non fosse da primaimperocchè l'amorecome occhio di solela illuminavapenetrandolaringagliardiva in lei le fonti della vita; donde lo scorrer veloce del sanguenelle tumide veneil perlato splendor delle carniil vermiglio sulle umidelabbrail baleno negli sguardi profondi.

Salambola prediletta fra le ancellebruna figlia del paesedi Martule si accostòle cinse il collo d'un monile di perlee sorridendoalla immagine della reginariflessa di contro a lei nel lucido disco d'acciaiole disse:

- Mia dolce signoranessuna donna al mondo è più bella dite. -

Piacque la lode a Semiramche la ravvisava sincera. Indicrollando il capo e sospirando con un suo garbo tra malinconico ed umilerispose:

- Ahgli anniSalambo volano essicalano implacati su noie ci rapiscono questi labili vanti!

- Che dici turegina delle terre e dei cuori? Essi volanointorno a tecome spiriti beneficie ognuno di loro ti reca una grazia dipiù. Forse non vedi come sei desiderata da tuttiaccompa­gnata dagli avidisguardi del popoloda un mor­morìo d'ammirazione ovunque tu passi?Dall'os­sequio dei grandi che ogni giorno s'inchinano a tenon vedi tutrasparire la vampa degli amori che accendi? -

A quelle parole dell'ornatriceSemiramide si fece rossa involtosiccome il frutto del melagrano.

- Ohparer belle agli occhi di tutti! - esclamò ella conaccento d'allegrezza profonda. - Sìgli è ciò che piace a noi donne. Ma unouno soloregni su noi. Schiavi tutti gli altri e non degnati pur d'uno sguardo;egli signore nostro per tutta la vita!

- Tu amiregina?

- Amosìe sono riamatanon pel mio serto regaleper me!-

II pensiero dell'ancella era corso al tempio di Militta eall'incontro di Semiramide col bellissimo stranieronel quale Salambocompagnaalla re­gina nella sua notturna visita al sacro recintoaveva posciariconosciuto l'ospite regale d'Ar­menia.

- Invero- diss'ella- se un uomo era degno dell'amor tuoper fermo gli è questi il leggiadro malka delle montagne.

- Ah! - sclamò Semiramidecon atto di stu­poreche nonaveva nulla d'ingrato.-E tu sai?...

- Perdonamidolce signora!... - balbettò con­fusal'ancella. - I miei occhi....

- Hanno veduto; - interruppe la reginacon un sorrisoamorevoleche valse a rasserenare la turbata ornatrice; - hanno vedutoe nonè colpa il vedere. Infinese io ho potuto amarlo la prima volta che lo vidimi dorrò che Salambo lo abbia creduto degno dell'amor mio?

- O mia reginanon t'ha ingannato il tuo cuore; - soggiunsela bruna figlia di Tiroinginocchian­dosi e baciando il lembo della veste diSemira­mide. - Egli ha la soave bellezzadi Sinil be­nefico Iddiorischiaratore delle notti; nè può dall'aspetto esser diversa l'anima sua.Gloriosa signoravivi felice in perpetuo! A te fu propizia Militta Zarpanitdicui tu sei la vivente immagine in terra.

- Vamia buona Salamboe gli Dei ascoltino l'augurio. Vaed Hurkiil capo degli eunuchiannunzi al malka d'Armenia che la regina loat­tende. -

Solanel suo geniale ritiroche era bello a vedersi permarmi di svariati colori e tavole d'a­labastro nobilmente istoriatelieto diacque zam­pillanti e della grata ombria delle latanie e dei salicicheprotendevano le foglie tinte di vivo smeraldo tra le colonne dell'apertologgiatoSemiramide attendeva il leggiadro suo ospite. E se­duta su d'un tronod'ebanoincrostato di pietre prezioserattenuta la bellissima guancia tral'in­dice e il medio della candida mano arrovesciata a sostegno del capoellastavasi meditandogo­deva tacitamente in cuor suopregustava l'alle­grezzaineffabile del vedere l'amatoe scorgere su quel viso i segni dell'internotumultonell'atto di comparirle dinanzi. E così procedendo di pen­siero inpensieros'inoltrava nei vaporosi regni del futurosognava gaudii infinitiintravvedeva giorni di felicità senza pari.

V'ha una pianta nelle contrade predilette dal soleunapianta singolare tra tuttela qualenata in arida terrastenta anni ed anniil nutrimentoonde il suolo e l'aria le si mostrano avari. Len­tamentecresciutafa tesoro di elettissimi succhi; di poco s'innalzama stende intornoe gonfia a dismisura le larghe foglie carnosesi fa ricca di umori vitalimentre tant'altri germi di più facile contentatura sotto il medesimo cielointristiscono. Ella ha un intentola nobilissima pianta; accu­mulaperprodigare; e infattidopo tant'anni di vita modestamente operosagermoglia ecresce dal suo grembo uno stelola cui cima rapida­mente sboccia e s'allargain grappolo di fiorionor dei desertiallegrezza del viandante che lo scorgeda lontanoeretto a guisa di faro amicosul faticoso sentiero. Lietafiorituratanto più splendidaquanto fu più sudata! Che importasenascendoella prosciuga ed uccide il cespo ma­terno?

Così la pianta umana; crescesi nutresi raf­forza perprodurre il fior dell'amore. Ed è belloè maraviglioso il portatoquandotutto alla pianta umana sorride. Grandezzaonorepossanzaumori vitali di cuila terra non è facile dispensiera per tuttiaiutano a rendere il fiore piùsplendidoa far più solenne l'amoroso mistero.

Ed era lieta Semiram. Militta Zarpanit l'aveva fatta feliceoltre i suoi medesimi voti. Bellissimo era tra tutti i viventigeneroso eprodeil desti­nato al cuor suo. Fervidonell'amiciziainsino alla folliache non sarebbe egli stato nell'amore?

Quiper altrotornava alla mente della regina l'ingratoricordo di Sandila cui misera fine era stata a lei rimproverata dall'ignarogarzone con temerarie parole. Ma non di lui si dolevabensì della malvagitàprofonda del volgo umanoinchi­nevole a credere il peggio dei grandiarigettar su loro ogni vizioa farli neri d'ogni delitto. Ed esser tuttaviainnocentenonchè della morte di Sandid'un solo pensierodi una parolad'uno sguardo per lui! Inveroella non aveva avuto al­tra colpa in facciaall'estintofuor quella di che tanti e tanti potevano accusarla ad un modod'es­ser bellapossentee desiderata da troppivuoi per dissennato amorgiovanilevuoi per propo­sito di sconfinata ambizione.

Difattiqual era stato il caso di Sandi? Tratto da desideriodi gloriail giovine cantore di Peznuni era venuto alle mura dì Babiluerastato accolto nella reggia ed aveva cantate le glorie della stirpe di Nemrud; mapiù ancora quelle della leggiadra figlia di Dercetovenuta d'Ascalonanelpaese di Martufino alla terra di Sennaarper assidersimoglie di Ninosullosplendido trono di Nemrod. Ben s'era ella avveduta come il giovine Armeno avesseardito innalzare fino a lei il cupido sguardo e l'ambizioso desiderio; ma ciòin quella guisa che non giungeva nuovonon doveva parere al­trimenti stranoalla donna; peròcon quel giusto riserbo che le inspirava il suo stato didonna e di reginaaveva mostrato nei diportamenti suoi non addarsi di nulla.

Che pensasse egli di ciòche sperasse dai suoi innifiammantiignorava Semiramide. Nè altro le fu dato saperne di poiimperocchèuscito egli una sera dal suo cospettonon ricomparve più mai. Lavoce si sparse della sua morte improvvisa; alcuni pescatori del quartiere diSuanna avevano trovato il cadavere impigliato tra i giunchiin una insenaturadell'Eufrate; ciò erale stato riferito più tardie non è a dire con quantorammarico per l'animo suo compassionevole. Qual era la cagione della miserandacatastrofe? Aveasi a vedere nel fatto una vendetta di donna offesao d'uomofieramente geloso? Malagevole scoprire l'arcano; ed ella non volle pureindagarlogiu­stamente temendo non paresse altrui che ella troppo si curassedell'amoroso cantore. Ed eccociò che ella aveva fatto per onesto riguardovolgevasi biecamente contro di lei! Inaudita perfidia! Ma il re d'Armeniaamatoda lei coll'impeto di un cuore che per la prima volta e liberamente si concedenon era egli persuaso oramai della sua innocenza? Non aveva ella giuratopeisommi Deiper la maestà del suo regnoper la testa dell'adolescente suofigliocioè a dire per quanto una donna ha di più sacro al mondoe menovo­lentieri in simili casi ricorda? E dopo un tal giu­ramentonon doveva eglicredere alle parole del­l'amata? Non aveva egli anzi mostrato di credere?

E tuttaviaquel ricordoin quell'orale tornava molestouggiosocome un presentimento di sventura. Lo cacciò lungi da sè; volsel'animo a più liete immagini; si fece in cuor suo a noverare i passi di Arache certo era in cammino per giun­gere a lei. Capriccio infantileche beneintenderà chi ha un giorno atteso l'arrivo di persona amata; non altri.

In quel mentreHurki (il guardianonella lingua degliAccad) comparve sulla soglia. Egli aveva la cera sconvoltaappariva turbato eperplessocome chi sa di recare un ingrato messaggio. Quella era di fatti laprima volta che Hurki si presentava alla reginasenza poterle dire: "iltuo comando è eseguito."

Vide Semiramide il mutato sembiantee n'ebbe una strettadolorosa al cuore.

- Orbeneche c'è? - dimandò ella impaziente. - Il red'Armenia?...

- Vivi in perpetuoo regina! - disse Hurkiprostrandosi aterra. - Il re d'Armenia non era nelle sue stanze.

- Ah! uscito forse a diporto fuor della reg­gia.... -ripigliò Semiramidecon accento sospeso tra la dimanda e la spiegazione.

- Gli eunuchi che vegliavano nell'anticamera non lo hannoveduto uscire; - rispose Hurkiin atto di rispettoso diniego.

- Che narri tu ora? - domandò la regina.- E come non sarebbeegli più nelle sue stanze?

- Così èmia clemente signorasebbene io non giunga adintenderlo; gli eunuchi giurano....

- Vengano essi! - interruppe la reginache già più nonsapeva contenersi.

Hurki si ritiròinchinandosimentr'ellabalzata daltronomisurava a passi concitati il pavimento intarsiato della sua camera.

Poco stantei quattro eunuchiche erano rima­sti a guardiadell'appartamento dell'ospite nelle due vigilie della nottee gli altri due cheavevano dato ad essi la muta nelle prime ore del mattinocomparvero al cospettodi Semiramide e si butta­rono tremanti a' suoi piedi.

- Il re d'Armenia? - chiese ella con voce asciutta e piglioimperioso.

- Possente reginavivi in perpetuo! Abbiamo vigilato tuttala nottenelle ore a ciascheduno assegnate; nè alcuno di noi vide uscire dallesue stanze il regale tuo ospite. Per tutto il mattino l'ingresso restò chiusodel parinè ardimmo en­trare non chiesti. Al cenno di Hurki ci siamoinoltrati poc'anzi: ma il re d'Armenia non era nel suo appartamentoe invano loabbiamo cercato dovunque. Come ha egli potuto uscire non vistose la porta èchiusa e le pareti intiere? Per fermoo egli è esperto d'incantagionioNisroc lo ha tratto a volo dal tetto sulle poderose sue ali.

- Ben piuttosto con le sue lo spirito negro del sonno vi hachiuse le palpebreservitori infedeli! E l'ospite nostrouscendo dalle suestanzevi avrà veduti giacenti a guisa di ebbri sul terreno.

- Possente signora....

- Non una parola di più! Hurkisian posti sotto buonacustodia i poco vigilanti tuoi uomini. S'indaghi il veroe se eglino hannomentitosiano gittati nella fossa dei leoni. Così voglio; an­date! -

Esterrefattitremanti a verghesi alzarono i ta­pini euscirono in silenzio dal cospetto della regina.

Ella stette alquanto sopra di sèmettendo lampi dagliocchi. Uscito! uscitosenza attendere un cenno di lei! Imperocchègià nonera da aggiu­star fede alla favola degli eunuchi; nè il re d'Ar­menia avevapotuto sparire dalle sue stanze per virtù di magiche parole. Uscito! e perchècosì dimenticando l'invito della donna amata? Amata! Ma poteva ella credersitale tuttavia? L'uomo che doveva rimanereansiosoimpazientema fermoadattendere la dolce chiamataera uscitoin quella vecesparito ad un trattoforse da più oresenza curarsi di leinè di ciò che la sua as­senzaavrebbe dato argomento a pensare. Che dire de'suoi diportamenti? Pazzo eraodingrato?

E le ore scorrevanoe nessuna nuova si aveva di lui.

Come leonessa ferita si raccoglie a lambire le sue piaghe nelpiù profondo della macchiaove forse morràe tratto tratto con lunghiruggiti ac­cusa l'acerbità dello straziominacciando aspre vendette a chiardisse incauto avvicinarsi al suo covocosì la regina si chiuse nelle suestanzeper divorare non vista il suo dolore e la vergo­gna dell'oltraggiopatito. Lo scoppio dell'ira non doveva farsi aspettare più molto.

Un'ora dopoNinia chiedeva di vedere sua ma­dre. Il regioadolescente soleva presentarsi al co­spetto di lei ogni giorno; ma soventivolte le cure del regno la distoglievano dal grato uffizio di trattenersi inaffettuosi colloquii col suo diletto fi­gliuolo. Egliper altroil giornoantecedentenon si era mostrato alla reggianè forse sarebbe an­dato cosìpresto quel dìse il savio maestro Zerdustevedutolo di ritorno dai palmetidi Gomere udito di ciò che gli era accaduto per vianon gli avesse comandatodi farlo.

Semiramide si ricompose all'aspetto del figlioe lo accolsecon amorosa dolcezza.

- Che hai tumadre mia? - gli chiese eglinotando lo sforzoche ella faceva per mostrarglisi lieta.

- Nullamio Ninia; - gli rispose la povera donnaprendendogli affettuosamente la mano.

- Oh. no; tu soffri! - disse a lei di rimando l'adolescente.- Il tuo volto reca le tracce d'una cura profonda; le tue mani ardono come perfebbre....

- Non ti dar pensiero di ciò; - interruppe la reginaritraendo istintivamente le mani accusatrici; - io non ho nullasai? non honulla. Le cure dell'impero sono moltee la corona non è sempre lieve peso allafronte. Tu regnerai un giornomio diletto figliuoloed allora.... Ma dimmipiuttosto; donde vieni tuancora cosparso di polvere?

- Ahmi perdoni la possente regina! - gridò Niniaarrossendo. - Son sceso or ora d'arcionee impaziente di vedere mia madre....Sai? - sog­giunse egli interrompendosi. - Ieri non ti avevo abbracciata....

- E fu male; - ripigliò Semiramidebacian­dolo in fronte.- Troppo ti stai lontano dalla reggiao mio Ninia. Ieriad esempiofu giornosolennee tu non eri al mio fiancoper ricevere l'ospite tributario d'Armavir.

- Ah sìl'ho veduto stamane! - disse il gio­vinettoconaccento d'amarezza.

- E dove? - gridò la regina.

- Poco più oltre il villaggio di Lahiru; - rispose egliallorasenza por mente alla subita com­mozione che dipingeva di pallore ilvolto di sua madre. - La cavalcata volava via come il vento. Generosi corsieriha l'Armenia; ma superbi sono oltremodo i suoi re.

- Come? Perchè parli tu in tal guisa?

- Sì; - continuò l'adolescente; - egli è pas­sato davantia mee non si è pur degnato di vol­germi lo sguardosebbene le grida delpopolo do­vessero avergli fatto udire il mio nome. A che tanto orgoglio in unprincipe tributario? Non sono io il figlio di Nino? Ma che hai tumadre mia? -

La domanda affettuosa di Ninia non era fuori di luogo.DifattiSemiramide si sentiva venir meno. Le forze che ella avevasollecitamento rac­colte per resistere al colpo improvvisosi erano consumatein quel momento supremoed ella ri­cadeva perduta sul tronoin preda ad unacom­mozione indicibile.

Così era egli partito? L'offesa non poteva esser più grave.Nel cuor della nottementre gli eunu­chi nell'anticamera cedevano al sonnoegli era uscito dalle sue stanzefuggito dalla reggiacorso ai baluardi diNivitti Bel per raunar la sua gente e allontanarsi da Babilonainnanzi le primeluci del giorno. E come e quando aveva egli potuto me­ditar quella fuga? Certolaggiùnella sala del con­vitodavanti a leimentre ella figgeva gli occhiamorosi nei suoiper leggervistoltale promesse e i rapimenti d'un affettoprofondoimmutabile.

E come sapeva egli infingersi! - "A domani! gli avevaella detto nel prendere commiato da lui. Debbo conferire di gravi cose conte." - Ed egli aveva ricambiato il dolcissimo invito con un so­spiro chepareva sprigionarsi dal cuoree dirle tutto ciò che le sue labbra non potevanoin quel punto. - "Ed è la regina che mi parlerà do­mani?" avevachiesto. - "E te ne duole?" - "Oh nosoggiungeva egli tosto; male parole di Atossa tornano più soavi al mio cuore." - Così dicendol'aveva come involta in uno sguardo d'amore infinito. E mentiva! Mentivano glisguardimentivano le parolementivano i sospiri!

Ma in chi ed in che cosacreder più oltre nel mondo? Èegli dunque vero esser di tali uomini sulla terrache dotati d'un fascino paria quello del serpentetirano i cuori inesperti a metter fede in esso loronesuggono avidamente il meglio e li gittano avvizziti lungi da sè? Si mostrano evincono; la resistenza è impossibile; che anziè un desideriouna voluttàuna beatitudine il ce­dere. Onnipotenza del male! E i sommi Dei la consentono?

Ellainveronon si sentiva colpevole di arren­devolezzasoverchia. In così solenne occasione s'era egli offerto ai suoi occhi! Iltempioil mo­mento della preghiera a Milittala sovrumana bellezza di luiilsuo medesimo invaghirsi d'una donna velatache potè farle credere esaudito ilsuo votoil regio sanguela generosa foga dell'animoche pareva candido comela neve dei suoi monti natalila soavità dei modii sacri giu­ramentituttoaveva contribuito a soggiogarla. Quale altra donnacui fosse vuoto il cuore ede­sideroso d'affettonon avrebbe ceduto del pari? Ed ella erasi data in baliadi quell'uomoellaSemiramidela fortissima donnache in ogni altraoccasione aveva saputo comandare a sè mede­simatanto era avvezza all'impero!

E datasi appenavedersi tradita! Che più? Of­fesa nellaprofondità del suo nobile affettooffesa nel suo pudore di donnaoffesa nellasua maestà di reginanel cospetto della sua corteagli occhi del suo medesimofiglio! Di suo figlio anzituttocheinconsapevoleveniva a recarle il colpofa­tale! Ahipovera donnada quanta altezza le era forza cadere!

- Nullanulla! - aveva ella risposto a Ninianell'atto diaggrapparsi con le mani tremanti ai leoni alati che servivano di sostegno aifianchi del trono. - Non è che un lieve malore!... Pas­serà; non temere!..

- Chiamo le tue ancelle? - proseguì il giovinettocon curaansiosa.

Ma già Semiramide erasi riavuta e balzava in piedi scuotendoalteramente il capo.

- Nofigliuol mio. Per che fare le ancelle? venga Hurkiechiami egli i ministri dei miei voleri a consiglio. Vae statti di buon animoo figlio di Nino- proseguì ellabaciandolo in fronte; - l'Armenia pagherà acaro prezzo la tracotanza degli stolti suoi re. -

 

 

CAPITOLO XIII.

 

DAL CAMPO DI ASSUR.

 

Era già presso gli Armeni il ventesimo quinto giorno diAdukannache i Babilonesi dicono Munao mese della manoperocchè in esso sidà opera a raccogliere i frutti ond'è liberale la terra.

Oltre un mese era dunque trascorso dagli ultimi eventinarratie nelle ubertose convalli dell'Ararat gli abitatori dei campiattendevano a mieter le spighepur dianzi maturate ai cocenti raggi del sole. Etuttavia non erano lieticome in simiglianti occasioni suol essere il colonoche vede centuplicato il frutto delle sue industri fatiche La gaia canzone deimietitori non risuonava pei collinelle ore del riposo tra gli affastellaticovoni; le fronti apparivano pensosele braccia sollecite più dell'usato allavoro. Così il villanoche sente nell'aria grave la minaccia del nembovicinoraduna il frumento battuto sull'aia e lo ripone in fretta ne' capacigranai.

Oraqual nube era apparsa sull'orizzonteche da Tarbazu aNahiri e da Muhuzri a Miliddaper quanto è vasta l'Armenia da settentrione amezzogiorno e da oriente a occidentefaceva così gravi i sembianti? E ches'aveva egli a pensare di quelle file di mandriani che lunghesso i campestrisentieri guidavano a torme i cavalli verso le sponde di Van? E que' fabbriintenti nelle officine a foggiar lame di spade e punte di frecce perchè tantoaffrettavano essi i colpi dei pesanti martelli sul càlibe infuocato?

Una voce era corsasommessa e dubitosa da primaindi a manoa mano più ricisa e più chiaravoce di guerra possibiledi guerra imminentecoi popoli della pianura. Gli Accad si preparavano in silenzio alle offeselevavano gente dalle più lon­tane contradeingrossavano verso settentrionetra Sippara e Gutiumrimontando l'Eufrate. Dove potevano essi volgere tantapiena d'armatise non contro l'Armenia?

Inoltrenon erasi vedutosugli ultimi giorni del mesetrascorsoritornare a' suoi monti il giovane reil dilettissimo Aragrave esevero come chi porti un triste presagio nell'animo? E non avea bisbigliato unavoce che egli fosse scampato a faticaanzichè liberamente partitodalle murainospitali di Babilu?

Che era egli avvenuto al pronipote d'Aìcoal più gentiledei re? Nulla di certo erasi risaputo all'intorno. Giunto appena in Armavirilprincipe si era chiuso nel silenzio della sua reggia; nè alcuno dei suoisudditicoi quali erauso mo­strarsi affabile tanto e corteseaveva potutoper giorni parecchi godere della sua vista.

Da Baredper altrosi era avutosebben lieveun barlume.Ai grandi del reame e ai governatori delle cittàcongregati in Armaviregliaveva par­lato a un dipresso così: - Troppo grave tributo chiede Babiloniaagli Armenivolendo rapire ad essi il più amato tra i re. Già uno dei nostriSandiil cantorecaro al popolocaro al monarcafu vittima dei feroci amoridi Semiramide. Ara il belloil prode tra i prodiavrebbe corsa la me­desimasorte. -

Così narrandoBared aveva chiesto ai congre­gati ilsilenzio. Ed essi l'avevano pure serbatoma non tanto che non ne trapelassealcun chesubi­tamente raccolto dagli avidi orecchi del volgosformato dalcorrere di labbro in labbroe più facilmente credutoquando si buccinò diapparecchi guerreschi in Babiloniao parve di scorgere in Armenia che igovernatori delle città intendes­sero a provvedimenti di efficace difesa.

Il presentimento di gravissimi casi era dunque negli animi. Epareva cosa naturale ad ognuno. I venerandi Sosdedicati al sacro ministeronelle foreste dei platani d'Aramaniagpresso il lago di Vannon avevano essiprofetatoal tremolar delle foglie vocaliche Babilonia avrebbe arrecatosven­tura al giovane re? Ed ecco si adempievano i tristi presagi; la guerra nonera indetta tra i due popolima frattanto s'indovinavasi sentiva im­minentecome nell'afa estiva si sentono i segni precursori della tempesta.

E frattantoche dicevache lasciava intendere il re?Taciturno era giunto nella sua diletta Armavir; taciturno era rimasto nellareggiacupograve d'inesplorati pensieri. Senonchèal­cuni giorni dopoegli era uscito dalla cittàin volta per le provinciee al campo di Aiotzorlo avevano veduto star lungamente immobilecon le braccia conserte sul pettoegli occhi fisi sulla collina di Kerezinanc. Orasul campo di Aiotzoril suogrande progenitore aveva sconfitto l'eser­cito di Nemrode sopra il poggio diKerezmanc era caduto il gigantetrafitto dalla infallibil freccia di Aìco. Eda quella sosta pensosadi cui nessuno aveva ardito chiedere al re la cagionetutti ave­vano cavato il pronostico delle sovrastanti scia­gure.

Oltre di cheil sembiante di Ara vedevasi pro­fondamentemutato. Certosu quel nobile capo era stata gittata una malìa. Popolo dimaghiil babilonese! Laggiùcomuni i sortilegi e gl'incantie gli occhilelabbrai voltile maniesercitavano un influsso malefico.

E in questa occasione si erano infiammati nel popolo l'amoree la devozione pel rein quella guisa che una leggiadra donna torna più caraai riguardantise nube di tristezza le faccia velo alla fronte. Ara il bellocosì malinconico e gravedestava maggiormente l'affetto dei cuori. Econ­fusamente indovinando le cagioni della sua tri­stezzasi malediceva aSemiram; in ciò prime le donneche ognun sa più esperte e più pronte degliuomini a scorgere la mano del loro sesso nei nostri mal celati rammarichi. Unamore infe­lice diffonde una cert'aria sul nostro voltoche elleno sole sannointender che siapoichè elleno sole hanno virtù di chiamarla coi loro rigoridi scongiurarla coi loro sorrisi. Egli è forse per ciò che l'uomo feritod'amorecioè a dire amatoo reso infelice da unatrova altre in maggiornu­meroconsolatrici volenteroseo rivali.

Così uomini e donne sentivano pietà della me­stizia diAra; lo amavano sventuratopiù assai che non lo amassero felice da prima. E intutti un tacito foggiarsi sul suo grande contegno; un prepararsi istintivo aglieventi; un ansioso inter­rogar gli echi e odorar l'aria infida della pianura.

Si era adunque sul finire del mese di Adukannaed Ara vivevapensieroso nelle più solitarie stanze del suo palazzodonde si scorgevano leonde tranquille del lago di Vanallorquando un drap­pello di Babilonesi giunsealle porte di Armavir e il suo capitano chiese d'essere introdotto alla presenzadel re.

- Venga! - disse Araa cui l'annunzio repen­tinoquantunque da più giorni attesoaveva cagio­nato un turbamento indicibileche non era già figlio di paurasibbene di ripugnanzaper un messaggio diquella donna così profondamente odiata e diletta.

Inveroegli amava quella donna pur sempre. Creda ciòimpossibile chi nulla sa dei fieri con­trasti d'un affetto gagliardo e dellearcane con­traddizioni del cuore. Ei l'amavaesecrandola. Impunemente nons'era egli accostato ai sacri mi­steri di Militta Zarpanit; impunemente nonaveva detto a quella bellissima tra le donne: "io t'adoro; la dea haassunte le tue formeper farmi il più lieto o il più triste degli uomini;qualunque cosa avvengasarò tuosempre tuo!" Bene erasi egli allontanatodalla odiata reginama fieramente amando la donna; era fuggitoma recando lostrale confitto nella ferita. E voleva disprezzarlae non poteva; tantoolocausto non gli era dato di fare all'ombra amata di Sandi. L'amore èpos­sente come vin generosoe più ancora che in altrinel petto dei forti.Gli Ellenitrovatori felici di profonde allegoriedovevano adombrarlo nellaveste di Nessoche s'apprende alle carni del se­midio e si consumanell'apprestato rogo con lui.

Il re d'Armenia si circondòper ricevere il messaggierobabilonesedi tutti i grandi della sua corteguerrieri la più parte ecantori; quelli av­vezzi a combatterequesti a celebrare le gesta dei prodi.

- Venga il Babilonese! - dicevano essi. - Reca egli messaggiodi guerra?

- Forse; - rispose gravemente il re.

- E tuche gli risponderainobile figlio di Aràmo?

- Quello che voi risponderesteo miei fedeli; pace a chiviene con amiche parole: guerra a chi cova sinistri disegni.

- Guerra adunque vuol essere! L'orgogliosa signora diBabilonia non può mandare cortesi messaggi agli Armeni.

- Ella ha costrette a tributo le aquile della montagna! -dicevano i guerrieri. - Ha tentato di umiliarenei pronipoti loroi domatoridella superbia di Nemrod. Ella invidia le recenti palme ai vincitori di Masciagai generosi custodi della pianuracontro le irruzioni dei predatori Turrani!

- Ella odia la gente nostra; - soggiungevano i cantori; -ella ha ucciso Sandiil soave gar­zoneil signore dei carmiamico e fratellodel re.

In quella che così parlavano essicercando d'indovinare ilmessaggio imminentecomparve il babilonese nella sala del trono. Indossava ilcanditunica rossafrangiata d'oro sui lembiche gli scendeva ben oltre ilginocchioe sovr'essa il sàrapocamiciotto di lana biancadalle cortema­nichele quali lasciavano scorgere le braccia ignude e i polsi cintid'armille d'oro. Le gambe apparivano chiuse ne' saraballio schinieri di cuoiofin sulla noce del piededovesul fondo rosso della calza di lanasalivano icorreggiuoli incrociati dei sandalile cui suola si rafferma­vano alla piantala mercè d'un anello rigirato sul pollice. Costui era per fermo uno deiprimarii uffiziali di Babiloniae ben lo dimostravano il balteo lucentelaguaina leggiadramente lavorata e la tiara biancodoratai cui lembichiusi asog­goloscendevano a coprirgli le guance ed il mento.

Due guerrieriarmati di tutto puntoseguivanol'ambasciatore. Uno di essi recava tra le mani una spada senza guaina; l'altroun giavellotto dalla punta aguzza e lucente.

Arapoichè il messaggiero gli fu venuto da­vantiravvisòtosto in lui quel medesimo uffìziale che con larga mano di cavalieri babilonesigli era uscito incontroper servirgli di scorta alle mura della capitale diNemrod. Che voleva dir ciò? Era egli casoo meditata ironia?

Seduto sopra il suo tronoche era tutto co­perto di negrepelli foderate di porporavestito a bruno egli stessosenz'auro segno di regiofasto che la sua benda di perle intorno alle tempiograve nell'aspetto come siconveniva all'attesa d'un grave personaggiostette Ara guardando l'inviato diSemiramide.

Il babilonese s'inchinò profondamenteracco­gliendo lebraccia sul pettoindi così prese a parlare:

- Re degli Armenivivi in perpetuo!

- Grazie a temessaggero! - rispose Aracon piglio cortese.- Chi ti manda alla reggia dei figli d'Aìco?

- La gran Semiramidecui Nebo proteggea cui Belo haconcessa la vittoria della spada e l'im­pero dello scettro sui potenti dellaterra.

- Che gli Dei le concedano lunghi giorni di vita. E chechiede essa da noi?

- Ragione della tua fuga; - rispose lo inviato. - Scesoin Babilonia a portarle tributoaccolto nella sua reggia con animo e pompaveramente ospitaliperchè sei tu uscito dalla città e dal reamecelatamentea guisa di ladronee senza pur ren­der grazie alla regina delle onesteaccoglienze?

- Altero parli- disse a lui di rimando il retrattenendosia stento- più assai che a me non si convenga di udire.

- Così m'è stato ingiunto- notò il babiloneseinchinandosi. - Pel mio labbro ti parla Semiramidenon iooscuro soldato chela possente regina degli Accad ha scelto ad interpetre de' suoi alti comandi.

- Sta bene; - soggiunse Ara concentrato. - E a donna nonrisponderò io come la giusta ira consiglia. Nè tutto dirò io ciò che penso;bada benenon tutto! Ciò dunque rispondi alla signora degli Accad: il red'Armenia non esser fuggito dalla sua presenzabensì liberamente partitocomeprincipe che aveva compiuto il debito suo. Più non aggiungo; nè mi dorrà chesembri scor­tese atto a' suoi popoliciò ch'ella intenderàse ben guardaessere stato umano consiglio nel suo ospite d'un giorno. Orache altro mi diceella per le tue labbra?

- Tu hai niegato il saluto al figlio di leinel qualet'abbattesti per viafuor delle case di Lahiru; hai usato villania al principeNiniaall'erede del trono di Nemrodal futuro signore di tutte le gentidimenticando che la montagnacome la pianuraè soggetta all'impero degliAccad.

- Ahnon sarà! - interruppe Aradando un sobbalzoaquelle parole dell'inviato. - Regnino costoro su monti e pianidonde sorge edove tramonta il sole; a me non si spetta di conten­derlo. Ben so che i gioghidell'Ararat sono e du­reranno vergini di loro conquistafino a tanto cingeràspada il figlio di Aràmo.

- Tu dunque nieghi ai re di Babilonia il tri­buto? -chiese il messaggero. - E non lo avevi tu recato pur dianzi?

- Libero presente fu quelloe pegno di ami­ciziatributonon già! - rispose Ara sollecito.- Rammenti tu le mie parolealle porte diBabilù? "Nemici da prima e più e più volte alle presefurono i padrinostri coi re della vasta pianura; amici noise tali ci accolgono: vassalli nonmai!"

- Non farò contesa di vane parole con te: - dissefreddamente il messaggero. - Sia pure li­bero presentee pegno d'amiciziacome giova al­l'orgoglio aicano di chiamarlo; ma proseguirai tu a darlo infuturo?

- Il futuro è in grembo di Zervane Acherene! - rispose ilrecon accento di mal frenata im­pazienza. - Chi può dire oggi ciò chedomani avverrà?

- Esso non è dunque nella tua mente? - in­calzò ilbabilonese. - Non nella fede giurata?

- Giurata! Quando? e da chi? - proruppe il recon vocetonante. - Bada a temessaggero; la menzogna è sul tuo labbroe chi t'hadetto avere gli Aicani giurato un patto di servitùha mentito al cospetto deicieli. Mapoichè egli bi­sogna dir tutto- proseguì Aratornandoseb­bene a faticain sè stessoe piegando la voce ad accento di sottileironia- dimmi ancora: se io pure ti rispondessi che l'Armenia seguiterà apa­garecome voi lo chiamateun tributobaste­rebbe ciò alla regina degliAccad?

- Nodifatti.... - rispose quell'altro- non basterebbe.

- Ah- esclamò Ara sorridendo amaramente. - E che altro sivuole?

- Che tu abbia a tornarescortato da noi....

- In Babilonia?

- No; al campo della reginache è di presente in Assurnelpaese di Nahiri. Colàal cospetto di tutti i popoli che seguono in armi lapossente reginatu giurerai fedeltà al trono degli Accade quinditu e isuccessori tuoisarete prosciolti da ogni tributo. Semiramide è generosanonavida di ricchezze pel tesoro di Babilu. Spesso ella dona in un giornociò chedieci provincie potrebbero darle in un anno. Tu vedio reda ciò che ellachiedecome non la muova cupidigia o mal animo contro le genti d'Armenia.

- Grande è Semiramide! - notò con piglio sar­castico ilre. - Se ella mi avesse chiesto cosa che tornasse a danno del mio popoloavreireci­samente negato. Ella chiede in quella vece la mia umiliazione. E a ciòforse potrò io inchinarmi; - aggiunsedopo essere stato alquanto sopra di sè.- Ma che ne pensano coloro che m'hanno ri­conosciuto pel loro signore? coloroche da me s'aspettano diportamenti degni del nome aicano? A voigrandi delreamee governatori delle cittàil solenne giudizio! Rispondete liberamenteal messaggeroe come l'utile del popol nostro con­siglia. Debbo io andarne alcampo di Assur?

- Pronipote di Aìco- disse gravemente Vasdagprincipe diTarbazuche è sulle rive dell'Eusino- tu non puoi giungere a mezzogiornopiù oltre del campo di Aiotzor e della valle memorata di Kerezmane.

- Colà- aggiunse un altroe tutti i presenti assentirono- dee piantarsi il tuo stendardo di guerra.

- Tu li odi? - chiese Ara al messaggero ba­bilonese.

- Ho udito; - rispose queglicon atto di com­miato. -Semiramide prevedeva una simigliante rispostae dal campo di Assur vi annunziai suoi alti disegni. Ella stessa verrà ben più oltre di Kerezrnanc; verrà inArmavir e in quante città no­vera il reame dei figli d'Aìco.

- Come ospite? - chiese nobilmente Araal­zandosi in piedipoichè la conferenza accennava al suo termine.

- Come vincitrice! - disse quell'altrocon ac­cento diminaccia.

E trattosi indietrotolse dalle mani dei due guerrieri ilgiavellotto e la spadache gittò po­scia solennemente ai piedi del trono.

- Conservate questi segni di guerra; - soggiunse ilmessaggero babilonese. - Semiramide verrà col suo esercito a raccoglierli nelsangue vostro; e li consacrerà alla memoria di Bel Nemrodsu quella rocca dicui veggo sorgere i fian­chi dirupati dalle acque del lago.

- Se non li riporteremo noi prima al campo di Assur! - disseValdagalzando la spada e il giavellotto da terra.

- O in Babilonia! - aggiunse un altrotra le grida deiconsenzienti compagni.

- Tacete! - gridò il re. - Non s'addice ai prodi esserevantatori. Vamessaggeroal campo di Assure reca alla tua grande signora chei figli d'Aìcofidenti nell'armi loro e nella giustizia dei Numiattenderannodi piè fermo l'assalto. -

 

 

CAPITOLO XIV.

 

IL PELLEGRINO.

 

Era alta la nottee migliaia di fuochiconten­dendo losplendore agli astri del firmamento az­zurrobrillavano sulle colline diAiotzorultimi contrafforti dei monti d'Armenia. Colàpresso le sorgentidell'Eufratevigilava l'esercito d'Araa custodiadelle sue terre natali.Colàdiffattiera a temersi l'assalto: per quelle strette erano sem­prevenutirisalendo il corso d'un gran fiumei nemici della indipendenzad'Armenia; su quelle rupi s'erano sempre inerpicati i guerrieri della pianuraamolestare il nido dell'aquile aicane.

Il grande altipiano che si innalza ad un tratto dallacontrada di Nahiri e da maestro vien digra­dando con dolce declivio fino allepianure che lo separano dalle catene del Caucasoecco l'Arme­niadetta negliantichissimi tempi Aiasdano vero sia il paese di Aìco. Imperocchè questo fuil pro­genitore della nobilissima schiattae da lui do­veva essa aver nome edauspicii.

L'altipiano è intersecato da catene parallele di altemontagnee da più umili colli di dolce pen­dio. Le valli interchiuse sono inparte strette e solitarie vallicellein parte larghe e fertili pia­nurecomequellaad esempiocui bagna col suo rapido corso l'Arasse. Una cosiffattaconfigura­zione di terreno mal consentiva lo stabilimento di un forte governocentraleche signoreggiasse l'intiera contradae più s'acconciava alla liberavita di indipendenti tribùforti a guerreggiarsi tra lorodeboli al cospettodi un possente vicino che le assalisse alla spartita.

E i dominatori della pianura avevano sempre avuto una ragioneparticolare a tentar simili assaltiessendo che i corsi superiori dell'Eufratee del Tigri giacevano entro le montagne d'Armenia. Le qualiper controcorrendo da oriente a occidentepresentano il loro più rapido pendio dallaparte di mezzogiornocontrariamente alle catene dello Zagrole qualirivoltea levantedeclinano dolcemente verso la valle del Tigri. Donde avviene chementre lo Zagro invita gli abitanti della pianura a tentare i suoi alpestrirecessifacili da principioindi di mano in mano più orridi e malagevoliimonti dell'Armenia li respingonocon presentar subito le maggiori difficoltà ead un tempo il più squallido aspettoe coi fianchi roc­ciosi e le cime nevoseappaiono insuperabile osta­colo ad un esercito invasore. Per altroe appuntoperchè chiudevano nei fianchi loro le sorgenti dei due grandi fiumi delSennaari monti occidentali offerivano la via più accettevole agli assalitoridel piano.

Per colàdunqueavevano ad inoltrarsi le schiere degliAccad. A quelle strette accennava chiara­mente l'esser eglino venuti ad oste inAssurnella contrada di Nahiri. Già parecchi giorni eran corsi dallaintimazione di guerra; già si era al princi­pio del mese di Garmapadache iBabilonesi chia­mano Tanao mese del fuocoe l'esercito aicanogiàpreparato agli eventiera venuto a chiudere i passi dell'alto Eufratelunghesso i poggi e le gole di Aiotzor.

Centomila uomini avevano risposto alla chia­mata del re.Nessuno dei validi guerrieri era ri­masto negli ozii imbelli delle paretidomestiche. Le tribù tutte quante aveano mandato il fiore dei loro combattenti.La regale Armavir e la sacra PeznuniTarbazu marinara e Masciag educatrice dicavallile tre grandi provincie del paesecioè a dire la montuosa Urartilafluviale Adduri e la lacustre Mildiscon nobil gara aveano dato di piglioall'armi. E sugli ultimi lembi della catena dell'Amano e di quelladell'Arzanìache si racco­stano da occidente e da oriente intorno alle nonlontane sorgenti dell'Eufrate e del Tigrierano ve­nuti a metter campo iguerrieri. SukkiaLaiuknuCartarIzirtupiccole città più vicine allastretta dove occorrean le difeseerano dense d'armati. Sarda e Zikartuprovincie che guardano il mare del sole orienteavevano dato i più destriarcadori; dalle ampie valli dell'Arassegeneroso largitore di messierangiunti a torme i più baldi cava­lieri; i cittadini d'Armavirportatori digravi lo­riche e di mazze ferratei montanari di Urartivestiti dal capo allepiante di vellose pellie si­curi lanciatori di giavellottii valligianidell'Orontefiondatori valentierano accorsi ad ingros­sare le filetuttifrementi amor di patriaed ira gagliarda contro gli audaci invasori.

Saviamente distribuiti da Vasdagil principe di Tarbazuesperto condottierogià amico di Aràmo e suo compagno nell'armivigilavanoessi a di­fesa del confine. Il grosso dei cavalieri si racco­glieva nellecittà e borgatepronto ad accorrere dove più bisognasse; il nerbo dei fantisi adden­sava nelle gole e agli sbocchi delle vallate; nu­merosi drappellid'arcieri accampavano sui greppi e lungo le digradanti costiere; fanti e cavallivi­gilavano sui poggi avanzati e nelle forre; esplo­ratoriscelti tra i piùanimosi e sagacis'inoltra­vano per l'ombre notturnefino ai primi paesellidella sottostante pianura.

Di làsi è già dettobisognava ai nemici farsi stradaalle alture. Era stato quello il cammino seguito anticamente dalle schiere diNemrod; quello doveva essere altresì il cammino dell'armi di Semiramide. Permezzo a quei monti scorreva l'Eufrateancora povero d'acquema piùimpe­tuoso per controchiuso com'era in più modesti confini. Più giùamezzogiornoseguivano collinette e rialtibiancheggianti al mite chiaror dellalunatra i quali si andava svolgendo in lunga e tortuosa striscia luccicante ilgran fiumeper confondersi più oltre coi lembi estremi della pianurainvoltain una nebbia sottile e d'incerto colore. Quella ròccache si scorgeva lontanlontano sull'orizzonteera Assurforte castello edificato dai figli di Semgià padroni della terra di Sennaarindi cacciati a settentrione dai ferocicon­quistatori della progenie di Cus.

E laggiùin mezzo ai popoli signoreggiatila cui alterezzadoveva rifarsi più tardi degli oltraggi patitie da Ninive cresciuta inpossanza offuscare le cadenti fortune di Babilonialaggiù ingrossa­vano daparecchi giorni le schiere che gli ultimi Cussiti aveano raccolte da tutte lepiù lontane provincie del loro vastissimo impero; attende­vano laggiùnumerose come le arene del mareminacciando da presso i liberi monti d'Armenia.Non si scorgevano i fuochi delle innumeri schiere; ma non le sentivano menvicine per ciò gli arcadori di Zikartuche stavano a guardia deicon­trafforti dell'Amanosulla collina di Lukdi.

Oramentre essi stavano vigilandoultime scoltedell'esercito aicanoe specolando all'intorno la biancheggiante pianuradièloro negli occhi un uomo che uscito da una macchia d'arbustia lenti passiprocedeva per un sentieruolo alle falde del poggio. Veniva egli guardingocomechi sappia d'essere in luogo pieno d'agguati e tema di abbat­tersi in qualchedrappello d'esploratori; per altronon aveva seguitato a rasentare la macchiala cui ombra ancora per lungo tratto di strada avrebbe potuto nasconderlo.

Chi era egli? Troppo misurato negli atti. non era certo unguerriero dei loro; nè tanto guar­dingoda parere uno spione degli inimici.Avvi­cinandosi sempre più lo sconosciutovidero an­cora com'egli fosseinermee si giovasse di un lungo bastone ricurvoalla guisa dei pellegriniche correvano mendicando di paese in paeseper an­dare a sciogliere il voto aqualche tempio cele­brato e lontano. Diffattiegli indossava una tu­nicamodesta che scendeva poco oltre il ginoc­chio; e certo a chi l'avesse vedutopiù da vicinosarebbe apparsa lacera e rattoppata di brandelli d'ogni colore.L'arnese che gli biancheggiava sul capodoveva esser la fascia rigirata intornoalle tempieportata dai nomadi pastori del desertoa custodir la cervice daicocenti raggi del sole; quell'altro che gli faceva ingombro sugli òmerianziche un mantellodoveva esser una di quelle bisaccenelle quali i pellegrinisogliono portare lo scarso viatico accattato dalla umanità dei bor­ghigianiche loro hanno profferto l'ospizio.

Sìforse egli apparteneva a quella classe d'in­nocuiviandanti; ma non poteva esser egli un nemicochepiù audace degli altris'inoltrasse nel campo loroargomentandosi d'ingannarlicon la umiltà dellespoglie? Arte degli esploratori era questa; ma nel caso presente assai pocosagacedappoichè nei dintorni non era tempioo san­tuarioche potesseragionevolmente attirare i viandanti divoti. Tre giornate ancora egli avrebbedovuto far di camminoprima di giungere al tempio di Anaitiin Urfache erail più vicino di quei luoghi; ma neppur quellache il viandante seguivaerala stradabensì ad occidentee più verso i piani di Assurche non verso lealture di Lukdi.

Così pensandogli arcieri fecero quello che ogni prudentesoldato avrebbe fatto in tal caso. Due di loro si dilungarono dal manipolo e sicalarono per una insenatura del terreno da un lato; altri due fecero ilsomigliante dalla parte oppostae venendosi incontro sulle falde del poggiofurono addosso al viandante con le spade sguainate.

Gli atti dello sconosciutoall'improvviso ap­parir deisoldatimostrarono come non fosse mestieri di tanta minaccia. Dato un passoindietropiù assai per prudenza che non per repentino sgomentoegli alzòplacidamente il capo e disse agli arcieri:

- Sia sempre con voi la vittoria. Che volete da un poveropellegrino?

- Che chiedi tu piuttostoin quest'ora notturna- dissero alui di rimando gli arcieri- inol­trandoti in mezzo alle prime scòlte delcampo aicano? Chi sei?

- Ve l'ho detto; un pellegrino.

- Ah sì! - esclamarono gli altricon piglio sarcastico. - Edinne; a qual santuario erano volti i tuoi passi?

- A quel di Peznunise non vi spiace- ri­spose losconosciuto; - ma non senza aver fatto da prima una sosta alle tende di Aiotzor.-

Queste ultime parole soggiunse egli sorridendocon un fild'ironiache pareva una rivinta sui loro sarcasmi.

- E tu ardisci confessarlo! - gridarono allora gli arcieri. -Ma sai tu che cosa si spetti ai pel­legrini della tua sorte?

- Noin veritàio non lo so; - diss'egli con accentodi candore.

- Odilo dunque; si cavano loro gli occhi che hanno volutoveder tropposi mozzano loro i piedi che hanno tentato di farsi troppo oltreecon le mani legate dietro le spalle a guisa di vili malfattorisi lasciano suicampialla sferza del solein pascolo agl'insettiagli sciacalliagliuc­celli di rapina.

- Questa è giustizia per gli spioni- rispose losconosciutosenza punto mostrarsi turbato; - ma io non sono uno spioneenemmenoa dir veroun pellegrino dei soliti... quantunqueper giunger finquaio abbia dovuto mentirne le spoglie.

- La tua schiettezza si piglia giuoco di noi! - gridaronostizziti gli arcieri. - Ma il tuo caso è grave; non vieni tu dal campo diAssur?

- Per l'appunto.

- Sta benee noi ti condurremo in vista delle tende diAiotzordove egli ha da esser domani un mal giorno per te.

- Sìconducetemi pure laggiù; - ripigliò il pellegrino. -Non vi ho io detto che quella era la meta del mio viaggio? Ara il belloche isanti Numi proteggonosperderà i vostri negri pronostici.

- Bada! - notarono gli arcieriin quella chepostolo inmezzolo conducevano per l'erta. - Non vede il re chi vuole.

- E che? Non vive egli in mezzo a' suoi guer­rieri? Nonpartecipa egli ai disagi del campo?

- Sìcosì vive Ara il bello; ma gli stranieri non hanno avederlo che per mezzo allo sfol­gorar delle spade. E se tu hai messaggi pel recome di certo inventeraiper destreggiarti e cau­sare la croceesci diingannotu non giungerai fino al re. Le gravi cose che ti girano per lafan­tasiale dirai a più umile orecchioal capitano degli arcieri diZikartu.

- Ahnulla a lui; tutto al re! - disse lo sco­nosciutoconaccento tranquillo. - Ma via; troppo abbiam ragionato di ciò; vediamo ora ilvostro capitanoche certo sarà più umano di voi.-

La placida serenità del pellegrino cominciava ad impacciarei soldati. Essi perciò non rispo­sero verbo; e borbottandoquasi a scarico dico­scienzaconfuse minacce tra' dentisi avviarono con lui alla tenda delcapitano.

Il mite raggio di Sin gli illuminava in quel mezzo la frontee la persona vestita di umili lane. Per fermo egli era innanzi cogli annimanol facevano parere tant'oltre il portamento eretto e la carnagione olivignache conferiva alle fattezze sue regolari e robuste alcun che della lu­cidarigidezza del bronzo. Lunghima radii peli del mento; povero l'arco dellesoppracciglia; donde avevano più lume i grandi occhi neri di smaltodei qualiei si studiava dissimular la vi­vezzatenendoquanto più gli veniva fattosoc­chiuse le palpebre. Non era un pellegrino mendicolo aveva con­fessatoegli stesso pur dianzi; ma certo molte altre cose egli celava di sè.

Giunto alla tenda del capitanoespose in breve ciò che giàaveva detto agli arcieri; non esser egli ciò che il suo aspetto mostravamaneppure un esplora­tore nemico; gravi cose recavae non poteva dirlo che alrelo conducessero a questichese mentitorelo avrebbe mandato a mortesenz'altro. La sicurezza dei suoi modi e l'accennar che faceva ad alti segretipo­terono sull'animo del capitano più della naturale diffidenza. Laondecomandato che gli bendassero gli occhi lo fece montare a cavallo e con buonascorta de' suoi uomini su per la via del fiumecondurre all'accampa­mento delre.

Già sorgeva l'auroratingendo di ròsea luce le nevi eternedei montiallorquando l'infinito pellegrino giunse guidato da' suoi custodiinmezzo alle colline di Ajotzor. Era tutto intorno un gaio spettacolo di tended'ogni forma e coloredi cavalli condotti ad abbeverarsi nel fiumediguerrieri in motodi bagaglioni o di servi in­tenti alle cure del campodiscudieri che forbivano armaturedi trombettieri che davano allegramente nellelor trombe di rame.

La tenda del resormontata da un'asta al cui sommo sventolauna lunga e sottile striscia di porporaera sul poggio più eminente dellaconvalle La cavalcata mosse a quella voltae come fu giunta alla metasi calòd'arcione il pellegrino e gli fu tolta la benda dagli occhi.

Parecchi ufficiali del re stavano a crocchio davanti allatenda. Uno di costoroalla vista del nuovo venutoimpallidìtorse lo sguardoe si allontanò chetamente. Era egli Biredlo scudieroil fedel servo del re.

Il pellegrino non pose mente a cotestoabbagliato com'era datutto quel tramestio d'armi e d'armatie sovra pensiero per l'imminente suaintroduzione al co­spetto di Ara. Diffattia mala pena gli uomini dellascortaebbero detta agli ufficiali la cagione della loro venutauno di costoroentrò nella tendae tornò poco stanteannunziando al pellegrino che il reconsentiva a vederlo.

Ara il bello! ahi quanto mutato da quel di prima! Il doloreaveva sfiorata la morbida guancia; l'interno struggimento gli si leggeva nellafronte corrugata e nel torbido lume degli occhi.

Vide egli il pellegrino o n'ebbe un soprassalto al cuore.Tosto congedò Vasdagil savio principe di Tarbazuche era presso di luieaccostatosi al nuovo ve­nutocon voce sommessa ma con accento concitatoglidisse:

- Santo vegliardotu qui?

- Iosì; - rispose il pellegrino; - ed ho posta arepentaglio la vitaper giungere fino a terecarti una nuova e darti unconsiglio.

- Parla! - disse a lui di rimando il re.- Ciò che vienedallo tue labbra è tristema vero. E se gli è un altro dolore che tu mirechisii ringraziato del pari. -

Profferite queste parolecon accento malinconicoma conpiglio veramente regaleAraadditò al vecchio uno sgabello vicino al suoinvitandolo a riposarsi. Il vec­chio gli volse uno sguardo lungo od intensodonde trasparivano insieme affetto e tristezzafors'anche ri­morso; indiubbidientes'assise.

- Necessario è talvolta recar dolore altrui; - rispose egliposcia. - Non siamo noi sempre arbitri degli atti nostri e delle nostre parole;gli Iddii ci guidano il braccio e c'inspirano il labbroquando a sanarequandoa ferire. Fu voler loro che per noi ti apparisse la do­lorosa verità; iostessoumile strumento in mano dei santi Numifui primo a sentirne rammarico.Odimi ora; ciò che m'era dato di fare per utile tuola mia presenza tel dica.Lieta novella io ti porto. La superba donna che ha posto le sue tende in Assurpronta a rovesciare su te l'impeto delle sue fortissime schieresta per vederedomato il suo orgoglio feroce.

- Che dici tu mai?

- Ier l'altro- ripigliò gravemente il vecchio- ierl'altrosesto giorno del mese di Tanadetto da voi Garmapadala rivolta èscoppiata in Babilonia. Oggiforsetutto il paese di Sennaar ha già innalzatolo sten­dardo della ribellioneil trionfo delle nazioni soggetto è vicino.

- Ma come?- dimandò il re d'Armoniache quel­l'annunzioinaspettato riempiva di stupore.

- A Babilonia- rispose il vecchio- spiacque l'intimazioned'una guerrache tutti sapevano cagionata da un corruccio di donna; d'unaguerra che gli antichi esempi fanno temer disastrosa. La sconfitta o la morte diNemrod erano presenti all'animo di tutti; nè si dimenticava cheor fanno pochiannilo stesso Ninoil marito o re di costeisebbene covasse in cuor suo lavendetta e meditasse di sterminare fino all'ultimo ram­pollo la progenied'Aìcoavea dovuto divorar la sua rabbiadissimulare l'impotenza sua conamorevoli mes­saggi e liberali concessioni ad Aràmoal tuo gran ge­nitore.Conservi Aràmo la sua potenza tranquillodi­cevano i messaggi; abbia eglidiritto di portare la benda di perle e sia secondo dopo di noi. Cosìsebbenepotentissimotemeva Nino di cimentarsi all'impresa. Elui mortoardisce lavedova sua romper guerra agli Armeni? Nemica del suo popolo è costeinonmadreseper far vendetta sopra un amato garzonenon du­bitadi immolare lepiù nobili vite di una contradacui ellaal postuttoè straniera. Così ilpopolo di Ba­biloniapoichè ella fu uscita dalle porte; così ingros­saronol'irecosì crebbero facilmente a tempesta. In­degna del trono fu dichiaratacostei dai maggiori della città; indegna la gridarono i sacerdoti di Belodalsommo della gran torre di Barsipa. E lànel tem­pio del Dioplaudente ilpopolo ed auspice il pre­sidioNinia fu consacrato re su tutta la gente degliAccad.

- E in qual guisa t'è noto? - gridò Ara confuso.

- Come può l'annunzio aver fatto in così breve tempo dodicigiornate di cammino?

- Tutto è noto ai veggenti; - sentenziò il vecchio conaccento solenne; - e sei tu che lo ignori? Ma via; - soggiunse tostonotando ilrispettoso acquetarsi del re; - qui non è niente di sovrumano. Tutto era giàconcertato tra i grandiea mala pena la rivolta scoppiòun lungo ordine difuochi accesi di colle in colle ne ha mandalo il rapido annunzio fino alla roccadi Assur.

- Ingegno profondo! - esclamò Ara ammirato. - Ed ella ignoratuttavia?...

- Sìtutto ignora; - rispose il vecchio. - Fuochid'allegrezza le parveroo di sacrifizio offerto sulle alte vette ai celesti; ederano in quella vece gli annunzi della sua imminente rovina. Il triste eventonon le sarà noto che tra dodici giorni.... quanti bastano a rafforzare lenascenti fortune di Ninia. Per lui è il popolo delle quattro favelle; per lui isacerdoti degli astri deificatiche si adorano nella terra di Sennaar; per luii go­vernatori delle provincie.

- Madimentichi tu il possente esercito che ella ha raccoltoin Assur? - chiese il re crollando malinco­nicamente il capo.- I mieiesploratoritornati ieri da diversi punti dalla vasta pianurahanno potutonove­rare cinquanta miriadi d'armati.

- Forse; - soggiunse prontamente il vecchio; - ma di genteraccogliticcia o la più parte mal fida. Credi tu che s'abbia a fare grandeassegnamento su popoliieri nemicioggi domati coll'armi? Credi tuadesempioche i Medii nobili Medicombatteranno vo­lentieri per lei? Bakdigià tanto feliceBakdi con l'alta bandieracome i suoi sacri cantori la vancelebrandocentro e guida a tutti i figli dell'Iranmorde sdegnosa il frenodella servitù....

- Ma Zerdusteil suo principenon è egli ospite inBabilonia? Non è egli tra i grandi del reamemaestro e custode di Ninia? Laregina non lo pregia o nol ve­nerasiccome è famatra tutti i consiglieridel trono?

- Troppo lo venera; - notò sarcasticamente il vec­chio; - omeglio sarebbe stato per lei averlo ricam­biato d'amore.

- Ah! - gridò il rea cui quelle parole erano spinaacutissima. - Ed egli pureil principe di Bakdiamò la regina?

- La maliarda è divinamente bellae molti son ca­duti a'suoi piedi. Egliper altromen fortunato di tanti; nè ciò avrà giovato arendere i Medi più amanti del giogo.

- Intendo; - disse Ara.- Ed era Zerduste il sa­vio dal fioredi amomo?

- No- rispose quell'altrocon accento brevese non peravventura molto sicuro. - Bene è egli fau­tore della rivoltainsieme colvecchio Sumàtiche ti sta innanzinato sull'Indoalle cui rive la superbas'at­tentò di spingere il suo cavallo di guerra. Noi l'anima della congiuracontro un potere che minaccia d'invader la terrae di assoggettarne ogni liberopopolo; e tu ne sei il braccio gagliardoo re d'Armeniaa cui ella si sforzadi togliere il regno e l'onore.

- Ohmi toglierà la vita- interruppe Ara- e sarà ilmeglio per me.

- Notu dèi vivere e vincere. Oratu vinceraired'Armeniase avrai prudenza pari al valore.

- Ah sìrammento che insieme con un lieto an­nunzio tu mirechi un consiglio. Udiamo il consiglio- soggiunse Aracon voce impressa diprofonda me­stizia- e se potrà tornar utile alla gente aicànagra­zie ate dal profondo del cuore!

- Tu stesso giudicherai- disse Sumàti- se il consigliosia utilecom'io pensoal tuo popolo e a te. Esso ti è porto in nome dellalega giurata ai danni della stirpe di Nemrod; ma te lo reca altresì un uomochevedendoti prodegeneroso e fedele alla santa ami­ciziaha preso adamarti d'un amore paterno. Forse egli non opera sagacemente in cotesto. Isapienti che si travagliano per vie segrete al trionfo del veronon dovrebberosoffermarsi mai sul fatale camminonè dis­sipare la forza loro in pietosecure ed affetti vanisic­come è lecito alla comune degli uomini. Ma cosìav­venne di me; la mia tempra non è così forteda can­cellare nell'animo ipiù teneri sensi. E t'amo come un figlioti venero come il più nobiletiammiro come il più valoroso tra i re. Degli uffizi a ciascheduno asse­gnatiio mi elessi quello d'invigilar Semiramide. Era il più umile e il piùpericoloso; quello degli altri ha più fortuna e più gloria. E lo elessi perfarmi più vi­cino a tegeneroso Aicànoper dimostrarti l'affetto miopersalvar te in questa grande rovina. Mi crederai tu veritiero?

- Ti credo! - rispose Aramettendo le sue mani in quelle delvecchio.

- Accogli dunque ora il consiglio. L'esercito di Se­miramideè forte per numero. Dove lo attenderai tu?

- Quisulle colline di Ajotzordove il gran proge­nitoredella mia stirpe sgominò le forze di Nemrod.

- Troppo è vicino il luogo al passo di Lukdi. E non temichementre sarà impegnata la mischianuove schiere possano giungere in breveora dal piano?

- Vengano; alla spartita le affronteremo. Oltre a quarantamigliaia di nemici non possono liberamente muoversi in questa valle che noidifendiamo.

- Intendo; ma pensi tu ai danni d'una prima o grossabattaglia perduta?

- In pugno di Zervane è il destino.

- Sìma Zervane dà la vittoria ai prudenti. Montuosacontrada è l'Armeniae ad ogni piè sospinto t'è dato di avere una nuovaAjotzor. Non potrai tu tirar dentro il nemicocostringerlo a chiudersiafrastagliarsi in queste convallitemporeggiaremolestarlo dai greppipredarelo sue salmerieriunirlo insommae attenderlo posciastremato di forzedilà dal salso lago di Vanpresso la tua munita Armavir? E pensa che neppure tibisognerebbe giungere a quest'ultima prova; impe­rocchè tra pochi giorniSemiramide udrà l'annunzio della rivolta scoppiata in Babilonia e in pari tempole verranno meno le vettovaglie bisognevoli a sfamare un così numerosoesercito. Ella in paese nemicoe intorno a lei spopolatocol malcontento e lacosternazione tra' suoisi vedrà costretta a rifar la sua via. E tu allora apiombarle sopra improvvisoda qual parte ti piacciao far pace onorevole.

- Buono è il consiglio; - disse Aradopo alcuni istanti dipausa. - Ma pace io non speronè fuggire saprei. Il tuo disegno fu già nellamente di Vasdagil savio principe di Tarbazuche è il primo de' mieicon­siglieri; ma egli stesso ne ha abbandonato il pensiero.

- Egli non poteva sapere della rivolta di Babilo­nia; -entrò sollecito a dire Sumàti;- e questo evento....

- Sìintendo ciò che vuoi dirmi; - interruppe il re; - maquesto luogo è fatale. I sacri platani di Peznuni hanno dato il responso« Èin Ajotzor la tomba dei Babilonesi. »

- Ambigui troppogli oracoli! - notò brevemente Sumàti.

- Non credi tu che in essi parlino i Numi? - chiese Ara conaccento di sicurezza.

Sumàti chinò la frontepensoso.

- Io credo- rispose- che nella mente del savio sia ilpiù venerabil tempio e il più certo oracolo di Dio.

- Chi può dire: io sono il savio tra tutti? - ripi­gliòAracrollando mestamente il capo. - Comunque siagrazie a te dell'amorevoleconsiglio; ma vediora­mai la sorte è gittata. Non è egli forse già troppoaver condotto l'Armenia a questo cimento per me? Il me­glio è di finirla in ungiorno. Qui pugneremo da va­lorosi; qui morremoquando non sia possibile ilvin­cere. Vivo ella non m'avrà in sua balìa; m'intendi tu? - proseguì ilgiovine con accento di sicurezza pro­fonda. - Io l'ho giurato all'ombra amatadi Sandidel dolce amico di cui m'è viva qui la presenza in ogni cosa che iomiropiù ancora che non mi fosse chiaro l'aspetto in quella notte orribiledonde hanno principio i miei mali. Ben poco invero io darò in preda alla morte!Non m'ha già ella uccisospegnendo nel mio cuore la fede? O padre! la miavita è un tormentoun'atroce agonia dello spirito. Mi amihai detto?Or­benecosì m'avresti tu amato del parinelle tenebre paurose delsotterraneochè m'avresti usato misericor­dia laggiùdandomi d'un pugnalenel cuoreinnanzi ch'io varcassi la soglia di bronzo! -

Sumàti reclinò la testa sul petto e stette a lungo so­pradi sècorrugate le ciglia e gli sguardi atterrati. Quello che gli facea cosìgrave la fronte era un acerbo rimorso. Tutta egli avea misuratain quello sfogodell'ambascia di Arala profondità della ferita che egli aveva aiutato adaprire. Eglicuor di macignos'era intenerito alla vista di quel candidogarzonedi quell'animo incautocosì facileper l'indole sua generosa efidentea cader negl'inganni degli ambiziosi e dei tristi. Commosso da quellagrazia e da quella prodezza giovaniles'era adoperato a salvargli almeno lavitae di ciò appuntosenza saperlogli facevarimprovero quel misero cuorestraziato. Lo amavaoramai; si do­leva amaramente di averlo condotto a quelpuntovit­tima innocente di ambiziosi disegnistrumento incon­sapevole dialte vendette. Iddio ha seminato il rimorso nell'anima del malvagiocome ilfilo d'erba nel desertocome l'amore nella immensa miseria del mondo. Egli èforse per ciò che non siam tristio codardidel tutto. E tale era Sumàtichenella schiettezza del suo ram­maricoavrebbe voluto alzar quella fronteumiliata e parlare al re d'Armenia in tal guisa:

- Tutto ciò che hai uditotutto ciò che hai vedutoèmenzogna. Nulla è vero di Sandie tuinebbriato da magici filtrihai credutodi scorgere le sembianze dell'estinto in quel bugiardo aspetto che la nostraarte perversa ti ha mostro. Come sapessimo noi così minu­tamente del tuopassatot'è oscuro? Ma torna indietro coll'animoe rammentati. Non hai tutroppo fatto a fi­danza coi silenzi notturnilànel sacro bosco di Milittaallorquandocuruccioso di doverti presentare al temuto cospetto di Semiramidegiuravi fede e rapivi la pace del cuore ad Atossa? E ben altro sapemmobenaltro. Non metter tua fede intera negli uominio re! I sensi loroi desideriile ambizionii rancorioggi a te ligii o tacenti per tesi gioveranno dellatua fedesi arme­ranno del tuo segreto contro di tesolo che un astutomalveggente ti possa infiammare a tuo danno. Baredil tuo fedelissimo Baredfucolto ai lacci d'una tentatrice leggiadra; tutto egli disseciò che a noimettea conto sapereper colorirne la fantastica scena che t'è parsa sì vera;e il suo silenziola sua complicitàfu­rono compri dalla paura di avertroppo parlatoassicurati alla lega coll'oroo più assai con minaccie dimorte. Egli ha taciuto finoratemendo di avere assiduo al suo fianco ilpunitore; taceràpiù pauroso ancorapoi che avrà veduto me nel tuo campo.Io solodei tre congiuratimi mostrai a viso scoperto; io soloil men nototi condussi al tuo alloggiamento fuori il ba­luardo di Nivitti Bel. Tu seivittimao redell'odio di Zerdustedel più possente tra noicontro il qualein­tendevano le mie parole a metterti in sull'avviso po­c'anzi. Eglicontrariamente all'utile della causa comunee non ascoltando che la sua rabbiagelosavoleva la tua morte; io a fatica ho rattenuta la sentenza fatalet'hosalvata la vita. Non basta ancora; io debbo far po­sare la guerraridarti lapace del cuore. Quella donna è calunniata; ella e tusiete involti in una reted'in­ganni. Uccidimio re; dammi ai più fieri tormenti; ma questa è la vocedel vero. -

In tal guisa avrebbe voluto parlare Sumàti La schiettaconfessione gli turbinava nell'animogli faceva impeto alle labbra. Ma qualevergogna non sarebbe ellastata per lui! Apparire al cospetto di Ara un vilmentitoreun artefice di biechi inganniegliSumàtiil discepolo di Manùl'interprete dei santissimi Veda! E non c'era egli altro modo di tornar utile alresenza tanto di­sdoro? Egli ben lo cercavama in quel suo turbamento nongli venia fatto trovarlo.

E mentre così dubbiava tra rimorso e vergognas'af­facciòall'ingresso della tenda Vasdagil principe di Tarbazucon aspetto che già diper sè annunziava ri­levanti novelle.

L'occasione era fuggita. - É il destino che lo vuole! -aveva detto Sumàti in cuor suo.

- Che rechi di nuovo? - dimandò Ara al vecchio capitano.

- Un cavaliero- risposo Vasdag- è giunto or ora daLukdi...

E si arrestòguardando Sumàti.

- Parla liberamente; - disse Ara; - questo pel­legrino nonè di soverchio fra noi.

- E giunto da Lukdi- ripigliò allora Vasdag. - e portanovelle dell'esercito babiloneseche ha lasciato il campo di Assur ed è tuttoin marcia verso di noi. Le sue ali si stendono all'orizzonte come i corni d'unaluna falcatae lo schiere in moto appaiono numerose come un nembo di locusteche si rovescino a deva­stare i campi d'una intera contrada.

- Era tempo; - sclamò il re. - E dove accenna il nemico?

- A sforzare col nerbo de' suoi il passo dell'Eufratementreforse una parteche s'avanza diffatti sulla riva sinistra del fiumerisaliràalle sorgenti del Tigri. Que­sta io l'ho per una vana minaccia; del restolaggiù son munite le strette e poca gente basterà a trattenere gli audaci.

- Sia bene- disse Ara. - E che faremo noi orao Vasdag?

- Mio signore- rispose il principe di Tarbazu- lo ha giàdetto il tuo senno. Li lasceremo penetrare in questa valledovecoll'aiutodegli Deisarà la lor tomba.

- E t'ascoltino gli Dei; - soggiunse il re. - Ma pensiamociancora; egli è accorto consiglio aspettarli quio non piuttosto ritirarci piùindietroper modo che non possano così facilmente rifornirsi di gente frescadestreggiarciinsommarigirarci di greppo in greppotraccheggiarestancarl'inimico o attendere una migliore occasione? Sappio Vasdag; Babilonia si èribellata o con essa tutta la regione di Sennàar. Quest'uomo che vedie nelquale è da riporre gran fedeme ne ha recata or ora la certa notizia. -

E si fece a narrargli partitamente tutto ciò che sa­pevaeciò che aveva cercato di persuadergli Sumàti.

Ma il principe di Tarbazuo fosse religione vera e profondao diffidenza dell'ignoto pellegrinorispose:

- È tardi oramai. L'oracolo di Peznuni ha parlatoe il tuoesercitoo re vedrebbe di mal occhio un mu­tamento di ordinicheoggiall'approssimarsi del ne­micoavrebbe sembianza di fuga.

- Tu l'odi? - esclamò il revolgendosicon piglio graveaSumàti.

- E sia! - disse questi rassegnato. - Concedimio redirimanere al tuo fianco e di far mia la tua sorte.

- Ma... - disse amorevole il re- se ti incogliessesventura? E se troppo noto ai nemici....

- Che importa? - interruppe Sumàti. - Non l'hai tu dettopoc'anzi? In pugno di Zervane è il destino. -

 

 

CAPITOLO XV.

 

IL CANTO DI ABGARO.

 

 

La voce dello avvicinarsi dei Babilonesi al passo di Lukdi siera sparsa rapidamente nel campo aicàno. Il bellicoso popolo aveva salutatol'annunzio con un grido di giubilo.

Il luogo che gli Armeni avevano scelto per aspet­tare ilnemicoera acconcio che nulla più. Ne cono­scevano ogni insenatura ed ognideclivioogni sentieroogni forra; sapevano da qual parte celarsida qualealtra uscir fuori improvvisi; ove i guadiove i passi difficili. Quello erainoltre un luogo consacrato da glo­riose memorie. Che più? I platani vocali diPeznuni avevan datopochi giorni addietroun responso: "È in Ajotzor latomba dei Babilonesi." E dal labbro dei Sosvenerandi custodi del sacrorecintos'era diffuso per ogni dove l'oracoloargomento di speranza alleturbenuova esca all'amor patrio delle pugnaci tribù.

Gli Armenigiusta il culto di tutti i popoli discesi dallealture dell'Imalayaadoravano il tempo sconfinatosotto il nome di ZervaneAcherenedonde era uscito Ahuralo spirito divino ed eterno che penetral'uni­verso. E vedendolo essi in ogni cosaerano venuti a grado a gradodeificando le forze tutte della naturasic­come avean fatto i popoli affini diJavandi Irane gli altri di Turanpiù lontani consanguineisebbene piùvicini per moleste incursioni. Ed anco ad essi parve di ravvisarli nel fuocoacceso sui montila più pura essenza dello spirito eternoanch'essipopolarono di deità minori lo spaziole viscere della terra e i flutti delmare. Nè meno aveano essi a sentire dalla vici­nanza dei figli di Cuspe'quali erano confuse in un culto le ingenite virtù della terra e le stelle delfirma­mento; però avevano anch'essi la loro Istar nel ciclo e la loro MilitlaZarpanit sulla terra; e quella dicevano Asdligquesta Anaitambedue piùsevere e di più ca­sti riti onorato in quella contrada di assidue nevi e dicostumi più rigidi.

Altri riti aveano comuni le due genti vicine e tratto trattonimiche. Nè tanto era puro negli Armeni il nobil seme arianoche non vi siscorgesse mescolato alcun che del sangue cussitao camitico. Dicevasi che lostesso Aìcoil loro gran padretraesse l'origine dalla terra di Sennaar;forse non era egli che un figlio di Javanod anco di Turandisceso al pianodalle cime dell'Araratinsieme coi campati dal diluvioindi tor­nato alle sueprime sedi. Comunque fossein molte cose appariano conformi i due popoli;perfin nella lingua si notavano qua e là i segni dell'influsso stra­niero;certopoila scrittura degli antichi Armeni era ereditata dagli Accad. Elassùcome tra le genti della pianuraerano magici ritisortilegiaugurii esuperstizioni in buon dato; epperò i platani di Peznunirepu­tati faticidicircondati di venerazione profonda e cie­camente creduti dalle moltitudini. Nonaveano essi par­lato il veroprofetando sventura pel viaggio del re inBabilonia! Doveano esser creduti dal paroquandocon dolce lusingaall'orgoglio nazionalevaticinavano in Ajotzor la tomba dello schiere nemiche.

E il vaticinio stava finalmente per compiersi. IBa­bilonesidopo lunga sosta in Assurcerto necessaria ad ordinare cosìnumerosa turba d'armatiavean levate le tende e s'inoltravano alla volta deimonti. Ancora un giornodue al piùe sarebbero giunti all'assalto. Venisseropuresi perigliassero in quelle anguste con­valli; le aquile aicàne eranopronte a riceverli.

Quel dì fu festa nel campo. S'incontravano i com­pagnid'armegli amicie si scambiavano parole a vi­cenda aspettate. A domani! Cisiamo! Finalmente! Farà ognuno il debito suo. E lampeggiavano gli occhie unastretta di mano faceva sentire le pulsazioni gagliarde del sangue.

L'esercito aicàno si raccoglieva adunque in quel se­renoriposoche non è ozioma aspettazione; posavama meditando i colpi imminentie le prede. Bellaam­piaben chiusa sui lati ora la convalleeper ognici­glioneo pendioper ogni greppo su in altoo sentiero nel fondobrulicava di armati. Era egli possibile cherimanendo in piedi anco undrappello d'Armenil'e­sercito babilonese potesse aprirsi un varco là dentro?

L'ora delle quotidiane fatiche era scorsa e tutte le cureminute e varie del campocessate d'un tratto. Ap­pesi entro le tende i grandiarchi e le capaci faretre; a fasci raccolti i giavellottilunghesso i sentierie di rincontro ad essi appoggiate le targhe di ramee gli scudi lunghi dicuoio. Sciolti dallo pesanti bardaturepascevano liberamente i cavalli neipratio si diguaz­zavano nitrendo nel fiume. Qua e là seduti a crocchiolentamente vaganti per le viottole campestrisi da­vano spasso i guerrieri.

Gran ressasi notava alle falde del poggiosu cui sorgevala tenda del re. Attirava la moltitudine in quel luogo una danza militarepassatempo così grato agli Armeni. Ai suoni dei cembali percossi in cadenza daparecchi tra gli astantile coppie dei danzatori finge­vano assalti di spadesi minacciavano coi giavellottis'intrecciavano in molteplici girisiscioglievano e si assalivano ancoracon impeto più grande e moti più celerifino a tanto il ballo non rendesse immagine di una mischiaaccompagnata dagrida feroci e terminata dagli applausi del popolo spettatore.

Dopo le danzei canti. Si riposava facendo cerchio in mezzoalle tendedov'era più libero il campoe se­devano al centro i poetivenutia far gara di maestria gli uni cogli altri. Eglinodi solitoaccompagnando ilfinir d'ogni strofacon parecchi colpi di cembalocanta­vano antichetradizioni della stirpe aicàna; ognunose­condo l'umor suo e la feracitàdella fantasiamutando alcuna cosa al raccontoe fiorendolo d'immaginipro­prie; del che pigliavano gran diletto gli uditori e faceano paragone tra ivarii rapsòdi. La poesianon la storiasi vantaggiava di questo continuoraffazzonamentoche venia di mano in mano trasformando le cronache paesane infinzioni mitologichee queste rinfrescava poi di nuovi colori e apparenze distorica vita.

- "Ancora- cantava uno di essi- ancora nella terradei due fiumi non era edificata la torretesti­monio dell'umana tracotanzanè lo sdegno celeste avea corrotte e moltiplicate le lingueallorquando eranoprincipi della terra ZeruanoTitano e Jafeto.

"Appena si divisero essi l'impero del mondoche Zeruanosi levò padrone degli altri due. Titano e Jafeto si opposero alla sua tiranniae gli ruppero guerra. Imperocchè Zeruano pensava a fare che i suoi figli sututti regnassero.

"E già Titano aveva rapita una parte delle terre diZerunno; ma Asdligloro sorellafrappose le candide braccia e quetò glispiriti irati.

"Acconsentirono regnasse Zeruanoma patteggia­ronogiurati di far morire tutti i maschi che di Zeruano nascesseroperchè egli nonregnasse su loro sempre ne' posteri suoi.

"Perciò posero alcuni Titani robustiche veglias­seroai parti delle donne di Zeruano. E già due maschi sono uccisiper ossequio alpatto giuratoquando la pietosa Asdligsecondata dalle piangenti donnecom­muove i barbari cuori.

"Vivano i figli di Zeruanoe valide braccia tipor­tino in occidentesulla vetta di un monte. E sia come un altro Araratdonde la nostra stirpe discenda a po­polare la terra."

Tacqueciò dettoil cantoree un altro gli sottentrò nonmeno caro alle turbe.

- "Dopo la navigazione di Chisutro alle terre alte e ilsuo approdo alle ultime vette dell'Araratuno dei suoi figliper nome Simvaverso tramontana e po­nente. Tratto da vaghezza di conoscere i luoghis'inol­tra egli a tramontana e ponente.

"Qua giungee mette sua stanza a' piedi d'un montedalle lunghe faldesolcate dai fiumi che scendono nello terre degli Accad.Mette qui sua stanza per due lune e chiama il monte Sim dal suo nome; indi faritorno verso mezzogiorno e orienteverso le contrade dond'era venuto.

"Ma uno de' suoi figliDarpanco' suoi trenta nati equindici figliuolecoi loro maritiseparandosi dal vec­chio padresi formanoa dimora tra noi. E Simdal nome del figliochiama il luogo Darone laregione ov'egli stesso aveva abitatochiama Tzeronkche si­gnificadispersione.

"Imperocchè ivi si separò il suo figlio da luie unaltro del pariche va a metter dimora presso i confini della regione di Bakdi.E quest'altro luogo serba tuttavia il nome di Zaruant.

"Questo è il poco della stirpe di Simche rimase nelleterre d'Aiasdaninnanzi che il forte Aìco venisse a rallegrarle di sua dolcepresenza. Oranon sì tosto egli apparveche tuttidiscendenti di Simtribùbelli­cose di Javane domati figli di Turanaccolsero vo­lonterosi la suapaterna autoritàsi confusero in una sola gentein un solo voleresotto loscettro del gi­gante dagli occhi azzurri.

"Ricordate la vostra storiao genti aicàne; queste leprime e care memorie domestiche; così fu popolato il suolo che tutti ad unadobbiamo difenderecontro le voglie rapaci dei figliuoli di Nemrod."

Unanimi applausi e grida fragorose salutarono il bardo; eagli applausialle grida del popolosi aggiun­sero amorevoli paroledel re. Arail bello era uscito pur dianzi fuor della tenda e si era sedutoall'apertosul poggioin mezzo a' suoi capitani.

- Nobile è il canto di Sempad; - aggiunse il vec­chioVasdagprincipe di Tarbazu; - ma nessuno di voio poetiper le cui labbraparlano i Numicanterà le gloriose gesta d'Aìco? Oscuro è tutto ciò cheavvenne prima di lui; sebbeneè da lodarsi la cura che voi ponete a serbareogni più lieve frammento delle lon­tane memorie. Ma coll'eroe dai riccioluticapegli ha fi­nalmente nome e vita la patria nostra; da lui comincia la storia;da lui la fama d'Aiasdan. Cantateci Aìcoo bardie nelle sue lodi prenderemogli auspicii delle pugne vicine. -

Gran plauso ottenne il dire di Vasdag; del quale per altroera nota la saviezza. Di lui correva questa sentenza in Armenianon poterel'antico guerriero dir cosa che non fosse vera e sennata.

- Sì; - gridarono molti facendo eco alle parole del vecchioprincipe di Turbazu e incoronatore dei re; - chi canterà le gloriose gestad'Aìco? -

Esitarono i bardiguardandosi in viso l'un l'altro.

- Cantare d'Aìco! - sclamò alla perfine uno di essi. - Chilo ardirebbese è qui presente Abgàro?

- Egli il vate divino; - aggiunse un altro; - egli il signoredegli inni! L'eroe dal braccio gagliardo non ebbe mainè avrà certo neglianni futuriun più de­gno poeta.

- Sciogliere un inno ad Aìcomentre è il soave Abgàronella corona degli uditorisarebbe temerità maggioro di quella d'un astronotturnoil quale s'at­tentasse di splendere quando il sole è spuntato. -

Un vecchio sorrise a quelle paroleun vecchio cui in quelpunto erano volti gli occhi di tutti. Era egli vestito di candida lanaallaguisadei sacerdoti di Vanma al fianco gli pendeva la spada o all'òmero lacapace faretra.

Sorriso egliestesa la destra in atto corteseparlò:

- Bella èo giovanila lode data ai canutianco se paiasoverchia. Chi onora i vecchidà lode agli Dei; imperocchè nei vecchi siesalti il senno maturogra­zia impartita dal cieload ammaestramento e guidadelle nuove generazioni. A voi rende grazieo giovaniil cantore d'Aìcochescarso d'ingegnoha ravvivati coll'affetto i suoi carmi. Beati voichecresciuti a vo­stra volta in etàcome già siete d'arte doviziosi o disaperedarete più alti insegnamenti al popolo aicànotramandando ai nepotile imprese e lo vittorie di Ara il bellodel generoso figlio d'Aràmo.

- Vivrai tu per cantarleo maestro; - rispo­sero gli aèdi.

- In pugno di Zervane è la sorte; - disse Abgàro conaccento solenne. - II guerriero non può dire: "domani"ed oggiperla difesa del patrio suolotutti gli Aicàni saranno guerrierinè i vecchi simostreranno da meno dei giovani. Ma viasmettiamo gli inutili vanticheall'operenon già alle paroledee misurarsi il potere dell'uomo. Chiedevateil cantico d'Ajatsor? Il vec­chio poetainnanzi di tacere per semprevuolfarvi oggi contenti. -

Un grido di giubilo manifestò al vecchio il grato animodella guerresca assembleae il si­lenzio che tosto si fece d'ogni parte glidisse al­tresì con qual religiosa attenzione egli sarebbe ascoltato. A tuttiera noto il carmecom'era nota la materia intorno a cui s'aggirava. Senonchèera consuetudine degli aèdi mutar formeaccre­scer poetici fregi all'operaloroe appunto in questo la valentia d'Abgàro era somma.

Tolto di mano al più vicino de' suoi compagni il cembalofestivolo percosse egli con tese palme più voltequasi ad eccitar gli estridormenti; volse gli occhi inspirati all'intornoe così presecon voce piena earmoniosaa cantare:

"Abbia da' sommi Dei princìpio il canto. Terri­biliper maestà erano dessilargitori de' massimi beni al mondoalta cagioned'ogni cosa creata e della moltiplicazione degli uomini. Da loro si separò laschiatta dei gigantimostruosi di forzeinvincibilidi statura colossichenel loro orgo­glio concepirono il disegno di edificar la torre. Già eranoall'opera; un vento terribile e divinosoffiato dall'ira dei celestil'edifizio disperse. Gli Deidato ad ogni uomo un linguaggio dagli altri nonintesomisero tra loro confusione e scom­piglio.

"O il più chiaro tra questifigliuolo di Thogarmadelseme di Jafeto Aìcoo principe va­lorosopossente ed abile arcierochiesalterà de­gnamente il tuo nome? Famoso per bellezza e nerbo di membrariccioluto i capegliazzurro gli occhi al pari d'un Diogagliardo il braccio epu­gnacema pietoso dell'animo e amante del giustoti opponesti tu a quantialzavano la mano dominatrice sopra i giganti e gli eroi. Infiammato da nobileardirearmasti il tuo braccio contro la ti­rannia di Nemrodallorquando ilgenere umano su tutta la terra si sparse. Era in mezzo a questo un popolo digigantifuor di misura robusti e di lor forza superbi; il perchè ciascunocome da una furia sospintoimmerse la spada nel fianco del compagno; tuttisforzandosi dominare sugli altri.

"Ma la fortuna aiutò Nemrod ad usurpare la terra tutta;Nemrodfigliuolo di Mesdrima cui fu padre Cusdella progenie di Titano. Ericusa Aìco obbedirgli; e glorioso come la stella del suo nomevagante pe'cieli si allontana verso set­tentrionemenando secoastri minorii figlilefigliuolei nepotiuomini vigorosiin numero di forse trecento. Vassene co'figli de' suoi servico­gli estranei a lui ossequenti e con tutto il suoavere; vassene alle terre alte dell'Ararat. e si pone a piè d'un monteovealcuni degli uominiper lo innanzi dispersigià avevano messo dimora.

Costoro ei sottomette alle sue leggi; mura edifizi su questaterra e la dà in retaggio a Cadmoal figliuolo d'Armènago suo.

"Di là trascorreil savio giganteprogenitore deinobili Aicàni; va col resto dei suoi tra set­tentrione ed occidentee siferma ad un pianoche oggi ha nome di Harcovvero dei padri. Lo rammenti conallegrezza ognuno di voi e lo in­segni a' suoi figli; dinota quel nome chelassù abitarono i padri della casa di Thogarmanel borgo Aicascènoche suonacostrutto da Aìco. A mezzogiorno del pianovicino ad un monte di larghe faldes'erano prima alcuni uomini stabi­liti. E costorotratti da riverenzaspontanei giu­rarono fede all'eroe.

"Ma il titano Nemrodraffermato il suo domi­nio suileoni della pianuraguata con invidia all'aquile della montagnasi struggedella nascente potenza d'Aico. Tosto gli spedisce un fìgliuol suo con buonascorta d'uomini fedelie melate parole dissimulano l'imperiosa acerbità delmessaggio.

"Tu abitasti finora tra i ghiacci e le brine. Ri­scaldae tempera il freddo gelido de' tuoi alteri costumie a me sottomesso ed amicovivi tran­quillo là ove piace a tesulla terra del mio sog­giorno.

"Regni il Titano sulla terra sua; - rispose il figlio diThogarmacorrugando le ciglia. - Aìco nulla gli invidianulla chiede da lui.Andatee ditegli questa breve risposta: l'arco lungi saet­tante del cacciatoreha intorno a sè mestieri di spazio.

"All'udire l'altiero diniegotutto si svela il malanimo di Nemrod. Irato cavalca il Titano alla montagna; cavalca con grandeesercito e giunge alla contrada di Araratsotto alle case di Cadmo. Fuggequesti a ricovero presso dell'avoe manda avanti a sè veloci corrieri.

"Sappi (manda il figlio d'Armènago)sappio il piùgrande tra gli eroiche Nemrod sta per rovesciarsi su teco' suoi sempregagliardico' suoi guerrieri colossi. Com'io il vidi avvicinarsi alle miestanzefuggii; eccomivengo io gran fretta; tu cura ciò che devi e l'accortoingegno t'inspiri.

"Come l'impetuoso Arassesfondate le caverne dellemontagnecorre le valli boscosevarca le anguste gole e gli strettie scendeprecipita col terribil fragore nel pianocosì venia romoreggiando il Titanocolle ardite e poderose schiere. Confidava egli nel valore e nel numero de' suoisoldati. Ma il cauto e savio gigante dai capegli riccioluti e dall'occhiovivaceraduna tosto i suoi figli e nipotiguerrieri intrepidi e arcierivalentipochi di numeroed altri alla sua legge osse­quenti. Arrivadì enotte correndoalle salse ac­que di Van; e così parla il cauto e saviogigante alle schiere:

"Ad util segno soltanto si tende l'arco del cacciatoreespertoe sempre decisivo è il suo colpo. Nel riscontrare l'esercito diNemrodsforziamoci di giungere ov'egli stada molti suoi guerrieri circondato.O morremoe le nostre salmerie ca­dranno in sua mano; o la destrezza delnostro braccio mostrandodisperderemo la sua gente e avremo frutto dellavittoria.

"Tosto superato quell'intervallo di lunghissimo trattoi guerrieri d'Aìco arrivano in una con­valle tra erte montagne; posciaadestra del fiumesi trincierano sopra una altura. E in quel mentrealzati gliocchividero la confusa molti­tudine dell'esercito di Nemrodspinta qua e làda audacia feroce e su tutto il terreno diffusa.

"Nemrodtranquillo e fidentecon forte drap­pello sistava alla sinistra dell'acquecome alla vedettalà su quel poggio ch'iovedo. Aìco rico­nobbe il drappello dov'era il Titano innanzi alle sue tormecon iscelti e ben armati guerrieri. Ed era tra lui e l'esercito suo grandespazio di terra.

"Elmo di ferro cingeva il possente; elmo di ferroampiamente crinito. Corazza di rame portava al dorso ed al petto; schinieri ebracciali gli chiudeano le membra. I fianchi accinti; al sinistro spada a duetagli; nella destra gran lancia; saldo scudo a sinistra; da un lato e dall'altroeragli il fiore de' suoi.

"Aìcovedendo il Titano così tutto lucente nell'armimette in ordinanza le schiere. Armènago ed altri due figli alla destra; Cadmo edue altri della sua prole a mancaperchè erano esperti in trar d'arco e inmaneggiare la spada. Eglipoi fattosi avantidispone dietro a sè in cuspidedi lancia le sue genti e le fa ordinatamente pro­cedere.

"Orrido scontro! Di quadi làserratisi i gi­gantigli uni sopra degli altricoll'urto scambie­vole facevano rimbombare la terrae col furor degli assalti spargevano mutuo timore e spa­vento. Ivimoltigiganti robustiquinci e quindi colpiti dalle frecce e dalle spadestramazzavano al suolo; tuttavia il combattimento pendeva in­certo dall'unaparte e dall'altra.

"Bene si avvide allora il figlio di Misdraim di avertroppo confidato nella sua vecchia fortuna. Sbigottito dallo imminente pericolofece ritorno sul colle dond'era poc'anzi disceso; chè pensava in mezzo alle sueschiere affortificarsi vieppiùfino a tanto chegiunto tutto l'esercitopotesse in larga fronte ridar la battaglia. E dietro a lui salivano l'erta isuoi guerrieri colossiper fargli scudo e difesamaledicendo alla gagliardaresi­stenza del nemico e invocando con rabbiose grida il soccorso de' cieli.

"Già erano al colmo e respirava finalmente il monarca.Ma in quel mezzoAìcoil forte arcierecui erano noti i più ascosisentieriapparisce sovra un poggioche lo mette a pari del fuggente nemico. Loravvisa Nemrodalla prestante alte­rezza della personaalla vellosa pelle chependa dagli òmeri del montanaroalle penne d'aquila che gli fanno orridocimiero sull'elmo di ferro lucente; lo ravvisa e trema forte in cuor suoilpossente cacciatore di popoli. Fremonopoi che l'hanno veduto a lor voltaigigantii sempre valorosi guerrieri di Nemrod; già stanno per muo­vere controdi luisperando vendicarsi sovr'esso dei danni patiti.

"Ma invano; già il figlio di Thogarma ha teso ilgrand'arco lungi saettanteetolta la mira coll'azzurro occhio infallibilescocca poderosamente una freccia a tre alediritta al petto di Nemrod. Romba inaere la cordavola sibilando lo stralerompe la corazza come fosse di tenerocuoio e trapassando il petto riesce pel dorso. Cadde a terra il Titano; indarnotenta strapparsi l'acuto ferro dal senoe fiotti di sangue e bestemmie gligorgogliano dalle fauci; dà un trattoindi un al­trocerca degli occhi ilsole e rende lo spirito in­vitto.

"Un grido di gioiagrido possentesi eleva. È ilgrido di Aìcoche fa restarsi sospese e attonite le pugnaci coorti. Siaddensano intorno al caduto i suoi prodi. Egli è spento. Che fare? Ecconuovidardi fischiano per l'ariaseminano la morte in­torno al riverso Titano.Terribileimplacato come il Dio della folgoreAìco saetta. Fuggono alloracompresi d'alto spaventofuggono i guerrieri co­lossi; invano schermendosi coilarghi scudi so­nanti sugli òmerisenza più volgersi indietro.

"Gloria al tuo arcoo nobile Aìco! Posi essoeternamente sospeso alla sacra parete del tempio di Peznuni. Braccio mortale nonvarrebbe a ten­derlo oggi; e il potesse ancoavrebbe forse com­pagnol'infallibile sguardo azzurro del fortissimo arciere?

"Sangue bagna la collina di Kerezmanc; san­gue allagatutta l'ampia convalle di Ajotzor; san­gue scorre l'Eufrateancor poverod'acque. Odo­rano i corvi la predae calano in fitto stuolo alla pastura. Mail forte è magnanimo e pio; dà se­polcro onorato ai cadaverie la collina hail nome suo dalle tombe. Il gran corpo di Nemrodpla­smato entro e fuori dibalsami e di sontuose vesti copertolo portano le vittrici aquile montanare inHarcalle sante sedi de' padri. Colassùalla vista della regal casa diThogarmadorme gli eterni sonni il nemico delle libere genti aicàne. "

Così cantò il vecchio Abgàrotra l'ansiail fre­mito ela commozione profonda delle migliaia che l'ascoltavano. E un grido diammirazionedi gioiadi gratitudine immensasi levò tutt'intornopoich'egli ebbe finito.

Ardevano tutti i cuorie bene a ragioneper quei gloriosiricordi. Quello era appunto il luogo della memoranda pugna; quella pianurachesi stendeva dinanzi ai loro occhiera Aiotzor; in vista del poggio di Kerezmancera cantata la vit­toria di Aìco.

- Mai così grande si palesò il vecchio Abgàro- dicevanone' loro crocchi i guerrieri.

- Il suo canto- soggiungevano alcuni- ha dissipati itristi presagi.

- E quali?

- Nol rammentateil responso dubbioso dell'o­racolo diPeznuni? "È in Aiotzor la tomba dei Babilonesi."Sicuramenteellac'è; ma degli an­tichi seguaci di Nemrod.

- Orvia; troppo chiare parole si chiedono agli oracoli. Isommi Dei vonno lasciare alla fortezza del nostro braccio l'adempimento deivaticinii felici.

- E in Harcl'altra nottenon s’è egli udito un sordorumore nelle viscere del montecome d'armi percosse? Il feroce Titano s'èdesto e si solleva sul cubito.

- Stolto consiglio sarebbe il suo. Là presso riposa coluiche l'ha vinto ed ucciso. Se Nemrod si sveglianon temete; anche Aìco nondorme. -

Intanto che questi ragionari si facevano nella moltitudineAra il bello erasi avvicinato ad Ab­gàro e nell'impeto della sua ammirazionelo aveva abbracciato. Il vecchio cantorecommossotenne lungamente stretta sulseno venerando la bionda testa del principetra gli applausi di tutti gliastanti. Grande è la maestàcome la potenza dei re; ma l'ingegnoraggiodell'animain sè rac­chiude alcun che di divino; donde un'arcana virtù chepenetra i cuori e soggioga.

- Prode figlio di Aràmotu rinnoverai- disse allorail poeta- gli alti prodigi del valore d'Aico.

- Ahnon lo spero; - rispose il giovine re; - ma le tueparole mi staranno qui dentroe farò d'imitarlo ne' generosi propositi.

- Già cominciasti- entrò a dire Vasdag- scegliendo iltuo campo. Qui pugneremo; di qui ci avventeremo sulle schiere elette dellasuperba regina. O morremoe le nostre salmeriele nostre fortune tuttecadranno in sua mano; o la de­strezza del nostro braccio mostrandodisperde­remo il suo esercito e avrem frutto della vittoria.

- Verrà ella sulla prima fronteaudace al pari di Nemrod? -chiesecon piglio d'incredulouno tra gli ufficiali del re.

- Certoella verrà! - rispose Arafremendo. - Forteguerriera è costei. -

Nè altro disseche gli faceva ostacolo l'interno ribollirdegli affetti.

- Forte sìe superba- soggiunse Abgàro- come nellevene le scorresse il sangue dei Titani. Ma non è tralignato il seme aicàno ela fortuna lo ha sempre assistito fin qui. Armènagofonda­tore di AracazedArmaische diede il suo nome alla città d'Armavirnon estesero sempre piùl'avito dominio? Amasiail padre del fortissimo Kogamdel valoroso Parok e delgiocondo Tzolagnon si fè' egli padrone di tutta la catena dell'AraratdettoMasis da lui? E Kegam non signoreggiò egli in breve ora tutta la felicecontrada cui bagna l'Arasse? Ed Arma non dilatò d'ogn'intorno il reame? Chedire di Aràmodel glorioso tuo ge­nitore? Questo guerrieroamante dellafaticavo­leva piuttosto per la patria morireche scorgere i figli dellostraniero calcare il suolo natìosopra i suoi fratelli imperando. Narro storiaa noi molto vicina e presente all'animo di tutti. Aramopochi anni innanzil'impero di Ninomolestato dalle vicine nazioniraduna tutta la moltitudinede' suoi valorosiabili a trattar l'arco e a scagliare il giavellottogiovaninobilissimidi grandestrezza e bellezza notabile; esercito che per coraggioe nell’attovale cinquanta migliaia. Sui confini d'Armenia incontra il fioredei Medicon­dotti da Niucardetto Matèssuperbo e bellicoso guerriero; glipiomba addosso improvvisoin­nanzi lo spuntar del solee stermina la suagente; luifatto prigionieroconduce ad Armavir e in cima alla gran torreforata la fronte con lungo palo di ferrocomanda che sia inchiodatoater­ribile esempio per tutti gli oppressori e scorridori delle contraded'Armenia. Nino istesso se l'ebbe per detto. Nino cheavendo in cuore unamemoria d'odio pel suo progenitore caduto in Aiotzormeditava lungamentevendetta. Celò egli i suoi tristi disegnisebbene potentissimo fossee mandòmessaggieri ad Aramo; conservasse il suo dominioportasse liberamente la bendadi perlee secondo regnassedopo di luitra i re della terra. Aquile aicanesalvete; è vostro l'impero dei monti. -

 

 

CAPITOLO XVI.

 

 

LA REGINA GUERRIERA.

Così s'apparecchiavano le genti aicàne alla provadell'armi. E frattantodal passo di Lukdi si avan­zava l'esercito diSemiramidefacilmente respin­gendo i drappelli armeni colà posti in vedettae tacitamente distendendosi su per le circostanti al­ture. Buon nerbo dicavalieri e di fanti s'erano volti ad orienteaccennando a risalire verso lesorgenti del Tigrisiccome gli esploratori avean riferito ad Ara; ma poco oltreuna mezza gior­nata di camminoi cavalieri avean fatto sostae i fantiscelti tra i più destri arcadori dell'esercitoaveano piegato non visti asettentrioneinerpicandosi per le ripide coste ed addentrandosi a gran faticanelle impervie forre delle montagne.

Bene era Semiram quella eccelsa guerriera che il red'Armenianella onesta schiettezza dell'animo suoerasi affrettato ariconoscere. Mai donna degli antichissimi tempi era stata più addentro dicostei nelle gravi cure e nelle aspre discipline della guerranè altra chepotesse ragguagliarsi a lei avevano a darne le età più recenti.

Nata d'arcane nozze in Ascalona di Sirianu­trita neltempio di Derceto e cara (dicevano le favole del volgo) siccome figlia alla Deale grazie nascenti d'una sovrumana bellezza l'avean fatta sposa a Mènnoneprefetto e governatorepel re degli Accaddi tutto il paese di Palastu sullerive del Mar d'occidente. Ora il re degli Accad era Ninofiglio d'Arbeldellastirpe di Neinrodche alloracon tutte le forze del suo imperosi dispo­nevaad invadere la Bakdiana.

Chiamato era Mènnone al campo del re; nè po­tendo eglilungamente rimanervi senza la donna dell'amor suoche colla leggiadria delleincom­parabili forme e coll'avvedutezza del consiglio sì l'aveva soggiogatomandò alcuni suoi famigliari a chiamarlachecome più presto potevasiri­ducesse al suo fianco. E l'ebbe come desideravamentre l'esercitocorsotutto il paese dei Medistringeva Bakdila capitalevanamente d'assedio.

D'ingegno acutissimo e d'animo prontola donna leggiadraaveva colta quell'occasione per far mo­stra di sua grande virtù. E per poterecon più si­curezza fare il viaggioch'era di molte giornateaveva indossatauna stolaper la quale non po­tesse distinguersi se fosse uomo o donnachin'era ammantato; giovandole inoltre quel vesti­mentocosì a difesa dellecandidissime carni contro gli ardori del giornocome a farla più snellainogni occorrenzao pericolo. E tanta fu la grazia di quel suo modo di vestirsid'allorache i Medi posciae gli Assirie da ultimo i Persiinsignoritisidell'Asiavollero portare la stola di Semiramide.

Intantogiunta ella al campoconsiderando come l'assedioera condottoaveva visto tutta la forza del nemico rivolgersi contro i luoghicampestri ed ovvii alle irruzionima nessuno frattanto custo­dire la roccache per natura e per arte era for­tissima. Presi pertanto uomini che sapesseroiner­picarsi sulle rupie valicata con essi una certa valleascese alleopposte eminenze ed occupò una parte della roccaed ai suoiche combattevanonel piano sotto le muradiede il segnale. Fu al­lora che i difensori dellacittàcolti da terrore improvviso per la rocca presanon avendo più speranzadi difendersiabbandonarono le mura.

Volò il nome di Semiramide per tutte le bocche. La vide ilreepreso da tanta bellezzane innamorò vivamente. Abbi- dissegli aMènnonequanta sostanza del mio tesoro vorraie mi appartenga Semiram.

- Nulla sono le ricchezze del tuo regno- ri­spose Mènnoneal re- nulla sarebbero quelle dei mari lontani al paragone di lei.

- Sii secondo appo me- ripigliò Nino infiam­mato; -abbiti in moglie la mia figliuola Sosaneper cui tanti re della terrasospiranoe mi ap­partenga Semiram.

- No; - disse a lui di rimando il marito. - Io ti rendograzieo re dell'onor singolareche ogni altro m'invidierebbe per fermo. Chemi var­rebbe esser secondo appo tequando io non fossi più il primo e l'uniconel cuor di Semiram? Vada la tua gentil Sosane ad un possenteche sia degno dicosì alto parentado; nessuna figliuola di re mi pagherebbe la perdita del vagofior d'Ascalona.

- E sia; - gridò Ninocorrugando la fronte e mettendo lampidagli occhi; - rinunzia alle ricchezze; rinunzia agli onori; ma io giuro perNisrocche in questo mentre già libra le tue sortitu non vedrai più il vagofior d'Ascalona. Con ferro rovente ti si sfonderanno le pupille tra un'ora; chepiù non ti concedo di tempo a con­sigliarti di ciò. -

Preghierepianti e scongiurinon valsero; bi­sognavaobbedire. Mènnonepel timore delle mi­nacce del ree per la gelosia che erapossente in cuor suomontato in furorecorse alla sua tenda e s’uccise. Pertal modosebbene riluttanteSemiramide era fatta consorte di Nino.

Il fiero Cussita nulla tralasciò che giovasse a medicarel'acerba piagaaperta da'suoi desiderii in quel giovine cuore. Unica suacompagna la volle; regina la pose su tutte le genti tra il Mar d'occidente e leterre dei Medi. Mapiù che il regio fasto e l'obbediente affettodell'ammansato leonevalse il grand'animo desideroso di grandi cosea lenirela sua cura. Indi a non moltoil suo possente signore morivalasciandola madredi Ninia. E fu allora che la sua mente gagliarda si palesò tutta quanta.Spiaceva agli Accadperchè donna e straniera; ma la sua grandezzasuperiore aquella di tanti uomini portatori di scettroli vinse. E non si dolsero d'esserecaduti in balìa d'una mano di donnaallorquando videro quella mano impugnarela lancia e tentar le redini del corsieroche volava sempre dov'era più asprala pugna.

Un giorno (e fu dei primi del suo regno)la ri­volta erascoppiata nelle vie di Babilonia. La regina sedeva nel suo spogliatojoin mezzoalle ancelleintenta a rassettarsi le lucide chiome. Udire il molesto annunzioe balzare in piedi fu un punto. Scese nella corte del suo palazzoove stavanopoche schiere adunatee così scarmigliata come eraaccesa in volto di sdegnomontò subitamente a cavallocorse a furia dove più spesseggiavano irivoltosientrò di lancio nel mezzoe con fiere parole li rampognò di lorfellonia. Sbigottiti gli unicommossi gli altri da tanto ardimentotuttisoggiogati da una così felice mistura di sublime bellezza e di regalecorruccioposarono le armila gridaron regina e veramente figlia di Dea.

Abbellita in singolar modo la città e quasi rie­dificata dalei; la Media domatae il suo vecchio re Ossiarte costretto a tributo;signoreggiata tutta la terra degli aromiche si stende dal paese degli Aribiinfìno al mare di mezzodì; temente ed os­sequioso il popolo altero diMesrahn; le insegne degli Accad condotte di vittoria in vittoria per l'estremoorientefino alle rive dell'Indo; erano questi i diritti di Semiramide allaobbedienza ed alla venerazione delle genti del Sennaar. E là sull'Indorecatala guerra contro il re d'innume­revoli schiereStaprobatenon aveva ellafatto prova d'altissimo ingegnopari a quello dei più insigni condottierid'esercito? Assai prima di Alessandro Macedonenon aveva ella provveduto guadod'un largo fìumecon migliaia di barche in tal guisa costrutteche sipotessero agevol­mente scomporre e portare sui carri? E laggiù s'era ellamostrata grande nella prosperapiù grande nella avversa fortunaallorquandofallita in sul meglio l'impresaperchè i suoi soldati non erano avvezzi acombattere gli elefanticondusse il suo esercito al ponte e lo ridusse insalvoul­tima a ritirarsi davanti al nemico e pronta a re­cidere le funi chetenevano le barche congiunte.

Donna invero eccelsa per grandezza d'animo e per feliceaccoppiamento di virtù virili e di grazie femmineea tutto intendevadi tuttosi pigliava gran curae in pace maturava gli accorgimenti di guerrain guerraassicurava le arti della pacesenz'altro pensierofuor quello della felicitàdel suo popolo Il monte Bagistanoda lei foggiato a monumento della sua gloriacittà nuovetemplistrade militaricanali portatori di acqua ai campiinfeconditutto recava l'impronta del suo genio multiforme. Per lei la stirpedegli Accad fu grande e avventurosacome non era stata mai; lampada che dàguizzo di più splendida lucequando ella è presso a mancare.

E ben meritava la pace e la contentezza per sèlei checotanto aveva fatto per la prosperità del suo popolo. Mapur tropponon puòesser tregua al dolorepei nati dalla creta. E appunto alloraquando ellasperava rifarsi dalle molte fatiche ne' taciti gaudii del cuorein gloriosaquietecon­fortata dal più nobile affettoun'altra guerra le apparivanecessaria. Il delicato sentir della donna e la maestà della regina erano statioffesi del pari. E da chi? Da un re tributario; dall'uomo in cui aveva ellariposto sua fedea cui s'era data in balìacon quel sublime abbandonoconquella piena dimenticanza di sèche accompagnano e dimostrano le profondepassionile sole vere e desiderabili della vita.

Stava ella al passo di Lukdisiccome si è dettoe le sueschierepassate in rassegnaa mano a mano si avviavano ai luoghi assegnati.

Giusta il costume suo in simiglianti occasioni la reginaaveva fatta sul piano un'alzata di terra a guisa di poggiosu cui vedevasieretto il suo tronosotto un padiglione di bisso divisato a co­lori. Sorgeva amanca un'antennadal cui sommo sventolava una striscia di porporainsegna delcomando che tutti potessero agevolmente vedere da lungee a destra lo stendardodegli Accadche era un leone alatodalla faccia umanatutto d'oro massiccioinnestato sulla punta di un lungo giavellotto.

A' piedi dello stendardo e distribuiti sul pendìo di quellaeminenzatrecento sceptùchio porta­tori di scettrovegliavanotuttinobilmente vestiti di bianca e corta tunicafrangiata d'orosotto di cuiapparivano le anassìridi di cuoio coloratoche s'attagliavano alla gamba e lafacevano più salda al cammino.

Dall'altra bandaove sorgeva l'antenna colle insegne delcomando supremostavano a custo­dia trecento portatori di lanciaterribili avedersi nelle corazze di rame e negli elmi criniti.

Alle falde del poggio era il carro di guerra della reginatutto di bronzocon aurei fregiche simulavano soli fiammanti. Otto poderosicavalli di Media erano fermi al timonetutti bardati a squamme di ferro emuniti d'un’ampia rotella sul pettodal cui mezzo sporgeva un minacciosospuntone. Succinti valletti erano di fianco ai ca­valliper tenerne le redinie frenarne i moti im­pazienti; l'auriga stava immobile al suo postoaspettandola reginamentre lo scudiero dispo­neva in bell'ordinesulla proda del carrol'arcola faretrai giavellotti e lo scudo.

Semiramide intanto stavasi ritta sul tronoin nobileatteggiamentocon una lancia nel pugno. Indossava una tunica di porporadelcolor d'amatistae una bianca sopravvesteserrata ai fianchi da un'aureacinturadonde pendeva la spadacol fodero tempestato di gemme. Non portavacol­lana o monile; per controal sommo del petto appariva fuor della tunicauna gorgiera di ferro lucentesegno che tutta la persona era catafratta delpari. Un elmo alato le cingeva le tempiela­sciando libera la nerissimacapigliatura che scen­deva in larghe anella sugli òmeri.

Così chiusa nell'armi ed alterai Greci l'avreb­bero toltaper Minerva discesa tra gli uominie si sarebbero prostrati a' suoi piediadorandola. Il pastore di Frigia l'avrebbe piuttosto creduta Ve­nererivestitadelle spoglie di Marte; e a lei pur semprea lei solaavrebbe dato il vantodella bellezza. Severa bellezza era per altro la sua; una torva lucecome lampoper notte buiari­schiarava il profondo di quegli occhi stupendi; eranochiuseirrigidite da acerbo dispettoquelle labbra di coralloche agli umiliriguardanti fa­cevano sognare la ineffabile ebbrezza d'un bacio.

Ai fianchi della reginama alquanto in dispartesi vedevanoi primi uffiziali dell'esercitovecchi e sagaci consiglieri di guerra. Suigradini del trono stavano immoti i portatori di flagellovivi emblemi dellepene imminenti ai ribelliai tras­gressori de' comandi reali. Dietro a lei glieu­nuchiriconoscibili alle guance imberbi e alle fattezze muliebriardevanosoavi aromi e scuo­tevano flabelli di candide penne.

Nella pianura sottostantel'esercito si scorgeva tutto inmotoe in ordine così lungoche l'occhio non poteva abbracciarlo d'un tratto.S'inoltrava quella moltitudine immensabalenandoondeg­giandosiccome campodi spighe. Nitrivano i ca­valli scalpitanti; sonavano con alto fragore i carridando frequenti sobbalzi lunghesso il sen­tiero; strepitavano i timpaniglioricalchi e gli strumenti della musica guerriera. Gli scudile lo­richeglielmi e le lancieluccicavano al soleconfondevano lo sguardo. Pareva discorgere Samnell'ora che si mostra sull'orizzontee fa scintillare in mobilipagliuole d'argento le creste del mare agitato. Qua e làper mezzo allosterminato piano di elmi e di punte lucentisi rizzavano le lunghe cervici deidromedari sabeile doppie terga dei cammelli di Bakdile immani testeorecchiute degli elefanti indianicolle lor proboscidi erette e le torribarcollanti sul dorsoe trofeibandierepennoncelli di cento colori; tutto inmoto verso le falde del poggioinnanzi al quale dovea pas­sare ogni schiera.

Colà diffatti si scorgeva un ampio e lungo stec­catoentroal quale i guerrieripoichè tutto l'avean colmosi fermavano un trattoindipro­seguivano speditamente la via. In quel modo si noveravano allora le forzedegli eserciti. Capace era lo steccato di una miriadecioè di diecimila uominimandati innanzi su d'una fronte di cento; epperòa mano a mano che i guerrierivarcavano lo spazio misurato e una o più schiere addensate giungevano ariempirne i limiti estremilo scriba segnava un numero nel suo papiroe cosìvia via fino all'ultimoper poi cavarne la somma.

Quel dì lo scriba reale aveva a segnare set­tanta numeri epiùimperocchè tante miriadi con­duceva seco la regina degli Accad;cinquecento mila fanti e dugentomila cavalli. Il primo novero già era statofatto nel campo di Assured in altra maniera anch'essa in uso a que' tempi.Secondo quellaogni soldato passando gittava una freccia entro una cestaa taluopo preparata. A mano a mano che le ceste si riempivanoeran chiuse col regiosuggello e si riponevano in luogo da ciò. Finita che fosse la guerrasirimettevano in or­dine erotti i suggelliogni soldato di là pas­sandoripigliava una freccia. Le ultime rimastecome di leggieri s'argomentadavanoil numero dei perduti in battaglia.

E passavano i guerrieripassavano lieti e su­perbi dinanzial poggio realefacendo suonar l'aria di lor grida discordi.

Primi erano i soldati delle contrade a mezzo­giorno diBabilonia; settantamila di numero. Si riconoscevano gli uomini di Mahabu e diKarbanitisui confini di Mesraim; gli Arìbi e i Kidrii Nabatii Curassiti ei Sabeifieri abitanti della vasta penisola che s'immerge come ascia lucentenel mare lontano. Guidavano innumeri torme otto principi di quelle ultimeregioni che son presso alla aurifera spiaggia di Ofir; i capi delle tribù diCaldilidi Rapiatidi MagalaniCadascìDihtaniIhiluGahpaniGuzbièh.Tutti costorova­lenti arcadorivestivano succinte tuniche e por­tavanocalzari intessuti con fibre di palma; cingevano il capo di bende a più giriravvoltee corte spade recavano al destro lato sospese. Nel sembiante dellapiù parte di loro erano impressi i segni della stirpe camitica; breve lafronteil naso piattocorti i capegli e crespila carnagione abbronzata.

Seguivano gli uomini delle regioni d'occidentedi MartudiAharru e di Hatti. Erano costoro duecento migliaiatutti della progenie di Sem.Numerosi tra essi i Dimaskitiquei di Birtula città bianca sul montediLakidi Simarialle falde del Libanodi Arvadache è sul maredi BitBurutadi Sidunnula trafficante di porpora. Mancavano quei d'IzcalunaavendoSemiramide liberati i suoi concittadini dall'ufficio dell'armi. C'erano inquella vece i fieri abitatori di Palastuarmati di fionda e di accette diselce. Seguivano del pari le insegne i popoli marinari di Yatnanache è Ciproe delle altre isoledi IdihaiKitusiSilluaPappaAprodissaposte sul maredel sole occidente; questi armati di scure e diligenti ar­tefici di macchine daespugnare città; gli altri tuttinominati più sopraarcieri gagliardi edestri nel maneggiare la clava nodosa.

Venivano dopo questi i guerrieri delle regioni settentrionalidi Nahiri e di Assurdi Urusu e di Urumidi Nazibi e di Arbeldi Tusan e diAmidache è sulla riva sinistra del Tigridi Ninuala futura rivale diBabiludi Tuhani e di Izamadi Kabsunei pressi di Nipurle cui abitazionison fabbricate in alto sui greppi come nidi d'uccellidi Haran e di ResendiTadmor e di Reoboth. Tutti costoro discendenti di AssurSemitifug­giaschidalla terra di Sennaar ai primi tempi della dominazione cussitaed oraassoggettati da Nino e da Semiramide all'impero babilonese. Forti guerrieri sonessie nel combattere corpo a corpo valenti. Portano corazze a sette doppi dilinomacerato da prima nell'acetodonde si fa più tenace e più saldo;imbracciano tondi scudie cingono elmi di bronzo; spadearchi e mazze ferrateson l'armi loro. Di essi una parte è a cavalloe gli uni e gli altri ascendonoa cento migliaia.

Quarto in ordine di cammino veniva il forte popolo d'Elamche è di là dai monti orientali. Si notavano per la bella presenza gli uominidi Susancittà realedi Rasu e di Hamanu. Segui­vano i Madainobilissimaschiattai Parsuagli Ariarvii cittadini di Muru e di Bakditutti dellaantichissima e pura stirpe di Javane di sanguema non più di memorie ed'affetticongiunti agli Armeni. I Parsua attiravano più d'ogni altra gente losguardoper le loro bionde capigliature inanellate e per gli occhi bigiche lifacevano parer quasi una famiglia al tutto separata dalle altre. ElamitiMediPersiArianiMargiani e Battriani (che cosilievemente mutatigiunsero inomi loro alle età susseguenti) erano duecento migliaia: metà de' quali acavallo con archi sugli ómericorazze di ferro a squamineelmetti e scudiparimente di ferro. Destri erano costoro a trar l'arco cavalcando e a tôr lamira fuggendocolla fronte ed il petto rivolti all'indietro. I fanti vestivanodi cuoio; portavanocome i cavalierile anassiridi di pelle a difesa dellegambe; armi da offesa avevano i giavellottiascie a due tagli e spade di ferroalla cintura. |

A queste genti tenevano dietro gli abitatori del Sennaarifieri Cussitigli Accadi Sumir aspro favellantituttainsommaquellamescolanza di popoli diversiche furono i fondatori di Babilu. Cinquantamigliaia erano i cavaliericon loriche ed elmi di forbito ramelancie rittesulla staffa e mazze ferrate pendenti all'arcione. Più nume­rosi i fantitutti vestiti di cuoio; parte fiondatoricon bisacce sull'ómeroche recavanoselcighiande di piomboo d'argilla e bitume; parte arcadoridalle cui spallependevano le capaci faretre.

Si avanzavano poscia le artiglierietorriuncini e macchineda trarrecon cammelli carichi di munizionidardi intrisi di naftapalle dibitume e di zolfo. Seguivano quaranta elefantismisurati animali condotti dallerive dell'Indoognun de' quali portava il suo custode sulla negra cervice e unatorre sul dorsocon dieci uomini armati di gia­vellotti e di frecce. Ultimiquattrocento carri di guerracon scelti guerrieriarmati d'aste pode­rose eaccompagnati da esperti cocchieri.

Chiudevano la marcia diecimila uomini di scelta cavalleria.Militava in quella schiera il fiore e il nerbo della gioventù babilonesetuttiusciti dalle prime famiglie dei Sennaar. Era gran lustro lo entrarviimperocchè s'avevano a comandanti dei drappelli uomini di regio sangueocongiunti di parentado colla discendenza di Nemrod.

Le fogge e l'armi rispondevano per lo sfarzo loro alladignità di quel nobilissimo corpo. Sulla lorica di ferro temprato portavano ilcandìtes­suto di bissodi latteo colorecon fregi di por­poracosparsodi soli fiammanti in oro. Sul capo avevano la tiarai cui lembi siraccoglievano a soggololasciando scoverta appena la metà delle guance. Ricchecinture sostenevano le lunghe spade dalle lucenti guaineed archi e faretrepen­devano dagli omeri. Bianchi erano come neve i cavallicresciuti pur essinelle regie mandre di Sippara. E così bianchi sulle bianche cavalcaturerutilanti d'oro e di porporaera una vaghezza a vederli.

Diceansi i cavalieri di Beloocon altre parolela sacramiriade. Accompagnavano l'esercitoquando esso stava sotto il comando del reein battaglia non erano adoperati che ne' momenti supremi. La conscia nobiltàdel sangue e l'ob­bligo dei forti esempili facevano valorosi a gara su tuttele schiere. Andavano contro il nemico a corsa sfrenatalasciando le redini sulcollo ai de­strieri; quando si scorgeva quella moltitudine in­calzare agaloppocoi brevi mantelli e le cri­niere svolazzanti in mezzo a un nembo dipol­verepareva di vedere una legione di spiriti celestiscesi a combatterele miserande pugne degli uomini.

Passando di sotto al poggioi cavalieri di Belo acclamaronocon alte grida la possente reginache d'un gesto cortese ricambiò loro ilsaluto; indi ella pure si mosseper salire sul suo cocchio di guerrachel'attendeva nel basso. Dietro a lei scendevano a cercare le loro ca­valcature isuoi uffizialigli sceptuchi e i melofori; quindi gli eunuchii serventiicustodi del tesoro. E postosi in moto il corteosi affrettarono sull'orme ibagaglioni colle salmeriee una grossa compagnia di cavalieriche dovevaproteggere le spalle dell'esercito e impedire lo sbandarsi ai co­dardi.

Al passo di Lukdi non era stata quella confu­sioneche intanta moltitudine d'armati era age­vole immaginare. Gli ordini della reginaerano stati avvedutamente distribuiti; e i comandantiaiutati da guide espertedei luoghiavevano prese le vie a ciascuno assegnate.

I fanti s'inerpicarono per le costiere e per le viottolealpestri; i cavalli seguirono le strade che correvano lungo le rive del fiume.Sulla più vastache risaliva la sponda destras'avanzavanopre­ceduti dabuon nerbo d'arcierii carri di guerra e la sacra miriade. Tenean dietro aquesta le macchinegli elefanti e i bagaglioniche ad un certo luogo dovevanofar sosta per non riuscire d'ostacolo ai movimenti dell'esercito.

Ogni cosa per tal modo dispostala marcia che dovevacondurre l'esercito babilonese in vista del campo d'Ajotzorfu recata a buonfine in quel giorno. Gli Aicàni avevano udito dalle loro scolte ravvicinarsidel nemicoecome s'è dettoerano pronti a riceverlo.

L'alba del giorno seguente salutò i due campil'uno inpresenza dell'altro.

 

XVII.

 

 

A J O T Z O R

 

Videro le aquile aicàne da quanta moltitudine di combattentifossero minacciati i lor nidi. Le cime dei montile digradanti costiereipoggii decliviierano coperti di armati. Ancora non si distinguevano leinsegnenè potevano noverarsi i manipoli; ma si notava da lungee diceva piùassai allo sguardoil brulichìo delle innumeri schiere.

- Per l'anima dei padri nostri! - esclamò Sempadguatandoin giro le aperte collinein mezzo alle quali si dilungava scorrendo l'Eufrate.- Qual fitta selva d'armati!

- Numero sterminatonon forza! - disse di rimandoVasdagalzando superbamente le spalle. - Calano dai monti e fuggiranno dalpianosic­come è lor costume ne' sabbiosi deserti. Assai più molestia midanno quegli altriche io vedo inoltrarsi laggiùsulla riva sinistra delfiume. -

Così dicendoil principe di Tarbazu additava una frotta dicavalieriche compariva allora alla svolta d'una rupein fondo alla valle. Eral'an­tiguardo dell'ala destra dei Babilonesiche doveva per l'angustia de'luoghi avanzarsi da quella bandalasciando tra sè e il centro dell'esercito ilcorso dell'Eufrate.

- Dividono le forze! - notò Sempadcon aria di trionfo.

- Possono farlo; - rispose con amarezza Vadag. - Moltomaggior nerbo di gente avranno incamminato sulla riva destra del fiumedovesono i lor movimenti più agevoli. Mirano a pigliarci in mezzoe accortamentepreparano i cer­chi; ma per gli Deiinnanzi che siano calate quelle miriadisenza nome dai montiavremo fatto un profondo squarcio nelle schiere del pianoe i tronchi del serpente dureranno fatica a ricon­giungersi.

- Ti ascolti Zervane! - disse Ara il belloche stava pocolunge da luiritto sull'arcione e il collo tesoguardando nel fondo. - Eccodiffattila prima fronte si avanzaè già presso alla macchia di Rezduni. -

Non s'ingannavano gli occhi del re. Mentre l'ala destra deiBabilonesiche era composta di caval­leria meda e di arcadori di Martus'inoltrava dall'altra parte del fiumemollemente accennando a cercare unguadoil centro e l'ala sinistra si facevano speditamente innanzi su quel campopiù vastoche le alluvioni dell'Eufrate aveano for­mato sulla sua spondadestra. Grossi drappelli d'arcieri cussiti precedevanomisti a frombolieri diPalastuche si venivano sparpagliando dinanzi alla fronte di battagliacollefionde tese dietro alle spalle e pronti a rotarle in aria al primo apparir dinemici. Dietro a costoro si muovevano grosse squadre di cavalieri. I carrichevenivano in terza lineaerano celati allo sguardo da quella profonda sieped'armati.

- Orbenemio reche faremo? - disse Vasdagpoi che ebbeosservato a sua volta il grosso dell'esercito contrario. - Lasceremo ches'inoltrino ancora e si dispongano in battaglia ordinati?

- Nocerto! - esclamò il re. - I fiondatori di Van sonoappostati a piè della macchia di Rez­duni. Eglinoche numerosi sono evalentipren­deranno a sfrombolare i cavalieri babilonesie noi compiremol'opera lorofacendo impeto dei nostri cavallientro le sgominate ordinanze.Cotesto non dee parer dubbio- soggiunse il realzando la voceperchè tuttiintorno lo udissero - a chi per la sua patria ha risoluto di affron­tare ognipiù grave pericolo. Egli è piuttosto da stare in pensiero per quegli altri ches'avanzano laggiù e si fermano ad ogni tratto e mandano cavalli a tentare ilguado del fiume.

- Stratagemma! - notò sorridendo il vecchio principe diTarbazu. - Guadando il fiume laggiùfarebbero ingombro alle lor medesimeschiere.

- Sìben dicio savio Vasdag. Coloro vor­rebbero trarciin ingannoperchè facessimo inutil ressa più avantilasciando più debole ilcampo nostrodove certamenteal momento opportunosi sforzeranno di giungere.Io dunque penso che a questa altezza si debba aspettarli. Vadano gli arcieri diTarbazu e si appiattino sotto a quella triplice fila di pioppi. Colànonaltrovetenteranno il guado i nemici. Ad ogni costo vuolsi impedirlo. Tustessonotoalla tua gente e dilettoveglierai in quel luogo. È il nostrolato deboleed ha me­stieri del capitano più valoroso ed accorto. -

Così parlò il giovine redi senno maturo; e Vasdag. beneintendendo come in quel luogoche aveva detto il refosse necessaria la suapresenzas'incamminò a quella voltaper disporre i suoi arcadori lungo levincaie del fiumee un buon nerbo di cavalieri e di fanti al copertodietro laselva dei pioppi.

Ciò ch'egli aveva argomentatoe che il re aveva detto conluiera vero. I Medicomechè lenta­mentes'avanzavano pur sempree senzamai risolversi al guado. Aspettavanoper ciò fareche la pugna fossesull'altra riva impegnatae con manifesto vantaggio pei loro compagni.

Oraa che i lor voti andassero vanisi affati­cava il red'Armenia con provvedimenti solleciti. Per fermopensava eglisu quel po' dipianura stesa dinanzi a lui tra le colline ed il fiumedovea venire la pienadelle forze nemiche. Certamente era laggiù Semiramidecoi miglioridell'esercito e coi più terribili congegni di guerra. E diffattida un poggioalla sua destrasu cui si era prontamente condottoegli aveva potuto scorgerei carrinascosti dietro le profonde ordinanze della caval­leria babilonese.

E si avvicinava frattanto l'antiguardo nemico. Ad un trattoil suo balenare irresolutoil cader di parecchie un nuvolocome di negrapolvere per l'ariamostrò al re d'Armenia che i nemici erano giunti nellevicinanze della macchia di Reznunie che i fiondatori di Van mettevano ai loropassi impedimento gagliardo.

Un tal po' di sgomento erasi sparso nelle file degli arciericussitia quell'improvviso assalto di fianco. Tosto avevano poggiato dallaparte del fiumeepostisi al coperto degli alberiscaglia­vano frecce agliappostati nemici; ma con pochis­simo fruttoessendo questi in parte nascostiagli occhi loro da una fila di massi scoscesiche faceano orlo alla macchia.

Veduto il frangentefurono pronti i Babilonesi al riparo.Una mano dei lorocon scudi imbracciatigiavellotto in pugno e corte spade alfiancosi gittarono di lancio alla costa del monteper inerpicarsi lassù esloggiarne i fiondatori molesti.

Araciò vedendonon ne fu punto turbato. Egli ricordavache al comando dei fiondatori era pre­posto Dicranuforte e risolutoguerrieroe non dubitava che i Babilonesi non avessero a pagar tosto il fiodella loro temerità. Diffattile pietre seguitavano a pioveree gli alberisotto cui si ri­paravano gli arcierine erano sfrondaticome per rovescio digrandine. E i soldati che avevano pur dianzi tentato l'assaltose ne tornavanoin grande scompiglio sul pianodov'erano fatti se­gno a quella rovina disassinon potuta rintuzzare dalle valide risposte dei frombolieri di Palastu edegli arcieri cussiti. Trasvolando in ariafitte a guisa di nuvolele freccele pietrei globi d'argilla e di piombofischiavanorompevano le spade inpugno ai guerrierisfondavano le corazzerimbalzavano sugli scudifacevanoschizzar gli occhi dall'orbitele cervella dalle infrante cervici.

Grida di giubilo per tutto il campo aicàno salutavano questavittoria dei fiondatori di Van. Ma che avviene egli mai? Fumanti globi si levanoda tergo alle squadre babilonesifendono l'ariapiombano sulla macchia diReznuni.

Semiramidescorgendo che i Medi non hanno ancora guadato ilfiumenè possonoperchè il nemico ha deluso il loro accorgimento e vegliacertamente al passo pericoloso; pensando inoltre che la sua cavalleria e i suoicarri di guerra non potrebbero impunemente passare sotto quella ro­vina disassiha fatto incontanente sul fianco sinistro avanzar le sue macchine.L'assalto dei guerrieri alla macchia non era che un infingi­mento per guadagnartempo e sviar l'attenzione degli Armeni. Ed eccole sue macchinein ac­concioluogo collocatescagliano dardi intrisi di nafta e palle di bitume acceso sullacostiera. S'ap­picca il fuoco alla selva; cigolano le piante inve­stite dallafiamma; vortici di denso fumo s'in­nalzanoingombrano l'aereacciecano icombat­tentidi cui si rallentano i colpi.

Vide Ara il pericolo che da quella impotenza dei fiondatoridi Van sarebbe derivato all'esercitoe si affrettò a scendere dal poggio.

- Suvviacavalieri di Armavir! - gridò egli con vocetonante- il momento è venuto di dar dentro alle ordinanze nemiche. -

Alte grida rispondono al comando del re. I prodi d'Armavirlentate le redini sul collostrette le ginocchia nei fianchi ai poderosicorsieriappun­tate le frecce sulla corda degli archigaloppano. Quel trattodi strada che li divide dallo incal­zante nemicoè superato in brev'ora. Sitrag­gono in dispartefuggonosi rovesciano gli uni sugli altri i fantibabilonesinon potendo resi­stere a tanta rovina. Conoscono le amicheinse­gne i fiondatori di Vane calano solleciti al piano; dietro a loros'avanzano i montanari d'Urartiche portano punte di ferro innestate al sommodi lunghi bastoni.

Semiramidedall'alto del suo cocchio di guerraha veduto ilnembo di polvere che sollevano i cavalieri d'Armavir. Tosto comanda che la suacavalleria si divida in due ale e lasci aperta la via. Avanti i carri! Pesanticome sonomuniti di ferrea cuspide al sommo del timoneriusciranno più saldoostacolo all'impeto dei cavalieri aìcani.

E si muovono i carricon alto fragore vanno a dar di cozzoin quella mobil muraglia di petti anelanti. Ma gli Armeni hanno scorto da lungeil mutamento; sviano i cavalli e piombano sui latisi ristringono addosso aicavalieri di Balilonia. Dietro a loroapron le file i fiondatori di Vansistringono a densi manipoli i montanari d'Urarti; e quelli fan piovere unagrandine di sassi sui carri che passanoquesti fan selva di picche nei fianchiai cavalli. D'ogni parte è aspra la zuffa; si confondono gli ordinietrattenuti i carri nel corsoincomincia la strage. I cavalli feritis'impennano; questi infrangono il giogo; quelli ro­vesciano i carri; gli uniacciecativanno a rom­persi la cervice contro le ruote dei cocchi vicini; glialtrisbuffanticon erette crinieretrascinano morto l'auriga.

Così ridotti a mal partito i carri babilonesi (che pochipoterono aprirsi la via nelle schiere avversenè uno tornò più indietro araccontare il suo trionfo)si volsero i montanari di Urarti in aiuto delcavalieri di Armavir. Destramente rigirandosi in mezzo ai combattentisforacchia­vano il ventre delle cavalcature nemichetagliavano le cinghierecidevano i garretti; come tigri si scagliavano in groppasi avvinghiavano aifianchi dell'avversariolo trascinavano a terrasotto le zampe dei cavallientro laghi di sangue. Rottisbaragliati da quell'impeto non prevedutoimpossenti contro i feroci assalti di quelle belve rabbiosetentano iBabilonesi divincolarsi dalle strettee come possonoe quando possonosidànno alla fuga. Gridaurla selvaggiesono il cantico di vittoria della genteaicàna.

Cuoceva frattanto al buon principe Vasdag di rimanersene làinoperosoall'ombra dei pioppi. E i suoi soldatiudendo le grida dei compagniche sempre più si allontanavano per la valleincominciarono a dolersialtamente.

- I nostri incalzano il nemicogli dànno la caccia collespade nel tergoe noi resteremo qui senza gloria!..

- Ad udire le voci di trionfo che salgono al cielo!...

- A contemplare quei cavalieri sull'altra riva del fiume!...

- Que' simulacri di pietrache non si muove­ranno maipiù!...

- Pazienzamiei prodi! che farci? - diceva amorevolema nonmeno scontentoil principe Tarbazu. - Queste sono le sorti della guerra. Se noivolassimo laggiùdove il re nostro combattegli porteremmo inutile aiuto; efrattanto quelle squadre di cavalieriche mi hanno l'aria di farsi sempre piùnumeroseguaderebbero impunemente il fiume e piglierebbero i nostri valorosialle spalle. -

Laggiù frattantodove i soldati di Vasdag si dolevano dinon esserecontinuavanon più la pugnail macello. Ara infuriava nel mezzopari al Dio delle stragi. Ma finalmentevedendo sgom­berarsi il campo davantia luida capitano pru­dentefe' suonare a raccolta. Temeva egli infatti nonsi sbandassero i suoi nel tripudio del sangue e non si perdesse in tal guisa ilfrutto di quella vittoriachea dir veronon gli pareva anche sicura.

E ben gliene incolse. Difattiun nembo di pol­vere sisolleva da lunge. Sono i bianchi cavalieri di Beloche giungono alla riscossa.Trema la terra allo scalpito dei cavalli accorrenti; la nu­vola cresces'approssimapar l'uragano che ro­vinoso s'avanzi.

Ara comanda a' suoi di ritrarsi. Una macchia di arbusti dallaparte del fiumenasconderà in parte i cavalieri d'Armavir. I carri rovesciatidei Babilonesi faranno serraglia in mezzo alla strada; dietro essi staranno ariparo gli arcieri di Zikartui fiondatori di Vani montanari di Urarti.

Grida sinistre accolgono gli assalitorie una tempesta difreccedi pietre e globi di piombosi disserra sovr'essi. La prima frontedella sacra miriade è disfatta; sottentra la seconda ed egual sorte l'attende.Nuovo ostacolo fanno i cavalli caduti: altri s'impigliano tra le ruote deicarriinciampano nelle redini sparsestramazzano al suolo. La lotta a corpo acorpo ripiglia più acrepiù furibonda che mai; si calpestano i feritie sumonti di lacere membra i sopravvissuti combat­tono. È pugna di Titaninond'uomini della co­mune misura. Guaiscono i cadutibestemmiano i moribondiurlano gli incolumie si van pro­vocando mutuamente a battaglia. Con voce paria mugghio di tuonoBalsamil capo dei bianchi cavalieriva chiamando Aradovunquelo di­manda avversariogiura di tracannare il suo sangue. E l'ode ilre d'Armenia e tenta col ca­vallo di farsi strada alla volta del fiero Cussita.Ma in quel mezzoDicranu ha fatto rotar la sua fiondail sasso ha coltol'orgoglioso provocatore nel petto e lo ha trabalzato d'arcione. Svelto come unleopardosi cala Dicranu da un monte di ca­daveri e per mezzo ai cavallinemici corre ad im­padronirsi delle spoglie di Balsamseguendolonell'audacissima impresa i fiondatori di Van. Gli si attraversano i seguaci delcaduto: la mischia non è più per vincere da una parte o dall'altra bensì percontendersi la nobile preda. Per lungo tratto non si discerne più nulla in quelbrulichìo in quella confusionein quell'agitarsi disordinato di membra. Maeccofinalmenteappare Dicranu sulla groppa d'un cavallo; egli stringeacciuffata pei capegli la testa recisa di Balsam; la mostra ridendo ai compagniche gli si serrano intorno; cade a sua volta; un dardo ha fischiato nell'ariagli s'è ficcato nella strozzatroncandogli ad un punto i superbi dispregi e lavita.

Ara intantopoichè l'impeto della sacra miriade si èfrantocomanda ai cavalieri d'Armavir di uscir dalla macchia. Accorrono essi ecolgono le profonde coorti di fiancovi fanno per entro uno scempio. Rottecosì le ordinanzei montanari d'Urarticui il sangue ha reso sitibondisigittano alla carnificinacome stuolo di corvi rapaci. Orribile! orribile!

Belli ed alteri nelle candide spoglieerano ve­nuti igenerosi all'assalto. Niente resisteva al loro urto giammai; nelle convalli diElamsui campi di Bakdisulle rive dell'Indoque' fulmini di guerra avevanosempre sgominate e disperse le più va­lide schiere. Ed eccoquiin unastretta d'Armeniaimpacciaticonfusidovevano essi venir meno alla loro granfamaalle più grandi impromesse! Già non erano più una falange ordinata;sibbene una torma ciecaondeggiantelacera e pestaper entro a cuis'aggiravano belve con faccia umanamostri usciti dai regni tenebrosichesventravano le cavalcature e riversi li facevano cadere colle inutili armipertrucidarli nella mischiadirom­perli sotto le zampe ferrateaffogarli nelsangue.

Guatava dinanzi a sè la reginadall'alto del suo cocchio diguerra. E diceva intanto in cuor suo: o come non vanno più innanzi i cavalieridi Belo? come non hanno ancora sgomberata la via?

Bene ella sapeva forti guerrieri gli Armeniad essi propizioil luogo e ministro d'armi nuove il furore; tuttavia non s'aspettava una cosìga­gliarda resistenza.

- Per fermo- ella disse- il re loro com­batte laggiù.

- Sì certamente; - notò Faleguno de' suoi uffiziali-non si pugnerebbe con tanto accanimentodove egli non fosse a capo de' suoi.Ah! la sua testa è pocoa rifar Babilonia di tante vite mietute. -

Semiramide non rispose parola a quella acerba considerazionedi Faleg.

- E i miei cavalieri- gridò ella invece- morranno cosìsenza che io sia con loro e corra gli stessi pericoli?

- Possente regina- entrò a dire un altro dei suoi- losguardo tranquillo ed onniveggente del duce è necessario alla comune salvezza.

- Ah! così pure avranno parlato a lui le ti­mide lingue de'suoi consiglieri. Cionondimenoegli è nella mischiacome l'ultimo de' suoicom­battenti. OrviaFaleg; sian pronti gli elefanti ad ogni occorrenza; noiora andiamocorriamodove si pugna per noi. -

Si mosse il cocchio regalerapidamente trasci­nato da ottogenerosi corsieriverso il luogo del combattimento. Ma l'esito non rispose aivoleri della regina. La sacra miriade era respinta e i fuggenti travolsero ilcocchio nella ritiratainvano chiamatiinvano ripresi dalla voce diSemiramide. Tutto intorno a lei era un indescrivibil tumulto; ca­valli senzacavaliereanelanti fuggivanocon le viscere penzoloni fuori dal ventresquarciato; altriimbizzarritisi traevano dietro il morente signoreco'piedi impacciati nella staffa; molticompresi d'alto spaventovolgevano alfiumequasi temendo di non essere più in tempo ad evitar l'urtodell'in­calzante nemico.

La regina guatò un istante con torvi occhi quello stuolo difemmine imbelli; indicomandò che gli elefanti uscissero a lor voltaprotettida quanti uomini rispondessero in quel punto all'appello.

- Avantiorsù! - gridava la fortissima donnachegiàdiscesa dal cocchioera balzata a ca­vallobrandendo il suo giavellotto. -Avantige­nerosa prole degli Accad! Ricordate che tributari vostri furonosempre questi montanari orgogliosie che voi siete i vincitori del mondo! Eradifficile il passo; ecco perchè i nostri cavalieri hanno do­vuto piegaredavanti ad un pugno di mandriani armati di fionda. Animovia; non fate cheridano di voi le donne di Armavirtorcendo il fuso nelle veglie invernali!Vedete! Già calano le nostre migliaia dai monti; appariscono dal sommo deipoggi: scenderanno tra breve a ruina. Ancora uno sforzo. valorosi Cussitie lavittoria è per noi! -

La battaglia è al suo momento supremo. I prodi Armenis'inoltravanoirrompevano sul pianocome gonfio torrente che abbia rotti isuoi ar­gini. Ma ad un tratto i cavalli si arrestanonitri­sconos'impennanosbuffanonon sentono più lo sprone dei cavalieri. Che è ciò?Negre moli si affacciano sulla strada. Son gli elefanti; nuovi arnesi di guerrache Semiramide ha condotti seco dalle rive dell'Indo. I montanari d'Aiasdan nonhanno mai combattuto contr'essi.

Accorrono sulla prima fronte e scagliano dardi gli arcieri diZikartu; macontro a quei colossi coperti di ferrofanno mala prova glistrali. S'inol­trano minacciose le negre molie il valore aicàno è di belnuovo arrestato a mezzo il suo corso.

Il re d'Armenia volge lo sguardo all'altra riva del fiume. IMediaccalcati colànon danno segno di volersi muovere ancora. Tosto eglimanda messaggi a Vasdag. che tolga dalle sue file quanti più uomini puòsenzasuo nocumentoe li avvii lunghesso la sponda destra del fiumeper cogliere glielefanti di fianco. Egli intanto fa testa co'suoi: ma invano. Gli smisuratianimaliincitati dagli spiedi de' guardiani che siedono loro sul collogaloppano contro le sue schiere mal fermescuo­tono gli orecchilarghi comeali di enormi vipi­strelli; cogli acuti barriti sgomentano i cuori più saldi.

Qualche freccia più fortunata si ficca tra le giunture deipettorali di ferro; ed essi colle curve proboscidi strappano le canne innocentile gittano sul volto ai nemici. Stizziti dalle punturesi scagliano entro lefilementre dall'alto delle torri che recano in groppaguerrieri babilonesiscara­ventano sabbia e bitume infuocato. I larghi pettimuniti di spronegiàsono addosso ai cavalli; come prore di navi fendono il marecosì essi lacalca; e intanto le proboscidi guizzano in ariascendono nella mischiaafferranostrizzanolan­ciano in alto le vittime. Pallidiesterreffattiisol­dati armeni danno le spalles'incalzan fuggendo davanti ai negri colossi.

Infiammato di sdegnocoi primi che gli giun­gono in aiutodalle schiere di Vasdagil re d'Ar­menia fa impeto nel fianco dei mostri. Ipiù au­daci de' suoi si cacciano sottotentano di strappare le cinghie chetengono ritte le torridi tagliare i garretti e di squarciare il ventre allebelve. Un elefante cadema schiaccia nella caduta i suoi uccisori. Avanti!avanti sempre! Un altroper mano del reha recisa la proboscide ed agitaur­lando il moncherino sanguinolento; infuria coi denti d'avorio e trafigge chinon è pronto a can­sarsiindi si volta indietromette a scompiglio le file.Sollecito il guardianoperchè non abbia a recar danno maggiore tra' suoisitoglie da fianco un lungo scalpello eappuntatelo sulla giuntura della cervicetanto vi picchia su col maglio fer­ratoche spezza il cranio e fa stramazzarl'ele­fante

Macaduti quei duealtri molti ne restanoe menano strageall'intorno. Per colmo di sventuramentre gli arcieri di Tarbazu cercano difarsi più innanzisi abbattono nelle macchineche la regina ha fatto avanzarprontamente di costa agli elefantie sono sfolgorati da una pioggia di fuoco.

Oramentre il grosso delle forze aicàne è ar­restato daquei baluardi animati e da quelle mac­chine che scagliano fuocoSemiramide èsalita sopra un'eminenzaper abbracciar d'uno sguardo l'intiero campo dibattaglia. Dalla tenda di Ara infino al luogo ove s'infrange l'inutil valore delrela pianura è seminata di stragema liberavuota di combattenti; soltantole schiere di Vasdag sono visibili là in fondodalla parte del fiumeimboscate all'ombra dei pioppi. Poche migliaia d'uomini stanno ancor dietro letendealla guar­dia del campo aicàno.

Il momento le sembra opportuno per mandare ai Mediai Persiagli Ariarviil segnale stabilito. Un dardo acceso fischia nell'aria e va acadere nel mezzo del fiume. Tosto quel fitto stuolo di cavalieri si muoveaffretta al guadosotto gli occhi di Vasdag.

Un nembo di frecce accoglie il movimento dei Medi. Ilprincipe di Tarbazu non ha voluto perder tempoe i primi che si sono perigliatinell'acquavi trovano tosto la morte. Si allegrano nel pro­fondo del cuore idestri arcadorie raddoppiano i colpi. Mapur troppoessi non basteranno aimpedire il passaggio. Vasdagal cui vigile oc­chio nulla sfugge di ciò chesi tenta sulla riva sinistraha veduto che i Persi e gli Ariarvi si dispongonoa guadare in altri due punti l'Eufrate. Non si smarrisce d'animotuttaviaemanda in­contanente per le riserveraccolte dietro alle tende; le guida eglistessoappena giuntele col­loca ne' luoghi più acconcilungo la destra delfiume.

- Guerrieri d'Aiasdan! - egli grida. - Qui bisogna farl'ultimo sforzoe con quanto vigore ci è dato. Noi non avremo più patriasenon ri­buttiamo gli assalitori nell'onde. -

Aspro è il combattimento: i soldati di Vasdag fanno prodigidi valore. Ben sette volte i cava­lieri nemici afferrano la spondae settevolte son respinti nel fiume. L'Eufrate è sparso di cadaveri. Nei luoghi ove illetto è meno profondo e più facile il guadosi ammonticchiano gli uni suglialtri i cadutifanno argine alla correnteche in­torno ad essi ribolles'innalza flottando e stra­ripa.

Da due ore il sole avea varcato il meriggio; nè cessavaancora lo strepito dell'armiil clamore dei combattenti. Per quanto era lungala valledai poggi di Ajotzor alla collina di Kerezmancla quale signoreggiavail luogo dello azzuffa­mento tra il re d'Armenia e le macchine babilo­nesinon era più un breve spazio di suolo che non fosse coperto di cadaveriod'armi infranteo di lacere membra; e un odor crasso di sangueun leppoarsicciomisti ad una nube di polveresalivano alle nari.

Un messo del re giunge galoppando e chiede nuovi aiuti aVasdag.

- Che avviene egli laggiù? - dimanda il vec­chio soldato.

- Che intorno agli elefanti- risponde il messo- abbiamoperduto il meglio dei nostri; che la via sulla riva del fiume è sbarrata dallomac­chinevomitanti fuoco; che non possiamo romper la diga nemicase nonabbiamo sussidio di gente fresca e animosa.

- Non è ferito il re? - chiese Vasdag.

- Nograzie sien rese agli Dei.

- Sta bene. Va alle tende di Ajotzor; ancora due migliaiad'uomini rimangono a noi. Pensavo di chiamarli ioa custodia del fiume; -sog­giunse sospirando il vecchio guerriero; - ma che farci? Li abbia il recheforse ne ha maggior bi­sogno di noi.

- Che debbo io dirgli di te? - chiese il messogià in attodi partire.

- Che il vecchio è alla meta del suo viaggio sulla terra; -rispose Vasdag- chequalunque cosa avvenganessun Medo potrà vantarsimevivod'avermi vedute le spalle. -

Ciò dettoil buon cavaliere si allontanò verso la rivaper respingere un nuovo assalto dei Medi. Ma ormai l'impresa era superiore alleforze de' suoi. Durò a lungo lo scontrosulla riva contra­stata; finalmenteperduto gran numero dei loroi nemici giunsero a piantarsi saldamente sulgreto; e fu libero il guado.

Vasdag non sopravvisse alla rotta. Slanciatosi col cavallonella schiere' dei Mediebbe morte de­gna di sècombattendo da fortecoll'ultimo colpo della sua spada fendendo l'elmo e il cranio del capitanonemico.

Accesi di sdegnofuribondisi gettarono i suoi nellamischiaper difenderne il corpo e vendi­carne la morte. Fu lotta disperata;bisognò ucci­derli tuttiad uno ad unoe l'impresa fu lunga e difficilecostò ai vincitori gran sangue.

Così mantenne la sua fede Vasdagil vecchio principe diTarbazuche è sulle rive dell'Eusino. Esperto condottiero d'esercitierastato compagno ad Aràmonelle sue guerre fortunate contro i Medi e i Turani;d'onde aveva meritato d'esser secondo nel reamee incoronatore dei red'Ar­menia. Epperò a lui era concesso portare la co­rona fregiata digiacintidue orecchiniil calzare rosso ad un piedee il diritto altresì dibere in coppa d'oro. Biondo in giovinezza i capeglicolo­rito il visogliocchi grigirobusto le membralargo le spalleil piè bello e saldo allefatichefu sobrio sempre nel bere e nel mangiarenei pia­ceri temperato. Perlungo ordine di secolii me­mori poetia suon di cembali lo cantaronprudentemoderato nei desideriipieno di sennoelo­quenteutile in tuttigli umani negozi. Sempre giusto nelle sentenzepesava con bilancia a tuttiegualesenza studio di partigli atti d'ognuno. Non invidiava ai grandinè ipiccoli sprezzava; non altro voleva che stendere su tutti il manto dellesollecitudini sue.

Ignaro della fine di Vasdagma udendo le grida di vittoria enotando l'affrettarsi dell'ala destra dei Babilonesi nel passaggio del fiumeAra me­ditò un ultimo colpo; sforzare il passonon più dove infuriavano lemacchinema dall'altro latodove sorgevano le colline. Scelti a tal uopo ipiù animosi dei suoisi condusse a volo verso le alture. Lo seguirono primial sommo di un poggioBaredlo scudiereSumati ed Abgàro; Abgàro che pellungo combattere vedevasi lordo la bianca tunica di sangue e di polvere.

- È questo il colle- disse con accento d'amarezza ilcantore- d'onde il fortissimo Aìco saettò l'orgoglioso Titano. Vedio re;quello che ci sta dinanzi è il poggio di Kerezmanc. Colà noi dobbiamogiungerecalarci di làpiombare alle spalle di quei luridi cani! Ma che vedo?O m'in­gannoo il duce dei Babilonesi è lassù. Destro arcieresuvviachènon adatti uno strale alla corda e non gli mandi il saluto della morte? -

Trascinato dalle aspre parole di Abgàroil re impugnòl'arco e si fece a togliere la mira. Dal poggio di Kerezmanc il suo aspetto fuconosciuto e l'atteggiamento notato.

- Ah! - gridò Semiramide. - Lui! -

E spronato il cavallosi avanzò imperterrita sul ciglionead attendere il colpo.

Faleg e gli altri che l'accompagnavanoveduto il pericolo acui ella si esponevafurono solleciti a correreper farle scudo colla loropersona. Ma la fortissima donna li rattenne con un gesto im­perioso.

- Non ardirà! non ardirà! - soggiunse ella posciacon unaltero sorriso.

E stette immobileguatando il suo avversario; ben lieta elargamente vendicata di luise avesse potuto scorgere il tremito che gliinvadeva tutte le fibre in quel punto.

Rimase egli incerto un tal pocoquasi volesse aggiustar lamirae sperimentare la tensione della corda. Ma questa per fermo non dovevaessere la cagione dell'indugiopoichè tostocon atto di­speratogittòl'arco e lo strale lungi da sè.

- Non posso! - gridò egli. - Non posso!

- Ma potrò io! - disse Abgàro.

E raccolse l'arco da terra. Il re lo rattenneche già stavaper poggiare la cocca sul nervo disteso.

- Nonomio vecchio Abgàro! A qual prò? -

Abgàro lo guardò trasognato; indicome par­lando a sèstessoacerbamente rispose:

- Ah! invero nessuno saprebbe più tender l'arco di Aìco. Manessuno ama più la sua patria come il figliuol di Thogarma. Gli occhi d'unamaliarda hanno virtù perniciosa su noicome quelli del serpe. Ohdimmi ciòche vorraire d'Armenia; - soggiunse il vecchio cantorenotando il cor­ruccioche balenava dagli occhi del giovane; - uccidimise t'aggradae togli un altrosoldato alla misera terra dei padri.

- No; - rispose gravemente Ara; - io nol farò. Risponderòinvece al tuo cieco amore di pa­tria che questo inutil colpo contro una donnapo­trebbe aggravare la sorte del popolo nostroche non avrà più noi perdifenderlo. -

Nulla rispose il vecchio; ma un amaro sorriso d'incredulitàgli sfiorò le labbra; e fu risposta peggiore. Trasse indi la spada; gittò laguaina al bassodove in quel punto si vedevano apparire i nemicie giù dilanciocome se avesse al piede le ali della giovinezzasi scagliò incontroalla morte.

- Tu solo? - gridò il recon accento dispe­rato. - VecchioAbgàronon disprezzare i gio­vaniperchè essi hanno un cuore e non amanocombatter le donne. -

E impugnata la sua larga spada a due tagliavanzò perseguire il vecchio sdegnoso.

Ma in quel mezzoAbgàro cadeva. Una torma di arcierisbucava da un colmo di arbustisulla destra degli Armeni. Erano i primi checalavano dai monti. Non che la fronte dell'esercito aicànogià più non eransicure le spalle. E il medesimo accadeva dall'altra banda del fiume. Quellaparte dell'esercito babilonese che davanti al passo di Lukdi avea piegato adestraverso le sorgenti del Tigriper inaccessi e mal guardati sentieririu­scita era alle spalle di Aiotzortagliando la via di ritirata versoArmavire piombando sulle tende del campo di Arainnanzi che i Medii Persi egli Ariarvi avessero distrutto gli ultimi avanzi delle schiere di Vasdag.

Il re d'Armenia non vide la morte di Abgàro. Egli era appenaa mezzo del declivioche una freccia lo colsepenetrando là dove la corazzasi allacciava alla gorgiera. Sul punto non s'era avveduto di nullaattribuendola caduta all'aver posto il piede in fallo. Senonchètentando di rial­zarsisentì una trafitturacome un bruciore al sommo del petto. Recò istintivamentela mano colà e trovò la canna infissa nella giuntura; la strappò con violenzae un umor caldo gli spicciò sulla mano. Era sanguee appariva copioso.

- Ahgrazie! - esclamòalzando al cielo le pupillesmarrite.

E ricaddema non più sul terrenobensì tra le braccia diuno de' suoi. Riaperse gli occhi a guar­darloe riconobbe Sumàti.

- Santo vecchio- diss'egli con voce spenta- che avvienedi noi?

- Mio dolce signore! - rispose amorevole e triste l'Indiano.- Scendono innumeri schiere dai monti; già ci romoreggiano da tergo.

- E il fiume?

- Guadato!

- Ah! É dunque morto Vasdag. Povero amico! Povera terrad'Aiasdan! Uccidimite ne pregoSumàti! Toglimi ai miei rimorsial miodisonorefiniscimi! -

Sospirò profondamente il vecchio Sumàtie chiuse gli occhicome per raccogliersi nei suoi dolorosi pensieri. Anch'egli sentiva il rimorsoche gli lacerava il profondo dell'anima.

In quel mentre s'avvicinavano a passi concitatie ferocinell'aspettoi nemici.

- Rattenete le armi! - gridò Sumàtipoichè li ebbe vedutisalir minacciosi per l'erta. - È il re d'Armenia ferito. Oscuri soldatiardirete dar morte ad un re?

- Ah! - sclamarono giubilanti i guerrieri. - Il re d'Armenia!il re prigioniero?

- Non si uccidapel dio Nergal! non uc­cida! - gridò ilcapitanoaccorrendo tra i primicolla spada sguainata. - Arrendetevifiglid'Aìcoe giù l'armio tutti pagherete col vostro sangue ogni scalfittura chetocchino i miei. -

Erano in piedi sul fianco del poggioSumàtiBaredSempade pochi altri guerrieri aicàni. La resistenza sarebbe stata impossibile;posarono le armi.

- Dobbiamo prenderlo vivo; - proseguiva il capitanoparlandoa' suoiche s'erano fatti in­torno al ferito. - La regina ha promesso un lautopremio a chi le condurrà vivo il nemico. E siete voivoiuomini di Birtulacittà bianca sul montei fortunati!

- Gloria a Birtu! - gridarono i soldatile­vando in ariagli archi e le spade. - Gloria al paese di Libnandove sorgono i cedri!

- Il vinto re farà bello il trionfo alla possente signoradegli Accad; - dicevano alcuni di essi. - Pagherà egli il fio di tante migliaiadi uomini che questa orrenda giornata ci costa.

- Che farà di lui la regina?

- Lo darà in pasto ai leoni.

- Lo farà configgere con chiave di rame nella fronte alleporte della sua reggia. -

Così semivivoil re fu adagiato sull'erba. Su­màtiscioltogli prestamente l'usbergogli veniva astergendo la ferita; e con unafasciache s'era tolta dai fianchis'apparecchiava a stringere il sommo delpettoperchè il sangue stagnasse.

Intanto Semiramidediscesa dal colle di Kerezmancaffrettava il cavallo lassù.

- Vivo! - gridarono i guerrieri di Birtumuovendoleincontro. - Possente signoraegli è nostre maniil tuo crudele nemico. -

La reginasevera in voltoaccigliatacome chi si sforza dinascondere la tempesta dei contrari affetti che gli freme nel cuorecomparvesul luogotra le grida e le acclamazioni delle sue schiere affollate.

Sumàti torse le ciglia da leiripugnandogli di vedere suquella fronte la gioia dell'ottenuto trionfo. Ma vide in quella vece Baredloscudiereil fido di Arache gli stava tutto confuso e tremante da lato.

- AhBared; - susurrò nell'orecchio all'Armeno il vecchiodella Triade. - Tu lo vedi? Il tuo tradimento ha perduto l'Armenia; ha perdutoil suo re. -

Un singhiozzo venne a morir sulle fauci di Sared.

- E tu? - diss'egli di rimando.

- Io? - sclamò il vecchio. - Io non ero de' vostrinèconoscevo quel nobile cuore. Ma orami assista l'Eternoio salverò la suavita.

- Che vuoi tu fare? Tradirci? - balbettòim­pallidendol'Armeno.

Sumàti crollò alteramente le spalle e non gli rispose cheuna sola parola: - codardo! -

La vittoria di Ajotzor era stata piena ed intiera. Saviamentescelto il campo di battaglia dall'eser­cito aicàno; ma egli sarebbe bisognatoper vin­cereche il re d'Armenia avesse avuto più genteper custodire lasinistra riva del nume e asser­ragliare le gole circostanti. Non erano inquella vece che cento migliaia di valorosi; valorosisì certodappoichètutti giacevano sul campo. Po­vere donne di Aiasdan! esse non dovevano piùri­vedere gli amati.

Le perdite dei Babilonesi erano gravi; si potea noverarle adocchi veggenti. Duecento migliaia tra morti e feriti; la sacra miriadedistrutta; po­che centinaia i superstiti.

Il vecchio della Triade s'era ingannato. Semiramide futristeassai tristequel giorno.

 

CAPITOLO XVIII.

 

 

IL TALISMANO.

 

 

Il dì seguenteche fu il settimo di Garmapada (così ilcostume dei popoli medo-ariani; ma presso i Caldei era detto Tanao mese delfuoco)l'eser­cito babilonese entrava in Armavir.

Profondo squalloresilenzio di tombaaccolsero le schieredei vincitori nella capitale dell'Aiasdan. La maggior parte del popolodonnevecchi e fan­ciulli (che d'uomini acconci alle armi già non ve n'era pur uno)avevano presa la fuga all'avvici­narsi del nemico; e sconsolati per la mortedei loro dilettipiù sconsolati per l'eccidio della pa­triaquali tementi leorrende vendette del vinci­torequali rifuggenti dal solo pensiero di doverlovedere orgoglioso ed insolente padrone in mezzo alle vie della loro cittàs'erano rifugiati sulle montagne d'Urartiche tale avea nome presso gli Armenila catena dell'Ararat. Non rimanevano nella città che i decrepitigl'infermii mendichi.

Colpita da quel doloroso aspetto della città prin­cipaleevolendo con esempio di magnanimità chetare gli spiriti nell'altre provincie delregnoSemiramide inviò pronti messaggieri ai fuggiaschi. Tornassero senzatimoreliberi nella loro tri­stezza. Bene ella sapeva non esser tra lorouo­mini validi al maneggio delle armi; per altronon voler prigionierisalvoi pochi fatti in battaglia. Bastarle la sua piena vittoriale spoglie e itributi di guerra. Aggiungevanon sarebbe torto un capello ad alcuno; sè esserdonna e voler rispettate le donne dei vinti. Tornassero adunque: sa­cro allagente degli Accad il dolore di un popolo soccombente; Belo e tutti i sommicustodi di Babilonia non esser gelosi del culto che alle loro deità avrebberoliberamente seguitato a prestare gli Armeni.

Generose parolea cuine' feroci tempi di al­loranonerano avvezzi per fermo gli abitanti delle soggiogate contrade. Insolite erano;parvero soverchiamente umaneincredibili. Ma i messaggieri della clemenzaportavano in pegno di loro sincerità il suggello di Semiramide; liaccompa­gnavano alcuni superstiti di Ajotzorche giura­vano di avere udite lesante promesse dal labbro medesimo della possente regina. Credettero ide­relittie a lenti passicome chi sa di non andare a lieto ritrovofinalmente tornarono.

Intantoalle città e provincie più lontane del regnoaTarbazuche è sull'Eusinoa Sarda e Zikartu sui confini d'orientea Mildis ea Masciag dove il sole s'ascondeerano spedite numerose coortiper levartributi e recar provvigioni all'e­sercito. L'orole gemmele pelli preziosei viveri e quant'altro chiedevano i superbitutto fu dato in silenzioprontamentecon quella severa alterezza che sdegna di piatireo d'implorarecondizioni più miti. A che contendere del più o del meno cogli oppressori?Comunque fossenon esisteva più Armenia.

Purela gran donna non meditava di sogget­tare la vintacontrada all'impero. Più giusto sa­rebbe il dire che nessun concetto avevaella ancora in mente formato. S'era chiusa nella ròcca di Vanrupe foggiatadalla natura a baluardosull'acque salse del lagocosicchè poco aveva dovutoaggiungervi l'arte degli uomni. E là rinchiusamostravasi a pochi.

Il suo ferito nemico era in una camera appar­tata dellaròccae vegliavano al suo letto indovini Caldeiesperti di farmachi e di erbesalutarii quali seguivano sempre l'esercito. Sumàties­sendo stato fattoprigioniero insieme col reaveva potuto seguirlo fìn là. Baredmalsopportando l'aspetto dell'Indianoe lacerato dal suo rimorsoera andato aconfondersi cogli altri prigionierispiando con animo intento una occasione difuga.

Egli non si sarebbe detto per fermoal vedere l'aspettodesolato della ròcca di Vanche fossero vincitori i suoi ospiti e giornid'allegrezza per le schiere babilonesi. Una nube di atra mestizia in­combevasul luogo; triste e taciturna la regina; pensierosicome fastiditii suoiuffiziali.

Dicevasi nei sommessi parlari che il negro umore della reginaderivasse dalle gravissime perdite che aveva toccate l'esercito. La distruzionedella sacra miriadein particolar modoe la morte di tanti prodicongiunti disangue alla casa di Nemroderano invero cagione di alto dolore non che per leiper tutti i guerrieri di Kiprat Arbatveri sostegni dell'impero degli Accad epar­tecipi alla sua smisurata fortuna. Tanto sangue sparsoe del migliore diBabilonianon era egli un argomento di profondo rammarico? ma comealtresìecon che inusitato rigorenon avrebbe fatto Semiramide le sue vendette e quellede' suoi nella progenie d'Aìco! Certoquel cupo silenzioil lampo sinistrodegli occhi regalipromettevano tempesta. Bene doveva egli risanareil vintore degli Armenima per abbellireentro le mura di Babiloniail trionfo dellapossente regina e pa­gare il fio di tante nobili vite mietute. Tale era ilcostume degli Accad. Mozzata la lingua a chi aveva spergiurato la sua fede;tronche le mani che avevano impugnate le armi della ribellione; cavati gliocchiche più non erano degni di vedere la luce di Belo; questa sìquestaera la sorte dell'orgoglioso Aicàno.

Frattantoegli giaceva nel suo letto di dolore. Stremato diforze e non al tutto ritornato in sè medesimoegli non aveva ancora aperte lelabbra a parlare. Hurkiil capo degli eunuchi regaliera quasi sempre nellacamera del feritoe ad ogni tanto ascendeva alle stanze della regina perrecarie notizie di lui. Ma erano tristi nuovee poco ancora l'una dall'altradissimili. Era sfinito il garzonepel molto sangue perduto; gli ardevano lemembra per febbre; il senotutto intorno alla feritatumido sempre einfiammato. Cibo non vo­levanè conforto; i farmachi apprestati dal Casdim astento gli erano ministratie non da altri fuor­chè da quel suo vecchiofedele. Gli attii moti incresciosi del voltomostravano l'interno fasti­diod'ogni cosa e di sè; la vita che gli rimanevaparea volesse comprimere nelprofondonella speranza di soffocarla e di sottrarsi al suo fato.

Ciò turbava sempre più la regina. A notte colmatuttachiusa nel suo manto brunoscese furtiva­mente la scala internache mettevaalla camera dell'Armeno. Nessuno vigilava colàtranne Hurkiche ravvisò lasua signora e fu pronto a ritrarsi nelle stanze attiguedove gli altri siristoravano con poche ore di sonno.

Un fioco lume rischiarava la cameralasciando il letto delferito in una mite penembra. Ara mo­strava il petto scoverto; ma una largabendaad­doppiata intorno al toracenascondeva la piaga.

La regina si avvicinòdal lato dell'ombrati­randosi sulvolto i lembi del velo. Colàritta dac­canto alla proda del letticciuolostette lungamente guardando. Il cuore le palpitava forte nel seno; gli occhimettevano lampi di sotto alle ciglia con­tratte; aspra battaglia di pensieri letravagliava lo spirito.

Egli era làil traditoreil leggiadro stranierocosìfacilmente impadronitesi di lei nel sacro bo­sco di MilittaAra il belloilbenvenuto alla reg­gial'ospite inebriatoche celava la perfidianel­l'anima! Egli era làil superbo dispregiatoreil primo che l'avessemortalmente offesaleila si­gnora del mondo! Egli era là finalmenteiltribu­tario ribelleper cui tante migliaia di guerrieri avevano incontrata lamorte; il ferocel'immemoreche aveva osato tender l'arco e toglier di mira uncuoregià da lui con più crudele arma ferito. Destro e audace a colpirla nelpiù intimo degli affettinon gli era bastato l'animo a squarciarle il seno inbattaglia! Ellauna donnaera stata più intrepidapiù fortepiù generosadi lui. Però giusti gli Iddiied ella vincitrice a buon dritto: egli làvintodisonoratomorente forse!...

Si accostò al suo capezzale. Il ferito dormiva d'un sonnogreveaffannoso. Allungò peritosa­mente la mano su lui. La fronte gli ardeva;grosse stille di sudore bagnavano le tempierapprende­vano i capegli. Tremòtutta a quel toccoe ritrasse la mano.

- Ma che gli ho fatto io? - mormorò nell'angoscia del suocuore. - Perchè è egli fuggito? Perchè m'ha fatta vergognar di me stessa? Èorribileorribile! E m'odia eglidopo avermi sprez­zata. Io ho saziata lacollera mia; non l'odio più: l'ho mai odiato? O Milittao protettricem'avraitu condannata per sempre? E sia; ma io darei me stessail mio regnola miafama nel mondotutto dareiper l'attener questa vita che gli sfugge dal seno.-

Così dissepiangenteperduta dell'animo; e tratta dallapiena del dolorecadde ginocchioni dac­canto a luilo baciò d'un baciosommessoma intensoma lungobacio di donna amante che tutta all'amor suo siconcede.

- Risorgiadoratoesclamò- ed odiami pure! -

I singhiozzi potevano tradirlarisvegliare il so­pito. Sitolse prontamente di làe andò a rica­dere dietro lo stipite dell'uscio percui era venuta. Si vergognava del suo piantola possente reginalasventuratissima donna. Purequelle erano le più nobili lagrime che avesse maiversato creatura mortale.

Inginocchiatacolle palme tesepregò.

- Anuo soccorritoretu che dài la costanza ed esaudiscile precinon allontanare il tuo sguardo da me. Belpadre supremoche temprilo scettro ai regnanti; Auvguida e custodesignore del mondo; Nisrocchegoverni le unionisignor dei misteri e re degli abissi inesploratiascoltatemi. Samo reggitore del cielo e della terratucui ho innalzato untempiofacendolo splendido come il tuo astrocoll'oro di cento popoli vinti;Adartu che sperdi ogni resistenza; Nergalche hai data a me la vittoria dellaspada; Neboo sapientissimoche leggi nel profondo dei cuori come nell'immensodei cielinume pietosoche risani e conforti; uditemi voisoccorretemiperl'amore delle vostre spose immortali; date voi luce e forza al mio spiritorisollevatemi voifate che que­st'uomo non muoia; o uccidetemi con lui! -

Confortata dalla preghiera e rasciugate le la­grimetornòancora la misera donna al letto dell'amatoe lui baciò in fronte più volte.

Ma in quel puntoo fosse che la presenza di leiavvertitanel sonnoriscuotesse il feritoo ch'egli altrimenti dolorasse per la medesimaacer­bità della piagail supino mosse la testa sul guanciale e diede ungemito fioco. Temè ella non si destasse d'improvviso e la vedesse inquell'atto; però fu pronta a ritrarsieravvoltosi il manto sul capocon unpasso leggiero s'involò dalla camera.

Quella visita l'aveva spossata. Il sonno discese sulle suepalpebre; ma fu sonno affannosofeb­brileturbato da dolorose visioni.

Sognò che l'uomo diletto era presso a moriree che a leisola era dato di camparlo da morte. Ma come? Facendo sua la sorte del giovanepar­tecipando alla sventura di lui. Ara aveva perduto il suo regno; anch'elladoveva perdere il suo.

La regina possedeva una negra gemmacon caratteri incisid'una lingua sconosciutaintorno ai quali il più dotto dei Casdim avevaaffaticati vanamente gli occhi e l'ingegno. Quella piccola pietratondalevigata ed opacaera dono della sacerdotessa di Dercetoin Ascalona; diquella severa e malinconica sacerdotessa che l'aveva educata presso di sèedamata a guisa di figlialei oscura bambinaraccolta sui gradini del tem­pio.Per anni ed annila ignara fanciulla aveva creduto che quella donna fosse suamadre. Ma un giorno le avevano detto che ciò non era; chegiovanissima ancoraAstarte era stata consacrata agli altarie di madre non aveva per lei chel'af­fetto.

Ora il dì che Semiramfatta sposa a Mènnoneusciva daltempio di Dercetola mesta sacerdo­tessa l'aveva chiamata a sèe dopo averlalunga­mente stretta al suo seno e bagnata delle sue la­grimecosì s'erafatta a parlarletogliendosi quella negra gemma dal collo:

- Arcani caratteri sono incisi su questa pietrao figliuolae d'alta virtù l'hanno dotata gli Dei. Essa custodisce dai pericoli ed esaltachi la pos­siede. Io non l'ebbi che tardi! Ma non mi esaltanon mi giova ellaforsepoichè tu l'avrai nell'uscire di quie la sentenza della tua vita nonè ancora impressa nelle tavole del destino? In te io rivivoo Semiram; in teche io amaicome se tu fossi carne della mia carne e sangue del mio sangue. Tuabbila caracustodiscila gelosa­mente; essa ti recherà ventura in ogni cosache imprenderai; donna d'umile statoti renderà fe­lice nelle paretidomestiche; salita ad alte fortuneti guarderà dai rovesciti conserveràciò che avrai per essa acquistato. -

Nè la promessa era stata fallace. Non lieta ne' suoiaffettiSemiramide avea pure ottenuto quanto a creatura mortale è dato diconseguirenella prosperità delle imprese e nella altezza del grado. Iltalismano si chiariva acconcio alle grandi am­bizioni. E ad esso ascriveva laregina il suo con­tinuo inoltrarsi di trionfo in trionfola felicein­trapresa di Bakdiil diadema regalela gloriai popoli vinti e raccoltisotto il suo scettro potente. Tuttocome signora di gentierale andato aseconda; quel talismano l'aveva preservata nei pe­ricoliesaltata nelleprosperitàsottratta quasi alla legge delle umane vicende.

Peròin ogni impresa a cui s'accingessesoleva la reginaportare la negra gemma sospesa al colloincastonata nel mezzo ad un monile diperle. E quel talismano le venne mostrato dal sogno. - Gittalo in mare! - lebisbigliava una voce arcana. - Tornino le perle alle conchiglie natali; torni lapietra a confondersi coi negri sassolini del fondo. Tu pure tornerai donna intutto simile all'altre. Forse la sorteche ti fece avven­turosa sul tronosimuterà; ma per fermo avrai fatto felice il tuo cuore. Essere ogni cosa non èdato ai mortali; o il regnoo il tuo diletto; o la possanzao l'amore. -

Ed ella non esitava pure un istante. Toltosi il monile dalcollocon pronta mano lo gittava nei flutti. Con quelle perle s'inabissava ne'gorghi la sua fortuna; ed ellasereno il cigliol'avea veduta perire.

Eccoad un trattotremava sui cardinisi sfa­sciava ilsuo fortissimo impero. - Regina- di­ceva un nunzioaccorrendo ansioso conocchi smarriti- il re di Mesraim vien meno alla fede giurata e aduna le sueschiere contro di te. - Regina- soggiungeva un secondoancora lordo di sudoree di polvere- i popoli del lontano occidente hanno occupate le tue isoledistrutte le tue colonie; già scendono alle spiaggie di Martudonde finoraimperasti felice sui mari. - Reginail tuo regno è caduto; - gridava un terzopian­gendo; - i Medi e i Persiribellaticalano dalle montagne; il tuopopoloil tuo popolo fedelesi è collegato coll'inimico e gli ha dischiuso leporte. -

Frattantonegli oscuri penetrali del suo pensieroun'ombracrescevasi condensavaassu­meva umane parvenze. Avea volto a lei notoquelsinistro fantasma: eppure in quella negra barbain quella fronte spaziosainquegli occhi profondiella non sapeva più discernere il ricordato sembiante.Ma poco lungeseduto sul trono di Nemrodil figliuol suol'amato suo Niuiare­gnavae una gran luce di contentezza era diffusa sul volto adolescente; maArail diletto del cuor suonon posava già più sul triste giaciglio; ma unarosea nube li accoglieva ambedueli alzava da terrali portava con soavissimoimpulso per le vie dello spazio. Candide colombevolate infino a loro dalrecinto sacro a Milittaguidavano la rosea conca perlatasu cui riposavanoessi l'uno nelle braccia dell'altro.

- Ohquanto io t'amo! - le susurrava eglibaciandole ilviso e colle dita errabonde accarez­zando le sue morbide chiome. - Odiai lareginama amoho sempre amata la donna. Atossamia divina Atossaperdonami;sorridimio diletta; io son tuo. -

Un senso d'inusitata dolcezza le corse per tutte le fibreaquelle soavi parole. Ella era felicein­tensamente felicecom'era stataun'ora sola in sua vita.

Si svegliò in quel mezzoe per le ciglia semi­chiuse leapparvero i primi chiarori dell'albache tingevano d'azzurro le nevose vette diUrarti. Ahimè! la povera Semiramdal vaporoso reame dei sognifaceva ritornoalle orride asprezze della vita. Ma ancora nell'aria le pareva di sentire lafragranza ineffabile di quel bacioe un ultimo soffio di quella vocecarezzevole che le ripeteva: Atossaio ti amo; son tuo.

Sorse dal letto e fe' chiamare alla sua presenza il capo deiCasdim. L'indovino fu pronto a com­parirle dinanzi.

- Possente reginavivi in perpetuo. Che posso io farecheti sia grato?

- Il re d'Armenia?... - dimandò ella con ansia

- Riposa. La sua notte fu calmapiù ch'io non credessi.Siamo oggi al punto fatale....

- E speri? - incalzò Semiramidefiggendo gli occhi suoiscrutatori in quelli del Casdim.

- Negli Dei è ogni nostra fidanza; - rispose eglichinandola fronte. - Ho sognato poc'anzi che essi lo serbavano in vitaperchè tuavessi liberamente a disporneo regina.

Semiramide lo guardò stupefatta.

- Hai sognato! - esclamò. - E credi nei sogni?

- Sono gli Dei che li mandano; - dissecon accento disicurezza l'indovino; - però sta scritto: "Dai sogni infaustio re delcielodifendici; o re della terradifendici! " A noi recano le not­turnevisioni gli spiritiche si muovono per voler degli Dei nel profondo de' cieli edella terra; a noi le recanoperchè in esse leggiamo gli eccelsiav­vertimenti. Non ci consente la vita della carne di sollevarci agli Dei;soltanto nella nottequando l'anima s'è disgiunta dal corpoci è dato dico­municare con essi.

- Eccelsi avvertimenti! - ripetè Semiramide. - Sta bene; ioli ho per talie obbedisco. -

S'avvicinòcosì dicendoa uno stipo che con­teneva lesue gemme; ne tolse il monile di perlecontemplò il talismanolo baciò e simosse verso il veroneche dava sulle acque.

Il Casdim la guardava attonito e tremante. Im­perocchè eglinon intendeva perchè lo avesse fatto chiamare la regina a quell'ora; nèperchèdopo le strane domandeavesse cavato fuor dallo stipo il suo monile diperle.

- Dimmi ancora: - ripigliò Semiramidevol­gendosi a luidal vano della finestraove si era recata; - non è egli vero ciò che hosempre udito dai saviche l'acque di questo lago son salse?

- Sìmia signora; epperò questa gente lo chiama il mare diVan. Fu un tempo che quest'ampio lago e i mari lontani eran tutti una solamistura.

- Al maredunqueal mare! - proruppe la reginasenzaascoltarlo più oltre.

E gittò incontanente il talismano nel vuoto. Volò in ariail monilee tratto dal suo peso andò veloce al bassodiè un tuffo nelle ondeazzure e disparve.

Ora le perle di Semiramide erano note al po­polo dellequattro favelleper l'arcana virtù attribuita a quella pietra nera che vi eraincasto­nata nel mezzo.

- Che fairegina? - gridò esterrefatto il Casdim. -Quel talismanoche ti ha sempre custoditache ha sempre esaltato il tuoregno...

- È lànei gorghi profondi; - interruppe la regina confervido accento. - Non m'hai tu dettoo saggio indovinoche egli s'ha dacredere ai sogni? Un sogno m'ha ingiunto di gittarlo nel mare. L'eccelsoavvertimento è stato seguito da me. Vanneorae se vorrai dire: "soncadute le perle di Semiramide in mare" aggiungi che esse tornarono làdond'erano uscitee nessuno potrebbe oramai discernere il luogo.

- Io taceròpossente regina; - balbettò l'in­dovinochinando la fronte e le spalle in atto umi­lissimo- Te certo inspirano gliDei; ma il volgo non dee sapere ogni cosa; che potrebbe cavarnepresagi funestie intiepidir nella fede.

- Va dunqueritorna al re d'Armenia. Vivo lo voglio! -aggiunse ellacon tale intensità di de­siderio che parve furore e trasse ininganno la mente del Casdim. - Semiramide è grata a chi interpetra i suoivoleri e seconda l'opera sua. Chiedi ciò che vorraise egli è salvo da morte.

- Possente signora- rispose il Casdim- l'uomo faràquanto è in poter suo. Ministrerà i farmachi salutarie implorerà confervide preci il soccorso di Nebo. Se cessa quell'ardore ond'è tutto invaso ilferitose egli riapre gli occhi alla luce e dal suo parlare si fa manifesto chenes­suna parte del cavo petto fu lacerata dallo strale de' tuoiscioglierò uncantico di lode agli Eterniimperocchè egli sarà risanato. Ora io vadoob­bediente al tuo cennoo regina. Unico premio alle mio fatichedesidero siaprospero sempre e av­venturoso il tuo regno. -

Partìciò dettomeditando in cuor suoma non intendendoper fermoche significasse quella furia improvvisa della reginae lo aver essagittate il suo talismano nelle acque. Bene avrebbe voluto sapere del sogno; maoltre che non era costume d'interrogare i monarchiegli giustamente pen­savache in quel momento la sua curiosità avrebbe potuto tornargli dannosa. L'essereCasdim non bastava ancora a salvare un uomo dai flagelli e dai chiovi delpatibolo. Superstiziosima ferocierano i re della stirpe di Nemrod; temevanoa volte gli Deima non pativano libere parole dai sacerdoti. Soltanto dopo cheil popolo delle quattro favellee tutti con esso i figli di Assurebberosperimentata la tirannide forastierae una se­conda dinastia nazionale fuinalzata dai Casdimquesti sacerdotiindoviniosservatori degli astridiventarono una setta potente e temutache fu la gloria da primaindi larovina del più nobile tra gli antichissimi imperi.

Uscito il Casdimla regina rimase a lungo as­sorta ne'suoiturbinosi pensieri. Quel giornoquel­l'oradecidevano della sua sorte; daquella di Arala sua vita pendeva. Nè già più si ricordava del regno; iltalismano gittato non le tornava alla mentein quel puntoche come argomentodi dubbio. Può ella chiudersi (diceva) in una vil pietraquesta favoleggiatavirtù che incateni gli eventi e governi a sua posta il futuro?

Un rumore di passi la scosse. Era Hurkiil fido guardianoche compariva sul limitare.

- Orbene? - gridò ellabalzando in piedie della manocomprimendosi il pettoquasi volesse impedire al suo cuore di battere. -Signora- disse Hurki- i Casdim ti stanno mallevadori della vita del red'Armenia. Egli è salvo.

- Ah! salvo! ripetilo!

- Sì; ogni timore è svanito- ripigliò il capo deglieunuchi; - l'ardor delle membra è cessato; il re d'Armenia ha aperti gli occhied ha ringraziato di lor cure pietose gli astantisebbeneegli ha soggiuntoavrebbe meglio amato non risve­gliarsi più mai. -

La fronte di Semiramide si ottenebròa quelle amare parolee un freddo acuto le corse per tutte le fibre. Ma da lunga pezza oramai ella eratemprata al doloreepassato quel primo istante d'angosciaricuperò l'imperodi sè medesima.

- Sta bene; - diss'ellacrollando alteramente la testa; -egli è salvo; amerà ancora la vita. Ma dimmi; come è egli avvenuto che inquel mo­mentodopo tante dubbiezze dei Casdim....

- Reginaneppur essi lo sannoe vedono in ciò un prodigiodei Numi. -

Semiramide non aggiunse altre dimande. Il suo voto era statoesaudito.

- O Astartemadre miaperdonami! - mor­morò ella tra sè.- Ho gittato il tuo dono; ma egli è salvoil crudele! Non avresti tu fatto ilmedesimose l'ignoto re del tuo cuore avesse aspettato da te la vitao lamorte? -

Si volse alloraper congedare il servo fedele. Ma in quelmezzo uno scriba dell'esercito chie­deva licenza di entrare al cospetto dellaregina. Fu subitamente introdotto.

- Possente signora- disse lo scriba pro­strandosi a terra- il novero dei prigionigiusta il tuo comandamentofu fatto. Tra i pochi chefu­rono colti insieme col re d'Armeniauno ve n'ha che disertò le tue schieredal campo di Assur. Egli è un indianoe l'hanno riconosciuto parec­chi; nèeglior ora interrogatolo nega.

- Faleg conosce i miei voleri; - disse breve­mente laregina; - tratti in servitù i prigionieri aicàni; a morte i disertori.

- Egli è l'unico disertoree innanzi di soggia­cere allasua penachiede di esser condotto a te. Qual fede meriti il suo direnon so;ma egli giura di possedere alti segreti e di non poterli svelare che alla reginadegli Accad. -

II cuore le si strinse a quell'annunzio dello scriba.Sinistro presagio! Il getto del talismano portava già forse le sue conseguenzefatali?

Stette così per pochi istanti silenziosapensandochiedendo a se stessa che mai volesse dirle quell'uomo. Forse era un codardoche non sapeva moriree mendicava un pretesto per prolungar la sua vita. Ma no!Disertorecolto coll'armi in pugnoal fianco di Araforse diceva il veroalti segreti chiudeva in cuor suo. Ma qualiche non riguardassero il red'Armeniafors'anco la sua fuga da Babilonia e gli alteri dinieghi che loave­vano condottolui e il suo regnoa così misera fine?

- Venga- esclamò la regina; - lo aspetto. -

 

 

CAPITOLO XIX.

 

GLI ARCANI DELLA TRIADE.

 

 

Poco stantecondotto dallo scribaentrò nella camera dellaregina il vecchio Sumàtistretto i polsi dietro alle terga da catene di ferro.Chinò egli il capo davanti a Semiramide; indi rimase immobilein attesad'essere interrogato da leitristema fermonell'abbronzato sembiante.

- Chi sei tu? - dimandò la reginaa cui quel volto nonricordava nulla di noto.

- Un indiano; - rispose il prigione. - Mi chiamo Sumàti.Discepolo di Manùho consumata la mia giovinezza sui Vedasantissime paginedettate da lui per la salvezza degli uomini.

- Com'eri tu nelle mie schiere?

- Fui fatto prigione sull'Indomentre io davo alla patriamiaal buon re Staprobatel'aiuto che per me si potevail mio braccio equello dell'unico figliuol miocontro le tue armi invaditrici. Vissi un anno inBabilonia; da ultimointimata da te la guerra agli Armenimi giovai dellapresenza de' miei fratelli di patria nel tuo numerosissimo eser­cito; viaggiaicoi custodi degli elefantie son giunto con essi fino al campo di Assur.

- E di làperchè hai tu disertatoriparando in mezzo ainemici?

- È il mio segreto; - rispose gravemente Su­màti; - edio tel dirò. Ma tu mi giureraiinnanzi tuttoo reginache il re d'Armeniaavrà salvala vita. Triste voci corrono nel tuo campo; - con­tinuò ilvecchiosenza por mente agli atti di Semiramidecui tanto ardimento avevacompresa di stupore e di sdegno; - si dice che tu pensi farlo morire dicrudelissima mortee che per ciò i tuoi Casdim si travagliano a risanarlodella sua grave ferita.... - Semiramide si contenne a stento.

- E se tal fosse l'animo mio? - domandò ella conpiglio superbo.

- Faresti orribile cosa- disse a lei di rimando Sumàti-e a te di danno certissimo; imperocchè io tacerei; iotuo prigioniero econdannato a morteche pureper capriccio della fortunaho la tua vita nelpugno.

- Ah credi? - replicò la reginacon aria di sommodisprezzo. - Io frattanto ho la tua e vo' darla ai tormenti.

- Io medesimo te la offersi; - ripigliò tranquil­lamenteSumàti- chiedine al tuo Faleged egli ti dirà ch'io mi son posto in suamano. I tor­menti non fanno paura ai seguaci di Brama; uscir di vita non miduole per fermo. Fin dal momento che non v'ebbe più speranza per l'armiaicàneavrei potuto darmi la morte; nol feciperchè an­zitutto mi premevala salvezza del re. E certose la tua collera non si fa ella a colpirloiol'ho salvato stamane....

- Tu? in qual modo?

- Iosì! Ho qui meco un'ampolla; ma le mie mani non possonocavarla fuori dal senoimpedite come sono di ferri.... -

Hurkiad un cenno della reginasi avvicinò al prigionieroe frugatologli tolse dalla cintura un'ampolladal cui seno traspariva unumore verdognoloe la recò a Semiramide.

- In quell'ampolla- proseguì Sumàti- è un liquorepossentestillato da piante arcane della mia terra. Una metà di questo liquorebasterebbe a dare la morte; lenta morte e soavema certa. Una goccia solastemperata nell'acquarinfrancaravviva gli spiriti languenti. Così ho iorichiamato nelle vene del re la vita che sembrava fuggirgli; e credano pure ituoi Casdim ad un prodigio del cieloo alla efficacia dei farmachi loro. Ieriappenae stamanemi fu dato di rima­nere solo un istante con luiperministrargli la portentosa bevanda. Ora egli è fuor di pericolo; ed eccomi ateo regina degli Accadper espiare i miei fallinarrarti il passato e ilfuturosenz'altro compenso per metranne questo: la vita e la libertà diquell'uomo.

- ll futuro? E il passatohai detto? - sclamò la reginaguardandolo fiso negli occhicome vo­lesse penetrargli nell'animo.

Il prigioniero le rispose con un ripetuto cenno del capochevoleva dire: l'una cosa e l'altra saprai.

Tosto la regina si volse allo scriba e di un gesto loaccommiatò. - Hurki- diss'ella poscia al capo degli eunuchi- escisull'atrio ed attendi. -

Rimasero soli nella cameraella e Sumàti.

- Parla! - gridò Semiramide alloramuoven­dosi ansiosaverso di lui. - Per gli Dei che il popolo delle quattro favelle ama ed onora;per l'acqua dell'Oceanodonde emerse Oanneil pesce dioad insegnare lasapienza ai mortali; per tutto ciò che splende nello spazio azzurro; pei sacrielementi delle cose create; per gli spiriti eccelsiche presiedono allestagioni; pei divini serpenti; che più? pel capo di Ninialo giuro; il red'Ar­menia vivrànè gli sarà torto un capello. Se io fossi così malvagiadonna da venir meno al mio giuramentoAnuil regnatore de' cielinon sorreggapiù il fianco della mia regia autorità; non m'illumini più la mente infermail veggente occhio di Nebo; Militta Zarpanit non ascolti più le mie preci.Eccoio pongo la mia mano su tein pegno della mia fede; ma parlain nome deltuo Diodimmi tutto quello che sai.

- Grazieregina! - rispose prontamente Sumàti. - Ora il miosupplizio incomincia; e il tuopovera donnanon sarà meno acerbopur troppo!Odimi; tu sei tradita. Tu vivi sicuratrionfi in Armavire Babilonia da settegiorni s'è ribellatagià maledice il tuo regno.

- Ahper gli Dei! - proruppe Semiramide accesa in volto disdegno. - La tua lingua ha mentito.

- Tu non avevi ancora levate le tende dal piano di Assurquando scoppiò la rivolta; - proseguì umilmente quell'altro. - Non hai tuvedutoper gli alti silenzi della nottei fuochi che ardevano sui collidaAssur fino al paese di Nahiri? Per lungo ordine seguivano essifino alle alturedi Sippara. L'un dopo l'altro accesiessi davano a me il rapido annunziocheforse ti giungerà fra alcuni giorni pe' tuoi corrieri; se pure essi nonsa­ranno arrestati per via. In tal guisa avvertitouscii dal tuo campocorsialle tende aicàne....

- Ma tu? - interruppe la reginabalzando in­dietro per altameraviglia e terrorementre veniva guatandolo con occhi smarriti. - Chi sei tua cui giungono per tal viae premono tantocosì gravi novelle?

- Io te l'ho dettoo regina; un Indianoun vecchiointerpetre dei santissimi Veda. Non hai tu tentatoo Semiramidedisottomettere la diletta mia terradi spingere il tuo cocchio regale fino entrole mura della sacra Ayodìa e di assoggettare i nostri Dei a quelli della stirpedi Cus? Dominare su quante son terre dalle isole del mar occidente infino alleinesplorate rive del Gange; far tuo il mondo; gittarlo in pascolo ai desideriiimmani del popolo delle quattro favelle; era questo il tuo sogno. Orbenemostruoso era il disegnoe biso­gnava sgominarloanzi che tutti imprigionassenelle insidiose sue fila. Tre uomini si congiura­rono contro di te; tre uominisolima ognuno d'essi era legioneera popolomoltitudine im­mensa. Uno diquesti tre uomini t'è innanziumile e dappoco per sèma grandema forteper ciò che egli metteva in motoa tuo danno; i sospettigli sdegni e levendette dell'India. Contro di te sorse un altroManetedella nazione diMesraimche la tua potenza minacciavae che già i figli del desertoobbedienti al tuo cennohanno tentato d'invadere. E venne un giorno che questidue collegati s'abbatterono in un odiopiù feroce a gran pezza e più profondodel lororinvigorito da tutte le sorde collere che il rancorela gelosial'amaro struggimento dei patiti dispregipossono addensare nel cuore d'un uomo.Si congiunsero a lui; la Triade era formata; aveva un braccio possente e sicuroper ferire i suoi colpi.

- Quest'odio avrà un nome! - ruggì Semiramide. - ll suonome io ti chiedo.

- E il cuore non te l'ha egli mai dettoo re­gina? Quelsenso delicatoche soccorre alla più debole ed alla più leggiadra dellecreature di Bramanon t'ha egli avvertito che chiudevi nella tua reggia unserpente? Sei donnaed ignori che amore negletto si cangia in odio mortalesiccome inacidiscese obliato in disparteil soave liquor della palma?

- Zerduste! - esclamò la reginaa cui un lampo di tardaluce balenò nella mente. - Ma potevo io darmi pensiero dell'amor suo? Chi puòavvedersi di ciò ch'egli non cura? Ero io donna così volgareda gittare ilmio tempo in questi vani compiacimenti del mio sesso? Di donna ebbi il corponon l'anima. Zerdusteadunque? Zerduste ha nome quest'odio?

- Sì- ripigliò Sumàti- Zerdusteal quale incautacommettevi l'adolescenza di Ninia. Povera madre! Egli ha foggiata a suo talentola molle cerae tuo figlio non t'ama piùnè ti teme; tuo figlio è ribelle.-

Qui trattenne Sumàti il suo direpoichè la re­gina nonavrebbe potuto udirlo più oltre. A quelle parole: " tuo figlio è ribelle" che compendiavano per lei tutto il lento e coperto lavorio del nemicoSemiramide aveva dato un grido di fiera che torna al covo e più non vede i suoinati; e si era abbandonatasinghiozzandocontro la spalliera del suo tronoacui le mancava la forza di ascendere. Si riebbe finalmente; e quando volse lafaccia a Sumàtigià non era più quella.

- Il cuor della madre ha toccata una acerba ferita; -diss'ella gravementepoichè si fu posta a sedere sull'alto suo scanno. - Tiudrò ora con calma; prosegui! -

L'Indiano s'inchinò davanti a quella semplicità maestosa.

- Ti obbedisco- soggiunse. - Tu scenderaicom'io pensoaBabiloniae troverai chiuse le porte della tua grande città. Questa rivoltain­dugiò lo scoppiofino a tanto che tu non avessi condotto lungi dal Sennaare impegnato in una guerra pericolosa tra i monti il tuo fortissimo esercito. Adassicurarne l'esitoera mestieri che qui ti fosse ritardato il trionfo; e fusta­bilito perciò di avvisare l'Armenole cui len­tezze e i destreggiamentiagevoli in queste goleavrebbero procacciato la nostra vittoria e la sua. Iostesso mi proffersi messaggeroe venni nel tuo campo ad aspettarvi il segnaleper andarne dal re. Animo generosorespinse egli il consiglio. Regnerebbeancorase lo avesse ascoltato; e teo reginaintenta a dargli caccia faticosaper que­ste montagnel'annuncio della rivolta e della per­dita del tuo regnoavrebbe fatto ristar dall'im­presa.

- Lo credi? - tuonò la reginacon sarcastico piglio. - Aivicini primaai lontani più tardie Semiramide avrà tempo per tutti. Madimmipiut­tosto; per quali vie si è impadronito colui della mente di Ninia?

- Del cuore anzitutto; - notò prontamente Sumàti. - IIcuore di Ninia si era da breve tempo dischiuso all'amoree già questa vampaera fatta un incendio. È sangue di Ninoe fortemente vuole tutto ciò ch'eglivuole. Ma la bellissima giovinetta che l'aveva infiammatodi repente morìetu già indovinerai di qual morte. Ella risusciterà nel tempio di Beloquandoper placare gli Deicorrucciati contro l'Armena....

- L'Armena! - esclamò Semiramide.

- Sì! così chiama Zerduste la donna cheper castigare unfuggitivo tributariomette a rovina l'impero. Egli ciò dicenon io. Ordunqueella risusciteràla fanciulla di Ninianel tempio di Beloquandoper placare gli Dei corrucciatiil giovinettoribelle a sua madreabbia cintocorona di re; morrà tostose egli la depone; così hanno decretato gli Dei.

- Orribile! orribile! Ma eglil'astuto malveggentemorrà!E morrai tusuo complice infame: tra i più feroci tormentimorrai!

- Non li temo! - disse a lei di rimando Sumati. - Mi sonodannato a morte io medesimo: che puoi tu farmi di peggio? Ben più ferocipiùacerbine infligge a questo mio cuore il rimorso. Ma io ho la tua fedeoSemiramide! Tu non in­crudelirai nel sangue innocentee il vecchio Sumàtimorrà forse perdonato del turpe ingannoin cui cadde il più prodeil piùnobileil più ge­neroso degli uomini. Tutto ancora non ti è notoo regina.

- Ah! - gridò Semiramidealla cui mente si affacciava unatroce sospetto. - E che altro ri­manper cui debba velarsi il casto raggio diSin? Parlao vecchio; dovessi io pure concedertiper tua maggiore vergognalavita! Non mi na­sconder nullasai? Son grande ancora e possente per te; ogniparola che tu dirai ti frutterà un te­sorose io mi appongo al verose ilmio cuore presago ha indovinato di che ti resta a parlare.

- Sì; - disse il vecchioa cui tanta veemenza d'affettoinaspriva i rimorsi nell'anima- sìo reginail tuo cuore ha precorsa la miaconfessione. Ella sarà piena ed intera. Ma tu non mi darai in premio tesorinè mi farai grazia altrimenti della vita. Non mi dire il contrario! Alla miaetàgli occhi della mente vedono lungeas­sai lungoe il pensieroammaestrato dalla triste esperienzanon si pasce di vane speranze. Ma eccoioti ragiono di meladdove di un altro mi chiededi un altroquell'ansiamortale che ti sco­lora la faccia. Sìsventurata! Un giovine di regio sanguedi cuor generoso e di sovrumana bellezzaera venuto alle mura di Babilu. LaTriadeche spiava ogni passoogni moto d'una donna tanto odiata quant'erabella e possentelo incontrò sulla sua vialo circuìlo strinseinsiemecon quella donnane' suoi lacci invisibili. Ella si credeva si­cura laggiùignota ad ogni altrosiccome a lui; ma orecchi tesi e sguardi acuti vigilavanonelle tenebre. Ella per fermo non s'attendeva agli ingiuriosi sospetti ond'egliflagellava la sua dignitàmentre implorava l'amor suo e le giurava eternacostanza; nemmeno pensava colei che il dubbio sarebbe da altri sfruttatoel'amor suo prepo­tente fatto arma terribile contro di lei. Nostro il garzoneella era nostra del pari. Fu compro coll'orovintoammaliato dalle lusinghed'una facil bellezzail più fedeleil più caro de' suoi compagnie quantooccorreva ad ordire il più nero degli ingannisi seppe. È orribiletu dici?A noi parve giustissima guerra; e tale forse mi parrebbe ancor oggise oggi ionon amassi quell'uomoquel fi­dente eroecheuscito a mala pena dalleebbrezze d'un regio convitofu dalla voce d'un estinto chia­mato a profondimisteri nelle viscere della terra. La Triade sapeva evocare le ombre deitrapas­sati.

- Evocar l'ombre!.... - ripetè Semiramidecon ironicoaccento.

- Credi almeno- ripigliò il prigioniero- ch'ella sapessementirne l'aspetto e la voce. Chia­mato da magiche cifrescese il garzone peruna segreta aperturadischiusa nella sua camera.... La camera dei leoni alatio regina! Essa era delle antiche e più care ai re di Babiloniain­nanzi chela tua magnificenzaallargando la reggiavi edificasse una più sontuosadimora. Il tuo gran maggiordomoora al fianco di Niniane conosceva i segreti.Egli assegnò quella camera al biondo ospite Armeno; nè fu opera del casooinnocente consiglio.

- Prosegui! - incalzò la regina. - E laggiùnelsotterraneo?...

- Parlòo credette parlar coll'estinto. I suoi felici amoricon quella donna; indi il cuore mu­tato di lei; da ultimo la barbara morte inun abisso dischiuso a' suoi piedi; tutto narrò partitamente il fantasmae fufacilmente creduto. Pos­sono i morti mentire? E quello era Sandiil suo Sandil'amico della sua fanciullezzanon ombra vanacreata dal sogno. Se egli ancoraavesse po­tuto dubitarnele livide labbra del mortoche si posarono sulla suafronteavrebbero dissipato quel dubbio. E credettel'incautoe giurò; giuròche sarebbe fuggito da quella donnanon l'avrebbe veduta più maiavrebbepatita la morteanzi che un altro bacio dell'impudicache allettava eucci­deva gli amanti. Sopito da filtricome da filtri era stato indotto inebbrezzaaffinchè i suoi sensi medesimi aiutassero dove più manchevoliappa­rivano gl'ingannifu trasportato per la via sotter­ranea (da te scavatao regina) al suo alloggia­mento di Nivitti Bel. Colàper sollecita cura delservo infedeleerano già sellati i cavalli e i ca­valieri in arcione.

- Ah scelleraggine inaudita! Il negro abisso v'ha rigettatio malvagi? Gli spiriti delle tenebre si vergognarono dunque di voi? Animaincautache hai fede nel beneche il male ignorio di­sprezziche solometti ad eccelse cose la tua miraeccociò si trama intorno a te nelsilenzio; il li­vido serpe striscia nel buio a' tuoi piediti schizza la suaimmonda bava sulle candide vesti. E non avvedermi dell'insidia! E non sentirmialle nari il lezzo della vostra presenza! Ahtu l'hai dettoo vecchio; il tuopensiero non può nutrirsi oramai di vane speranze; di mille morti sei degno. Esenti rimorsotu? Merita il tuo spirito impuro questa rugiada de' cieli? -

Così parlò Semiramidesopraffatta dall'irae fiamme leuscivano dagli occhi.

- Io t'odiavo; - le rispose freddamente Sumàti; - nè t'amooggi; nèpure volendoil potrei. La tua grandezzao reginaè minacciaperenne alla libertà del mio popoloil più anticoil più illustre che siacomparso mai sulla terra. Nemici siamo; tu forte troppo; noi deboli. Alla forzari­sponda dunque l'astuzia. Ogni arma è buonapur­chè ferisca il nemico. Diche ti lagnitucui la fortuna concesse le parti del leone? Noi dunque iserpentie nelle nostre spire morrà soffocata la progenie di Cus. Ella devesparire dal mondoquesta orgogliosa schiatta di feroci Titani. Saranno i Medidapprima; sian pure più tardi gli Assurai Persie quanti altrisoverchiatol'antecessores'argomenteranno di esercitare l'impero a lor volta; essi tutticadrannoe la tua Babilonia dovrà tutti inghiottirli. Io non ho mai lettocosì chiaramente nelle tavole del futurocome in questo momento. Son sacroalla morte e mi attende l'altissimo obliola confusione dello spirito nellaincreata sostanza di Brama. Accolga egli il mio rimorso; imperocchèio loconfessol'opera mia sorpassò la misuraferì a morte il più nobile cuore.Io lo vidiquel generosolàsoloperduto nell'orrore infinito de' tuoisotterraneitra ignoti pericolifor­midabili apparizionibagliori sinistri evoci di morteimperterritosereno ed altero come Crisnail divino figliuolodella vergine di Madura. Così era prodecosì animoso nelle armiNaradal’u­nicofiglioche i tuoi soldati m'hanno ucciso sul­l'Indo. Il suo dolore mi vinseelo amai. Voleva spegnerlo Zerdustementre egli era fuori dei sensi; e loavrebbe fattose io non lo avessi impedito: lo avrebbe fattotanta era la suagelosa rabbia: ma avrebbe in tal guisa distrutto l'opera sua fa­ticosarinunziando al trionfo del comune disegno. Da quel giorno Zerduste ebbe odiocontro di mecom'io contro lui: soltanto la necessità ci tenne sulla medesimavia. Ed ora ogni cosa t'è chiara. Reginatu sei perduta; Ninia regna eZerduste trionfa. Checchè tu facciao tentil'impero è distrutto. I Mediel'altre nazioni del sole oriente non tarderanno a separarsi da te; Mesraimscuoterà il giogo della paura; i popoli di Martule città marinare e le isoledel sole occidente ripiglieranno la loro libertà. Lo intento della Triade èraggiunto; a teminacciosa signora delle genti più nulla rimane. Feliceancorase ti basterà di regnare nel cuore di luiche un oscuro prigio­nieroun vecchio condannatoti rende. Egli t'amao Semiram. Nella pugna che ildestino ha susci­tato tra voiegligenerososi elesse la sconfitta e lamorte. Egli t'ama! Poteva colpirti de' suoi dardie non ne ebbe la forza;bensì l'ebbe per rattenere il braccio degli altrigià pronti a toglier lamira. Egli t'amao Semiram; t'ama pur sempre d'un amor disperato. Sgombra da'suoi occhi l'er­roretutto partitamente fagli noto l'inganno che Zerduste hatessuto nell'ombraed egli cadrà pentito a' tuoi piedi.

- Che? - sclamò Semiramide. - Non gli hai tu già disvelatoogni cosa?

- No; - rispose Sumàtichinando raumiliato la fronte; - nonho ardito di farlo.

- Ma penso che gliel dirai! - incalzò la re­gina. - Tu haiparlato de' tuoi rimorsio vecchio. E che? credi tu che il tuo Dio abbia adusarti misericordiase non t'umilii nel tuo rossore da­vanti a chi haiingannatose non diffondi la ve­rità dove hai seminata la menzogna?

- Ah! e credi tu- disse a lei di rimando il prigionierocon voce impressa d'ineffabile angoscia- che avrei scelto di offrirmi alla tuapre­senzase mi fosse bastato l'animo di aprirmi d'ogni cosa con lui? Bene eraquesto il mio primo disegno; confessargli ogni cosabere un sorso diquell'ampolla liberatrice e morire. Fui una volta sul puntoe non ne ebbi laforza. Il veleno mi ­avrebbe tolto la vitanon la vergogna di quel temutocolloquio. Inoltreegli era già tardi. Sopravvenne la pugna; indiegli feritoe fuori dei sensiagonizzante forse; io disperato per tanta rovina d'ogni cosaa lui cara; da ultimo con un più acerbo dubbio nell'animanon forse l'ingannonostrodopo avergli fatto perdere il regno e la pace del cuoregliprocacciasse morte da un tuo barbaro comandoe morte non degna di re. Semiramio muoio consolatopensando che tu l'ami. Tunon colpevoletu avrai forza dipalesargli il vero. Ne sarà la mia morte il suggelloe mi me­riterà il suoperdono.

- Tu parlerai! - gridò la regina con inflessi­bile accento.- Sarai condotto al suo capezzale e tutto egli udràdal tuo labbro.

- No: - rispose tristemente Sumàti- la mia vita ti hoofferto; altro non puoi chieder da me.

- Poche parole soltantopoche parole ti chiedo. Mio reglidiraila Triade t'ha mentito; hai ve­duto una larva creata da noi....

- Noreginanon l'ardirei. Guardarlo in faccia e parlargliin tal guisa?... È impossibile. Vedi; io mi sono umiliato davanti a tea teche non amo. Ma tu sei donna; e la donna è per noi la crea­tura debole; cifacciamo più facilmente codardi con lei. Ma al cospetto di un uomo....dell'uomo che amo!.... Ah perchèeterno Iddioquesto vec­chio mio cuoresente e palpita ancora? Credevo che fosse mortoquel giorno che il mio poveroNarada perì. E vivetenaceed ama tuttavia; il paterno affetto ha trovatoancora cui dare i suoi ultimi ardori. Perchè? Come avviene egli ciò? V'hannopiantele qualirecise in sul troncopure non sanno rassegnarsi a morireenon potendo farsi ramofrondeggiano dal ceppo rugoso e met­tono un fiore....

- Badao vecchio! - esclamò Semiramidela cui voce in quelmomento assumeva alcun che di solenne. - Tu m'hai svelata poc'anzi la piùorrida trama in cui possa pericolare un impero; tu m'hai mostrato l'abisso incui sono già per ca­dere. Nè di questa minacciata rovinanè di quel dannomi curo. Avvenga che vuole; io so questo soltantoe mi bastachedove iocompariscafarò ancora tremare i miei congiurati nemicie chese io puredebba lasciarvi la vitail mondoper quanto duri lontanoricorderà comeSemiramide è morta. Tu mi hai addolorataabbattuta non giànè sorpresa.Stamanedopo aver veduto io stessacon questi miei occhiil re d'Armenia nelsuo letto di dolorepallidostremato di forzelanguenteho pregato gli Deiho votato ogni mia fortuna per la salvezza di quella nobile vita. Odimi ancora!Io avevo un talismanoimpresso d'ar­cane cifreche fu sempre con mefin daimiei anni più verdi. Era fama che le sorti del mio re­gnola mia grandezzala mia gloriala mia esal­tazione su tutti i potenti della terrafosseroin­catenate a quella negra gemma da virtù di ma­gici incanti. Orbenevedi;laggiùin quelle acque profondeio l'ho gittata stamane. La via è lungaedio ho veduto il mio talismano percorrerla in­tiera; nèmentre esso cadevahosentito pur uno spasimouna trafitturauna stretta di pen­timento nel cuore.Misura da ciò l'amor mio per quell'uomo! E credi tu chegiunta l'occa­sionedi apparirgli qual sonodi riconquistare quel cuore che è miopotròlasciarla fuggire? Dovrò io umiliarmiarrossireperchè tuil col­pevoleil traditoreil codardonon avrai osato di farlo?

II prigionieroche con ansiosa cura aveva se­guito ildiscorso della reginachinò la testa sul petto e non rispose parola.

- Bada ancora! - soggiunse ellacon accento quasi amorevole.- Tu m'hai fatto più male che regina e donna non siano use a patire.Cionon­dimenoio ti concedo la vita. Ricco e potente sa­rai; ma a te sispetta parlare col re. -

Sumàti taceva ancora.

- E sia di te ciò che tu stesso hai voluto; - ripigliòSemiramide. - Sarai dato a' tormenti. Ve n'ha di terribiliche fanno rizzare icapegli per raccapriccio sulla fronte ai più saldi; che trar­rebbero i gemitiperfin dalle pietre. V'hanno bronzi lentamente scaldatiin cui frizzano lemembrae l'aria vien grado grado mancandoe ti senti sof­focaresenza poteranco morire. V'hanno strappi di tanaglieche lacerano e traggono via a lun­ghibrani la pelle. V'hanno aculei che si ficcano tra le unghie e le carniepungono senza treguafanno desiderare che l'anima se ne voli in un grido. Ma lamorte è più lenta a veniree l'orgo­glio rintuzzato chiede finalmentemercè.... OlàHurki! - diss'ellaavvicinandosi al limitaresu cui fu prontoa comparire il fedele. - Vengano i tuoi; sia consegnato quest'uomo aiflagellatori; ma non prima- soggiunse incontanente- non prima di essercondotto alla presenza del re d'Ar­meniaper udirsi a ripetere laggiù tutti isuoi tradimenti. -

Sumàtiche era stato fermo alle minaccemuto allepromesseimperterrito alla descrizione degli atroci tormenti serbati alla suapervicaciadiè un grido a quell'ultime parole di Semiramideun grido che fecesobbalzar la regina e tornare Hurki solle­cito sopra i suoi passi; indirapidoa guisa di tigresi volse indietrocorse alla finestrae così impeditocom'era dalle catene che gli stringevano i polsi alle tergaspiccò un saltosul davanzale di pietra.

- Reginaio tel dissi; - esclamò egli allora; - è questoil solo supplizio di cui temesse Su­màti. Mi sottraggo al doloreed espio lamia colpa. Dov'è piombata la tua fortunapiomberà la mia vita. Iddio ricevail mio spirito. -

Chiuse gli occhiciò dettosi spinse all'indietro e silanciò nello spazio.

- Ah! si salvi! si salvi! - gridò la reginacorrendo aguisa di forsennatacon palme teselà dond'era scomparso l'Indiano.

Ma come salvarlo? Affacciata al davanzaleSe­miramide potèscorgere ancora il corpo barcol­lante che piombava veloce nel vuoto. Esso ad untratto diè un tonfo; le acque percosse schizzarono in alti zampilli dintorno;spumeggianti gor­gogliarono un trattoindi sbattute ancoradival­late per losquarcio improvvisofinalmente si chiusero.

Con occhi intentitrascinata da un'istintiva curacome divoler trattenere coll'alito una cosa che fuggela regina guatava quell'onde cheavevano inghiottita la sua fortuna da prima e l'ultima sua speranza in quelpunto.

Alcuni istanti trascorseroe l'affogato ricom­parve a fiord'acqua.

- Ahforse potrà salvarsi! - diss'ella.

- E comemia signora? - notò Hurkicrol­lando la testa. -Egli ha incatenate le braccia. -

Il morentenella postura in cui erasi riaffac­ciato allaluceparve alzar gli occhi verso la re­ginae quegli occhi mandarle un addiochiederle una parola di supremo perdono. Quindi l'inerte corpo si sommerse dacaponè più oltre fu visto; le onde si richiusero come pietra di sepolcro suluisi spianarono e scintillarono tranquille ai raggi obliqui del sole.

 

 

CAPITOLO XX.

 

ALLA RISCOSSA.

 

 

Sei giorni erano scorsi dopo le gravi rivela­zioni e i piùgravi annunzi del vecchio della Triadee il grosso dell'esercito babilonese eragià molto innanzi sulla via del ritorno.

Si affrettavano le schierevenivano senza indu­gioamarcie sforzate. Essendo allora nei mas­simi ardori dell'estatenonviaggiavano che a lume di stelle; però facevano più spedito cammino. Sostavanopoche ore dopo il romper dell'albae si rimettevano in viaggio al tramonto delsole. Ma dopo il sesto giornovarcato già dall'esercito il paese di Nahirisicominciò a guadagnare al­tresì qualche ora sul giornotanta era la fretta diSemiramideil suo desiderio di accorciare lo spazio.

Nèin tanta agonia di corso lanciatoaveva la reginatrascurati gli accorgimenti di guerrain cui era meritamente famosa. Giunte lesue schiere nei pressi di Haranella aveva spiccato cinquan­tamila uominimandandoli innanzi per la valle dell'Eufrate. Li comandava Falegsperimentatoguerrierofido seguace delle fortune di Semiramide; la qualeda umil gradoloaveva innalzato ai primi onori della milizia.

Quelle cinquanta migliaia erano l'antiguardo dell'esercito.Il grossocomandato dalla regina guerrieradoveva tener dietro a due giornatedi marcia. Così era detto apertamentee lasciato cre­dere ai soldati; maFaleg non ignorava che egli dovevaesser solo su quella via; cionondimenoanimosamente scendeva verso Baliki e Cabura marce speditema giuste.

Frattanto la reginacon tutta la numerosa sua gentepiegando rapida a mancaandava a cer­care la valle del Tigria ridosso deimonti di Lallua; ed avviatasi finalmente sulla destra riva del fiumescendevacome si è dettocon quanta celerità per lei si potesse.

Quale intento era il suo?

Certoe non era da dubitarnei ribelli di Ba­biloniaavevano in quei giorni raunato un esercito. Quanta gente era valida alle arminella città e in tutta la terra di Sennaar tra Bitdakuri e Larsagià dovevaesser sotto le loro insegnevolente o nolente. E fors'anco d'altri paesiaspettavano aiuto. Scendendo ellasiccome era naturale che facesselungol'Eufratei ribelli non le avrebbero opposto resistenza che a Sipparadoveconsentendolo il luogosi sarebbero fortificati e muniti d'ogni di­fesa.Laggiù dunqueo poco lungilo scontro; indise soverchiati da leisarebberocorsi a ri­fugio in Babilonia.

Orachiuse ad un esercito assalitore le porte di Babiloniamalagevole al sommoper non dire impossibilesarebbe stato lo entrare.

La gran capitale degli Accad era cinta all'in­torno di saldemura e fortificata di valli profondi: nè Semiramide ignorava cotestoella cheaveva innalzate quelle muracredute universalmente inespugnabili allora. Potevala gente assediata ridursi per fame? Colmi erano pel consumo di un anno igranaie tra la prima e la seconda cinta di mura stendevasi tanto di terreno dacavarne un raccolto che bastasse per tutto l'anno seguente.

Così giustamente pensandola regina aveva an­che nel suosagace consiglio noverati i giorni di sicurezza che si riprometteva il nemico.Semiramideanco ad avere in tempo l'annunzio della rivoltae senza gli indugiche si sarebbe tentato di frapporre ai messagginon avrebbe potuto es­sereavvisata di nulla innanzi il dodicesimo giorno di Tana. E allorase libera dipartire dall'Arme­nia (che non era nemmanco da credersitante erano e varie lesorti di guerra!)ella non avrebbe pure potuto così speditamente raccoglierele sue forzee rimettersi in camminoda giungere nel piano di Sennaar innanziil principio di UlulùScrivo. Così dovevano pensare i ribellie da ultimocon­fortarsi nella fiducia chese anco Semiramide avesse usato d'ogni suasollecitudinee guada­gnato qualche giorno di camminoeglinoappo­stati neipressi di Sipparal'avrebbero tratte­nuta colà.

In quella vecee a danno dei giudizi dell'ini­micoche eraegli avvenuto? Che la regina aveva risaputo il tradimento nel decimo giorno diTana; che tosto aveva levato il campo dall'Armeniae il sedicesimo giornovarcato già il paese di Nahiris'affrettava alla pianura di Babiloniama nongià per la valle dell'Eufratesibbene per quella del Tigrimentre Falegavviato con quel nerbo di forze sull'antico camminone copriva la rapidamarcia.

Rapida inveroe quasi fulminease i moti degli uominipossono ragguagliarsi agl'impeti delle forze celesti. Certocosì velocecorreva oltre col pen­siero la regina; e appunto per vincere in parte quellefastidiose lentezze che il lungo spazio por­tavaSemiramide aveva comandato difar cam­mino anche alcune ore del giorno. Nè più era co­stume di attenderecoloro che la stanchezza opprimeva; posassero pure coi loro capi; avrebberoproseguito nella notte e tentato di raggiungere i più gagliardi alla stazionevicina.

Così dicevaben certa in cuor suo che molti sarebberorimasti indietro di parecchie giornate. Ma ellaco' suoi miglioricon centomigliaia al­menosarebbe giunta il ventesimo giorno di Tana alla sua capitalee senza impedimento di nemicigirando alle spalle della cittàdove per fermonon doveva esser buona vigilanza d'armati.

Il regal prigioniero seguiva il corso di quella sterminatafalangeadagiato su d'una lettigatratta da cammellila cui sollecita e dolceanda­turanon affaticava punto il ferito. Lo scortavano gli arcadori di Birtu;ed era giusto che un tale onore fosse per l'appunto serbato a quei mede­simiche avevano ferito e fatto prigioniero il malka delle montagne. Del restoapiù certa cu­stodiaera Hurki con essi; e lo seguivano trecento meloforioportatori di lanciadella regina.

Dall'altra parteFalegproseguendo la sua mar­cialunghesso l'Eufrateera giunto il diciottesimo giorno in vista delle torri diSippara. Colà aveva fatto sosta e mandato un drappello d'arcadori asopravvedere il paese. Ma udito poco stante come la terra non fosse guardataesolo nella notte vegnente si aspettasse una grossa mano di ri­belliprontamente vi si condusse co' suoiche gli parve grande ventura avere quelfortissimo sitoricco di vettovaglie e d'ogni maniera sussidiisenza colpoferire.

Piantatosi colàe mentre pur le sue schiere at­tendevano acollocarsi nell'ordine più acconcio sui rialti e nei piani a mezzogiorno dellemuraFaleg inviava messaggi a Niniain nome della regina.

Egli infatti non poteva più far le viste d'igno­rare larivolta avvenuta. I cittadini di Sippara gli avevano detto apertamente:

- Regna Ninia in Babilonia e su tutta la terra del Sennaar.Il Saccanàcovicario dei sommi Deilo ha incoronato re nel tempio di Beloche sta in cima alla torre delle sette sfere. Semiramidecome nemica del popolodi Kiprat Arbatche ella ha condotto a perire per suo folle pensiero nellestrette d'Armeniaè stata spogliata del regio co­mando e il suo scettrogittato nell'Eufratein mezzo ai cadaveri che il biondo fiume trasporta allafoce. -

Così stando le cosenon tornava difficile a Faleg diargomentare che l'invio dei messaggi niente avrebbe giovato per mutare iconsigli dei ribel­lati. Egli anzi prevedeva in cuor suo che i mes­saggeri nonsarebbero giunti fino alla reggiaforse nemmeno avrebbero potuto varcare leporte della città. Ma egliper controfaceva in tal modo avvertiti irivoltosi della vicinanza di Semiramideed otteneva l'intento di trattenerlidalla loro dise­gnata marcia su Sipparaprocurandosi il tempo di affortificareil suo campo e di pigliar linguacosì intorno agli ultimi casicome intornoalle forze di cui disponea la rivolta.

Tranquilla scorse la notte; ma sull'apparire del vegnentemattinol'esercito dei ribelli si dilagò nella pianura davanti alle torri diSippara. An­cora non sembrava molto ordinato e bene ad ar­nese; tuttavias'inoltravaaccennando ad un su­bito assalto. Così voleva Zerduste.

Il principe dalla mente profonda e dallo sguardo acutoavevadetto tra sè:

- La regina è rimasta indietroa malgrado d'ogni suodesiderio e d'ogni sforzo per affrettare il camminoimpedita com'è dallastessa moltitu­dine de' suoi combattenti. Tutto ciò ch'ella ha po­tuto faresi è di spingere avanti le squadre più leggere e più prontesotto il comandodi Faleg. Ascendono forse a cinquanta migliaia; non sono certamente di più;chè i cittadinifuggiti da Sip­para per darcene avvisonon hanno potutoin­gannarsi. Or dunqueassaltiamoli con quanta gente è stata da noi raccoltafinorae vediamo di vincerli alla spartitaprima che ricevano aiuto. -

Inveroegli si pentiva amaramente di non aver fatto occuparela città nel giorno addietro; che forsecon una parte degli uomini a ciòdestinatiil poteva. Maper controcome arguire una tanta celerità inSemiramide? Da chi e per che modo avrebb'ella risaputi i gravissimi casi diBabiloniapiù giorni innanzi che le fossero riferiti dai cor­rieriolasciati temere da un improvviso difetto delle corrispondenze consuete?

E tuttaviao notizia o sentore della rivolta aveva ellaavuto in Armenia. E come ciòmentre eglia mala pena di poche oreper levanterie dei messi di Falegudiva l'annunzio della pronta e piena vittoria diAiotzor? Egli era ben lungi dal sospettare di Sumàtiche forse era morto nelten­tare di ridursi al campo aicàno. Questa era al­meno la conghiettura piùovviaimperocchè il subito scontro dei due eserciti dimostrava aper­tamentecome al vecchio Indiano fosse fallito il disegno di penetrare fin nelle tende diAra e per­suaderlo a non accettare battaglia. Solo alcuni giorni di poidovevaegli risapere della presa di Sumàticolto coll'armi in pugno al fianco di Arae della sua morte volontaria nel lago di Vancerto per sottrarsi ai tormenticui lo avrebbe dan­nato la regina e al pericolo grande che il dolore glistrappasse il suo segreto di bocca.

Comunque fosse di quella celerità prodigiosaegli non eratempo di fantasticare sul passato; bensì occorreva di daree tostonell'antiguardo di Semiramide. E corsero i ribelli all'assalto; ma per quelgiornoe per l'altro che seguìfu opera vana. Nessun vantaggio si otteneva daalcuna delle due parti. Faleg non si perigliava troppo lontano dalle murapertema d'esser preso alle spalle. Egli più forte per agguerrite schieremaqueglino più numerosi d'assai. A lui metteva conto il rimanere colà; aglialtripoichè di vincerlo non era nullatornava anco di averlo chiuso in quelluogodovese più tardava la reginalo avreb­bero prestamente affamato.Sentivano in quella vece approssimarsi il grosso delle forze nemiche? E alloracorrevano a rifugio in Babiloniaaspet­tando colà i Medi e i Persiche giàa quell'ora dovevano valicare i monti di Elame il disperdi­mento dello stessoesercito di Semiramidein cui erano tante migliaia di quelle due nazioni oramaisollevate.

Intanto la condizione di Falegottima per assi­curare lasorte d'un combattimentoper tutto l'altro era pessima. Nella antica e nobilcittà che egli occupavaerasi sparsa la fama del troppo sangue che la vittoriadi Aiotzor era ai Babilonesi costata. Da parecchi giorni il vicino Eufrate nonvolgea che cadaverialla vista di tutte le genti del Sennaar. Inoltreisoldati suoicome quelli che si reputavano tornati in patrianon avevanotaciuto dei danni sofferti; segnatamente avean detto della sacra miriadedi cuia mala pena po­che centinaia erano scampate da morte. Però si udiva già amormorare contro la reginanelle mura amiche di Sipparacontro la guerrafinita pur dianzi e contro quest'altra che cominciava. Infinechi eraSemiramidese non una stranieraecome reginaassai più fortunata chesaggia? Laddove Ninia era del sangue di Nemrod; egli o presto o tardi legittimore; meglio adunque riconoscerlo alloraevitando mali maggiori.

Questo e il pensiero delle scarse vettovaglieindu­cevanotristezzafastidioripugnanza negli animi. Sarebbero essi duratinell'obbedienza più oltre? Per buonasortediceva Faleg tra sèla reginanon doveva esser lungi da Babilonia; ad ogni modoquei due giorni dicombattimento a Sip­parale avrebbero spianata grandemente la via.

Nè s'ingannava. Appunto in quella notte che se­guiva ilsecondo assalto di Sipparala regina giungevacon poco più di centomilacombattentialla vista di Babiloniadavanti ad una delle porte che guardavanoil sole oriente. Appiattato l'eser­cito nei campidove già crescevano lebiade pel secondo raccoltochiuse con buona custodia d'armati le uscite deivillaggiperchè nessuno avesse modo di recare l'annunzio alla vicina cittàSemiramide si avanzò con uno stuolo di cavalieri lun­ghesso il canale LibilHigalper esplorare il terreno.

Sinil casto pianeta a lei carosplendeva alto nelfirmamento azzurroilluminando la pianura all'intorno e la via battuta checonduceva ad una delle porte. E mentre Semiramide cautamente s'i­noltrava pe'coltievitando la strada e non per­dendola d'occhiole venne udito da lontanoun ru­more smisurato e crescentecome lo scalpitìo di una cavalcatache aquella volta spronasse.

Incontanente fe' restare i suoi cavalieri; e mutiansiosistettero tutti origliando.

Il rumore si avvicinava sempre più. Semira­mideche giàmeditava un audace disegnosi volse a guardare i suoi cavalierise fosseroab­bastanza coperti agli occhi del nemico. Erano essi dietro un campo disèsamodi rigogliosa cre­sciuta e di larghissime fogliesiccome portava lanatura di quel fertile suolo. La regina non si tenne paga tuttaviae comandòche tutti smon­tassero da cavallopur rimanendo con un piè sulla staffa e lamano alla criniera.

Così del tutto nascostispiavano l'arrivo della cavalcatanemica. Essa pervenne indi a poco su quel tratto di strada che essi vedevanoeveloce trascorse. Erano a mala pena sei cavalieri; e alle foggevedute così diprofilo a lume di lunaap­parivano Medi. Forse erano esploratorifors'ancoportatori di messaggi a qualche luogo vicino.

Semiramide lasciò che andassero oltre a lor posta. Infattia mezzo miglio discosto era ac­campato il suo esercitonè potevano essicansare d'esser fatti prigioni.

Ella intanto diè il cenno e l'esempio di risalire inarcione. Dietro a lei tutto il drappello si cacciò a galoppo sulla stradaserrandosi sulle orme dei Medi. Udirono essi l'improvviso rumore alle spalle epensando che fossero altri cavalieri usciti di cittàper richiamarli indietroo per altro che loro importasse saperesi fermarono tosto. E innanzi cheavessero tempo a raccapezzarsia conoscere d'esser caduti in agguatoeranocircondati da un nugolo di fantasmi; chè tali dovevano parer loroin quelluogoi cavalieri di Semiramidecreduti ancora così lontanie sulla viadell'Eufrate.

Thuravarail loro capofu condotto alla pre­senza dellaregina. Tremò egliquando ebbe rav­visata Semiramideea mala penainterrogatodisse tutto ciò che a lei mettesse conto sapere. Thuravaracreatodi Zerdustenon ignorava qual sorte lo attendesseovecon pronta sommissionee con utili ragguaglinon si fosse raccomandato alla clemenza di lei.

La regina adunque udì dal suo labbro che Faleg resisteva dadue giorni tenacemente sulle al­ture di Sipparaove Zerduste credeva fosseella per giungerecol rimanente dell'esercito. Per al­troin quella medesimaseradue esploratori erano tornati da Buratche è sull'Eufratea unagior­nata più in alto di Sippara; nè lassù si aveva fumo di soldateschevicine. Cotesto aveva confortato Zerduste nel suo primo pensieroche l'invio diFaleg fosse tutto quanto ella aveva potuto fareal primo annunzio della rivoltadi Babiloniae che ella fossecon tutto l'esercito suodi parec­chiegiornate più indietro.

Del restosoggiungeva ThuravaraNinia e il suo fedeleministro dimoravano nel palazzo della riva occidentaleper esser più vicini alpericolo e più pronti alle acconcie difese. Avevano essi un esercito diduecento migliaia; ma la più parte di gente ragunaticcianè ancorabastantemente ad­destrati. Si aspettavano bensì grossi soccorsi dai Medi edagli Elamitigià chiamati in arme dal preveggente Zerdustealla vigiliadella rivolta e della incoronazione di Ninia. EgliThuravaraan­dava perl'appunto sulla via di Libil Higala ve­dere se ancora giungesseroe adaffrettarne l'en­trata in città. Armipoie vettovagliecome alla reginadoveva esser notoin Babilonia abbon­davano.

Udì Semiramide i copiosi ragguagli; e come Thuravara ebbefinitogli disse:

- La tua vita dipende dal parlar che farai. Qual motto hannoora i custodi delle porte?

- Per Anaìti! - rispose tosto il Medo infedele.

- Che significa ciò? - chiese la regina in atto di stupore.

- È il re- soggiunse Thuravara- è il figliuol tuomiaclemente signorache in tal guisa ricorda la diletta del suo cuore.

- La risuscitata! - sclamò Semiramide.

- Sìpotente regina.

- E per grazia de' sommi Deinon è egli vero? - incalzòella con accento d'amara ironia. Thuravara chinò vergognoso la fronte.

- Sta bene; - proseguì la reginasenza cu­rarsi dellarisposta. - Tuvieni tra le nostre or­dinanze; e guai a te se non m'hai dettoil vero! -

Poco stanteera dato il cenno all'esercitoche tutto avessea rimettersi in moto ed accostarsi alle porte. Ellacol suo stuolo dicavalieripre­cedeva le squadre.

Giunsero in breve alle mura. Il ponte era alzato davanti allaporta; ma allo scalpitar dei cavalli sulla pianurale scolte s'erano affacciatealle fe­ritoiee allo squillar d'una tromba sul ciglione del fossofuronopronte a chiedere ai nuovi ar­rivati:

- Chi siete? In nome di chi venite?

- Siamo guerrieri di Ninia; - risposero gli altri. - Uscitidalle porte di settentrionetorniamo da questae per Anaìti veniamo.Sbrigatevi; sono i Medi aspettati con noi. -

II ponte fu tosto calato. Semiramide fu la prima a spingereil suo cavallo sull'ampio tavolato di cipresso.

- Giungono i soccorsi di Media! - gridavano intanto sottol'androne i custodi. - II veggente Nebo ci assiste.

- Egli viene su voitraditoriper fulminar le sue collere!- gridò Semiramidemenando a cer­chio la mazza ferrata entro lo stuolomalcauto.

- Per Anaìti custodivate le porte!... Per Semira­midearrendetevio tutti di mala morte morrete.

- La regina! sìè dessa la regina! - anda­vano ripetendoi malcapitatimentrequinci e quindi fuggendotentavano schermirsi dai colpi.- Chi l'avrebbe mai detto? Ahimè! c'ingannarono i sacerdoti; non erano perNinia gli Dei! -

Ben presto fu fatta strage di quella turba fug­gente; i piùlontanisentendosi incalzati dai ca­valierisi buttavano ginocchionichiedendo mercèed avevano così salva la vita. Non uno andò fino al baluardointerno della cittàper recarvi la ter­ribile nuova; e prima ancoraprimasempre tra tuttivi giunse l'audace guerrierail cui esercitoinfiammatodalla portentosa felicità dell'eventogià si accalcava sul pontesbucava dalprofondo andronesi dilagava nel vastissimo piano tra Imgur Bel e Nivitti.

Non era pugnanè inseguimento di nemici; era libera corsasfrenatain mezzo a spaventati drap­pelli. Entro il baluardo di Nivitti Bel fuun tu­multo indicibile. I primi che videro le negre schiere apparire aglisbocchi delle vie e irrompere nella cittàminacciose come una legione dispiriti d'a­bissosi sparpagliarono tosto per le strade mi­noriqualicercando nelle lor case rifugioquali fuggendo senza saper dovenon d'altrosolleciti che di scansare l'imminente pericolotutti levando altissime strida emettendo a romore e scompi­glio la sterminata città. Semiramide! È quiSemi­ramide alla riscossa! Sventura al popolo delle quattro favellesu cui laregia vendetta discende!

La tristissima voce per ogni dove s'è sparsaha precedutele squadre degl'invasori. Quanti n'han tempoo modosi danno alla fuga versol'Eufrate; l'ampia travata del ponte cigola sotto il peso e la furia diquell'onda di popoloche in­calza alla destra riva: uominidonnefanciullimezzo vestitiscarmigliatiignudicome il terri­bile annunzio li colsecomela paura li spinse.

Non cura la regina i fuggenti; anzitutto ella mira aimpadronirsi della reggia. Sfondano i suoi guerrieri l'ingressochiamano pernomeinvitano alla obbedienza i custodi. È la loro reginaè Semirarnidechebatte alle porte; chi più oltre ser­berà fede al ribelleinnanzi che giungail sole al meriggiopenderà inchiodato dai merli.

È l'albae già Semiramide ha ricuperato la sua reggianobile e forte arnesedove ella troverà armisicurezza ai nuovicombattimenti. Dall'altra sponda del fiume hanno appiccato il fuoco alta­volato del ponte; fuoco arde nel valico sotterra­neoper dar tempo airibelli di chiuderne più si­curamente lo sbocco. Ma che importa? Semiramide èpadronacon un colpo audacein poche oredi tutta la parte orientale diBabilonia.

- Graziesantissimi Numi! - ella dice. - Voi non avete toltala vostra mano da me; io sono ancora la regina degli Accad. -

 

 

CAPITOLO XXI.

 

 

LA MANO DI NISROC.

 

 

La fortunache già sembrava avere abbando­nato le insegnedi Semiramidetornava ora a farle buon viso. Era pentimentosommessioneall'audaciao crudelissimo scherno? Risorgeva la regina più gloriosa e piùforte dal suo abbatti­mentoo non era a vedersi altro in quella arditariscossa che il sollevarsi del guerriero sulle ginocchia e l'ultimo suo brandirl'arme sanguinosa contro il nemico che sta per finirlo? I prossimi eventidovevano dar la risposta.

Intantomercè la sua rapida corsa e l'occasione prontamenteafferrataella era venuta a capo di penetrare in Babilonia e di farla sua finoalla si­nistra riva del fiume. Solleciti messaggi avevano mosso Faleg dal suobaluardo di Sipparae men­tre egli rumoreggiava alle porte della spondade­stratirandosi sopra una gran parte dell'esercito dei ribellila reginatentava con barche e zat­tere d'otri gonfiati il passaggio del fiumeefinal­mente ristorava la travata del ponte sotto una pioggia di dardi.

Ninia e Zerdustecon tutti i lorosi ritrassero in Barsipala città sacerdotalecongiunta a Ba­bilonia da un prolungamento del muroesternoma forte di per sè stessa e dentro e fuoriac­concia a durare permesi e mesi un assedio.

Colàall'ombra del più eccelso tempio di Babilonia e delmondoincuorato dalla inflessibile baldanza di Zerdustesorretto dal favoredei sa­cerdotiammaliato dalle carezze di Anaìtiposava il giovin ribelleonon curanteo inconsapevole del suo delitto. Infinenon era egli il reunicaprole di Ninoultimo della stirpe di Nemrod? I santi ministri delle sette lucidella terra non avevano essi consacrato il suo capo? L'oracolo di Belo non avevaegli pronunziata la reità di Semiramide al cospetto dei cieli? Inoltreconforme al volere dei sommi Dei di Babilonianon era forse il volere del Diodi Zerduste? Mai tra rivali di­vinità si era manifestata una simiglianteconcordia.

Invero l'astuto principe di Bakdi si era rigida­menteastenuto dal palesar la sua fede. Da lunga pezza egli soleva dire al suo regiodiscepolo che il tempo non era anche venuto di annunziare il regno di Ahuramazdaalle genti; questa essere dottrina eccelsa pei savi; al volgo doversi lasciareintanto le sue idolatrie grossolane. Nessuna prova di loro virtù avevano fattagli Dei di Babilonia a favore di Ninia; laddove il soffio potente di Ahura gliaveva restituita la sua diletta Anaìti. Egli l'aveva pure vedutalànel suocasolare tra i palmeti di Gomerdistesa sul letto di mortele membrapro­sciolte e fredde; invano aveva pianto amarissime lagrime; invano avevachiesto a' suoi numi un prodigio. Ma laggiùne' sotterranei di Babiloniaoveil Dio vero nascondeva ancora il suo puris­simo cultoegli aveva pure uditodalla voce di Mazda la cagione per cui era morta Anaiti. "Non tra oziiimbelli doveano poltrire i nati di re; amori e carezze di donna amata esserpremio ai valo­rosiai fedeli seguaci degl'insegnamenti celestinon facilsollazzonon riposo consentito a mezzo il camminoquando il debito delle santeopere e la via lunga sospingono. A luiper venturaage­vole il meritarsi quelpremiointercedendo la cara autorità di Zerdustenè chiedendosi troppo lungodisagio a chi dovea regger lo scettromoderatore di popoli. Cedesse adunque ailagni di Babiloniasdegnata per una stolta e rovinosa guerra e per maggioridanni minacciati al buon seme cussita; cedesse alle voci che il cieloprov­vidamente spirava sulle labbra degl'idoli bugiardi; cingesse corona di reed Anaìti sorgeva dal suo letto funereo. Resa a lui dal favore di Mazdaal suoardimentoal suo perseverar ne' propositi era sospesa la vita della fanciulladiletta."

Oraa mala pena nel tempio di Belo il credulo adolescenteaveva impugnato lo scettro d'oronon erasi infuso di bel nuovo lo spiritovitale nelle rigide membra di lei? Non aveva egli sentito sotto la sua manotremante riscaldarsi e palpitare quel bianco senoa cui tre giorni innanziaveano ten­tato invano ridar la vita i suoi baci? Così Ninia era statocondotto ai voleri di Zerdustee fatto ribellenimico alla maestà di suamadre. Nè già viveva pel regnodi cui lasciava ogni pensiero al sapientemaestro; nè già si curava della sua sconfinata autoritàse non per ricordareche la regia possanza è una piramide al cui sommo sta preparata e colma lacoppa di tutte le umane de­lizie. Viveva allora per Anaìtiper quellafiorente bellezza che si profondeva inconsapevole a luitremante di dovermorire se egli vacillassee per amoreper ambizioneper pauraincatenata alsuo fianco. E in luiil saperla così sospesa tra morte e vita accrescevagliardori. Si amadiconoassai più fortemente ciò che si teme di perdere.Triste sentenzase vera; ma forse ciò che pei nobili cuori non èpotrebbecredersi vero per l'anima fiacca e per l'indole tutta sensuale di Ninia; di quellioncelloa cuiper mezzo agl'ingenui moti della tenera etàcresceva laferocia dell'avita natura.

Insignoritesi con tali arti della mente di Niniail principedi Bakdi non aveva durato fatica ad attizzar gli sdegni del popolo; la mercè difalsi messaggi e di aggranditi pericoliaveva aggiunto esca al fuocoeconl'immagine dei certissimi danniinfiammati gli spiriti a rivolta.

Facili i volghi ad essere trascinati; più facilise vissutiin lenta ed inerte soggezionea credere ogni cosaa farsi stromentodocilissimo in mano agli scaltri. Nè manco agevolepel grado suo e perl'imperio ch'esercitava su Niniagli era tor­nato di vincere la riluttanza deisacerdoti. Sempre più ardente di giorno in giorno la plebe; impen­sierite peilor cari assenti le più ragguardevoli famiglie; tutti contrarii ad una guerrache accor­tamente si mostrava esser frutto di un'amorosa follia; non avrebberoardito i sacerdoti far contro alla corrente delle popolari opinioni. VolevasiNinia per re; meglio averlo tale e dominarlocome offeriva Zerdustecheosteggiarlo invanoopponendosi ai voti del popolo. Il saccanàcoil granvicario degli Deisi faceva schiavo in tal guisa agli eventiassicurava aipiù forti la bene­volenza del cielo; vecchio costume degli uomini che sivantano di custodirne i responsi! Emale­detta Semiramide lontanaNinia eraincoronato sulla gran torre di Barsipa; armi ed armati si raccoglievano dallevicine provincie; i Medigli Elamitie quanti eran popoli soggetti di làdallo Zagrotutti incitati a scuotere il giogo. L'imperosaldo in apparenza edurevolesi sarebbe sfa­sciato dopo il trionfo delle schiere ribellise purelo stesso Zerdustesotto colore di chiamare i Medi a difesa della stirpe diNemrodnon pensava a disfarsiper utile suodi quel malaccorto adole­scentetrastullo nelle sue manivera larva di re.

E intanto che costuiriparato con Ninia entro le mura diBarsipafaceva assegnamento sulla irruzione dei Medisullo scompigliarsidell'eser­cito di Semiramide e sulle ire di Babiloniacre­sciute a dismisuraper la morte di tante migliaia de' suoi cittadinila fortissima donna vacillavanei suoi consigliesitava a condurre innanzi l'opera sua. Il nemico ch'elladoveva combattereche un colpo malaugurato de' suoi ingegni di guerra po­tevastendere al suoloera Niniaera suo figlio! ll tradimento dei Casdim laturbava altresìla faceva più perplessa. Bene erano ossequenti a lei isacerdoti di Militta e di Neborimasti in città; ma che potevano costorocontro il maggior nu­mero rifugiato in Barsipa ed anco di là possente sulpopolotranne il pregare in silenzio?

Fatta accorta del pericoloconfidandosi inoltre che il suoinaspettato trionfo in Babilonia avesse ridotto quei temuti nemici a più miticonsiglidiè mano a pratiche segrete con essifacendo che alcuno deisacerdoti di Nebo andasse a Barsipacome a cercarvi rifugioeavuto agio diparlare col saccanàcoogni più larga promessa e giura­mento gli facesseinnome di lei. Frattanto i giorni scorrevanoed altri dolori le si stringevano alcuore.

Il re d'Armenia andava ricuperando la sanità ad occhiveggenti. La ferita non aveva nulla avuto di gravetranne forse lo spargimentocopioso del sangue. Vinta la febbre mercè il farmaco dell'In­dianoegli eratornato in sè medesimoe la in­genita vitalità aveva trionfato di tuttoperfino della negra mestizia che gl'ingombrava lo spirito. Il cammino da' suoimonti natali alla pianura del Sennaar non gli era tornato a disagiodappoichèla sua scorta viaggiava sempre nelle ore notturneed egli posava su morbidepiumeprocedendo leggero e senza scosseo sobbalzial dolcissimo passo deicammelli battriani. La tacita compagnia giungeva in Babilonia tre giorni dopo ilvittorioso ingresso di Semiramidee la frescura dei pensili ortil'abbondanzadi tutti gli agi del vivereave­vano rinfrancate le membra affralite delgiovinefacendo il resto la gioventùquesta medicina in­comparabilechetuttiahimè! non sempre por­tiamo dentro di noi. Sbiancato mostrava il voltogià tinto di rosa e ammorbidito da riflessi dorati; una nube di tristezzaoffuscava il placido lume degli occhi; pure la sua bellezza non aveva nullaperduto della prima virtù; simile al fiore che il soffio della bufera haaliditoma che un tiepido raggio di sole ravviva.

Semiramide lo aveva veduto. Nel suo breve colloquio con leiil prigione erasi mostrato osse­quiosoma freddo. Posto di bel nuovo alcospetto di quella sovrumana bellezza che lo aveva rapitomemore di tanteangoscepiù ancora di tante dolcezzecombattuto da contrarii pensieri e daimmagini di lutto recentesi adirava con sè medesimosi struggeva di nonodiarla quanto avreb­be dovuto.

- Son vinto e tuo prigioniero; - le disse. - Fammi morire;altro io non aspetto oramai. Donna di grande animo ti dice la famae le impresetue ti dimostrano. Fanne un'ultima prova per meaf­frettando il mio fineedio benedirò l'odio tuo.

- Nemico di un giornoe pensi ch'io t'odii? - replicònobilmente la regina. - Ho vendicato un ol­traggioho punito un atto diribellione; tutto l'altro io non ricordonon vedo. Son regina per te come pertutti; ciò soltanto soffri da Semiramide. Ella è soddisfatta: nè pensaaidolori patitio alle pro­fonde allegrezze che si riprometteva dalla sinceritàdel suo cuorese non per lagnarsi della sortea lei così larga dispensatricedi potenzae così avara di giustizia nel mondo. Credi tu che di questapo­tenza m'importi? Credi tu che mi prema del regio fastodell'imperoaccresciuto e di questa Babiloniache un mio cenno ha creata? Io sono piùsuperba a gran pezza; mi paragono alla stella che tra­scorre veloce lo spazio enon cura il solco di luce che lascia dietro di sè. Mi spegnerò come hovissutosplendendo; ma non vo' che nulla offu­schi a' tuoi occhi il mioraggio; non l'amor tuola tua stima domando. So quali ragioni t'abbiano mossoalla fuga; Sumàtiinnanzi di cercare spon­taneo la morte nelle acque salse diVanmi ha confessato ogni cosa. Tu fosti vittima di un'empia macchinazionechel'abisso non poteva imma­ginar la più nera. Per darle a' tuoi occhi colore diveritàun tuo fedele ti ha venduto ai nostri comuni nemici.

- Un mio fedele! - sclamò Ara turbato. - Altri non meritòpiù questo nomeche Bared. Impossibile! Bared pugnava al mio fianco. Nontradisconoi valorosi. Fatto prigione con meper­chè non lo vedo io al miofianco? -

Tostoad un cenno di Semiramidefu cercato per ogni dovel'infido scudiere del re. Ma invano. Barednel muoversi dei prigioni daArmavirpro­fittando della confusione in cui era l'esercitoaveva presa lafuganè più s'era avuta nuova di lui.

- Tu lo vedio regina? - disse Aracon piglio severo. -Anche Baredl'ultimo testimoneti manca. Egli purecome Sumàti....

- Basta! - tuonò la reginail cui sangue si rimescolòtutto e riarsecome le fosse penetrato un dardo rovente nel cuore.

E furono le ultime parole di lei. Composta negli attigravenell'aspettoma fieramente combattuta nell'animovacillantesmarrita disensiuscì la misera donna. Ella non era più Semiramide; non era più laregina. Sìben lo sentiva in quel punto; la sua fortuna era fuggita persempre; la dura mano di Nisroc si aggravava su lei.

A che più combattere? Per quali speranze? A qual pro? È deigiovani il travagliarsidurare aspre fatiche animosi; dei giovaniche hanno ilfuturo davanti a sèper chiamarli colle arcane sue vocistimolarli colle sueconfuse promesse. Ma il vec­chiodeserto d'ogni promessa e d'ogni speranzaache tenderebbe i nervi e l'ingegnoconscio pur troppo che pochi passi piùoltre una fossa lo aspetta? Così Semiramidea cui la gioventù splen­devaancora sul voltoma più non esultava nel cuore. Viverevincereregnareperchè? Non è grata faticadove manchi la speranza del premio. È vanitàrialzare un tronosu cui non abbia a sedere che un'ombra. Cedono alloracedonole anime grandi ai più profondi sconforti. Gittar l'opera di tante bracciaobbedientispargere inu­tilmente il sangue proprio e l'altruipeggio cheerrore non è forse un delitto? E varrà egli per avventuracontro queste vocidella coscienza il dire che giusta è la causa per cui si combatte? Sarà scusabastevole al cospetto del mondoo conforto per sèl'aver combattuto perseguire la sua generosa natura?

Chiusa nel silenzio delle sue stanzela regina pensava. Cheaveva ella fatto di così reoda me­ritarle un tal scempio? Vedova di Ninoavevapiù ancora che colle sue vittoriecolla temuta altezza del nomeformato il più vasto impero che fosse mai; aveva recato un sorriso di grazianella forzaun raggio di serena maestà nella ferocia di que' prepotentiCussiti. Luce e bellezza è la donna nel mondo; solo quando ella vi apparvecredettero gl'immortali che Dio avesse compiuto l'opera sua. Tale era stataSemiramide sul trono degli Accadluce e bellezza all'impero. Ma forse l'albadei leggiadri costumi non era anche spun­tata; ed ellaprecoce apparizionedoveva rimanere come un gentile esempio ai venturimeteora lu­minosa in quelletenebre lunghe.

Cionondimenoera egli forse un delitto lo aver tentato diraggentilire i culti disumani e rozzilo avere raunati tanti sparsi popoli inun grande consorziolo aver recati i benefizi d'una civiltà nascente su tantaparte della terra? E di chese giustizia celeste presiede all'opere umanediche era ella punita? D'esser donna e pietosad'aver con­fidato negli uominid'averli reputati magnanimi e schietti al pari di sèdi non aver creduto alletenebre perchè essa era la luceal livore perchè essa era la bontàall'ingratitudinealla viltàal tradimentoperchè essa era la generositàla gran­dezza e la fede. Sìquella era colpa sua; nè do­veva per ciòmuover lagno agli Dei. Ahcome avrebbe voluto mutarsi allorafarsi tutt'altrada quella di primaesser barbaraincrudelireope­rare il malecome tantinel mondoper la sola voluttà del male! Ahse quel tristo adolescentequelmostro di perfidia precocenon fosse uscito dal suo grembocome le sarebbebastato l'animo di entrare in Barsipa col ferro e col fuocoe làal sommodella torrecostringerlo a bere il san­gue del suo Zerduste e del gransacerdote di Beloconfitti a lungo martirio sugli altari bugiardi!

Ma ella era madre; era magnanima e pia; i fe­roci pensieritrascorrevano veloci nella sua mentea guisa di nuvole rotte in un cielosereno. La no­bile creatura non poteva mentire all'indole sua; dovevastruggersi nel suo dolore impossentee caderese così voleva il destino.

Gli eventi incalzavano. MediPersiElamitisi eranoribellati ai governatori delle provincie. Le torme loro muoveano minacciose daimontialla volta del Sennaar; cotesto recavano i frettolosi messaggicome nelprofetico sogno della rocca di Van. Fortuna estrema per leiche i popolisol­levati non si fossero posti prima in camminocomenella veemenza de' suoidesideriiaveva sperato Zerduste! Frattantoegli bisognava spe­dire un buonnerbo di valorosi ad affrontarli; ella stessa avrebbe dovuto correr laggiùcoglierli alla sprovveduta e sconfiggerli. Ma come uscire di Babiloniacomesfornire la città di soldatimen­tre i ribelli erano così numerosi inBarsipa e dal­l'alto delle mura certo spiavano l'occasione di ri­farsi alleoffese?

InoltreBabilonia non era sicuravacillava nell'obbedienza.I grandiforza e decoro della cittàsi erano allontanati con Ninia; il popolorima­nevama inquietocrucciososbigottito tra i mali presenti el'incertezza del futuro. Cessate le festerovinati i commercirotte leconsuetudini d'una vita facile e pianaa cui era necessaria la pro­sperità ditutto l'imperoben si scorgeva che il ritorno della pristina pace non era piùpossibile oramaisenza varcare un'altra sequela di durissime prove. E d'ognicosa (siccome avviene in mezzo alle pubbliche calamitàche fanno gli animiingiusti) si accagionava l'autorità più vicinaquella a cui sarebbe bisognatodar forza per uscire con essa d'angustie; s'accagionava Semiramidela reginaveral'autrice di tanta prosperità passata; non Niniail ribelledelle cuigrandi operedelle cui felici impromessenull'altro pur anche era notofuorchè il suo tradimento.

Gran colpaagli occhi del volgoun'ora di mu­tata fortuna!A Semiramide niente giovava aver tante cose operato per la felicità di quelpopolo. Che era per costoro il passato? Un generoso li­quore bevuto a rapidisorsiun'ebbrezzaun so­gno felicedi cui non si serba gratitudinee moltoè se la memoria rimane. Del presente era ella ac­cusatadel triste presentedi ciò che la regina non avea fatto per soggettarsi il destinodi ciò cheNiniaZerdustecomplice il popolo di Babiloniaavevano perpetrato contro dilei.

Intantoluttosquallore e tumulto per ogni dove. In mezzoall'abbondanzasi pativa difetto d'ogni cosa. Col pretesto della pugnaimminentesi smet­teva il lavoro; si domandava panee avutolo si chiedeva chefossero aperti i granai. Nè di mi­nore ansietà era cagione l'esercito. Tuttequelle migliaia di guerrieri d'ogni nazioneforti e com­patte schiereall'apertoriuscivano colà branchi disordinati e turbolentifacili ascorarsipiù facili a secondareche non a contenere ne' suoi vaneg­giamentila plebe.

Emissarii di Zerdustefautori di ribellionecor­revano dicontinuo tra le file. Erano popolonè poteva sospettarsi di loro.

- Contro chi combattete? - dicevano. - E per chi? Doloroso èmorirequando a nulla giova la morte. Sapete a cui siano propizi gli Dei? Noncerto a Semiramide! La sua stella è tramontatadopo ch'ella ha volutosacrificare agl'idoli stra­nieri. Ninia ha da essere un giorno il re nostro; ache combatterlo oggi? Egli è oramai al suo sedicesimo annoe l'ha educato alregno la savia tutela di Zerduste. Egli è ragionevole checre­sciuto neglianni e nella saviezza il discendente di Nemrodlo scettro continui ad esserimpugnato da una fragil mano di donna? Compagna la for­tuna ed auspice la granmemoria di Ninocostei ha potuto condurre innanzi malagevoli impresealtrelasciarne a mezzosenza troppo suo scorno. Oggiabbandonata dal favore de'cieliesce in mostruose follie. Il miglior sangue di Babilonia s'è sparsoinutilmente nelle gole d'Armenia. Il vo­stro si spargerà inutilmente del parisotto le ine­spugnabili mura di Barsipacon alto rammarico dei vostri cariche v'aspettano tremanti alle case natali. Ninia vi darà pace; egli virimanderà liberi e ricchi alle vostre contrade. Che può darvi ora­maiSemiramidese non certezza di forsennati as­salti e di morte ingloriosa? trabreve incalzeranno alle porte i popoli sollevati dalle regioni orientali. Avremoguerra dentro e fuoricarestiadesola­zioneesterminio. Che farete voiuomini di Elamvoi MediPersiAriarvicavalieri animosisu cui Semiramidefa assegnamento per distruggere il popolo delle quattro favelle? Uscirete voi incampo apertospingerete i baldi corsieri contro i vostri fratelli di sanguescesi dai monti in aiuto del le­gittimo re? -

Con arti siffatte era tentata e scossa la fedeltàdell'esercito. Nè più molto occorreva; forse una lieve occasione dovea bastarea discioglierlo.

- Viva Niniain perpetuo! - già avevano in­cominciato agridare i nativi del Sennaar.

- E Anaìticon luila vezzosa regina! - sog­giungevano ipopolani. - Quella è nostranata del nostro sangue più schietto. Felice chila vedràcome noi l'abbiam vedutapassare per queste viebella come il solenascentee dall'alto del suo cocchio d'argento e d'oro sparger sorrisi esaluticome sparge fragranze il fiore della mandragora. È dessaAnaìtilavera rosa del Sennaar; la venturiera d'Ascalona più non usurpi quel nome. -

E scorrevatra i dissennatiscorrevaversato largamentenei caliciil liquor della palma. Cit­tadini e soldatidopo aver maledettoalle regali folliepianto sui mali presenti e sui temuti danni futurigozzovigliavanoinfingardivanotumultua­vano insieme.

I capitani delle squadregiustamente inquietiandavano aconsiglio presso la regina.

- I soldatisparsi tra il popoloavranno per­duto ogniritegno ben presto; la licenza e la ri­bellione son penetrate nel campo. Badao regina: se i rivoltosi di Media giungeranno alle portecon quali forzeandremo noi a combatterli? -

Semiramideoppressa da tanta rovinaperduta nel suo ascosodolorenon sapeva a qual partito appigliarsi. Dar tosto l'assalto a Barsipa?Sì certo era quello il più saggio consiglio; e lào vincereo morire! Ma ilsuo cuore materno tremava. In­fatticome maisenza mandare in fiamme il covodei ribelliavrebbe ella potuto metter piede colà?

Falegsempre costante nella sua fede e ammo­nito dallanecessità di uscir presto da quella in­certezzapropose un suo divisamentealla regina.

- Se tu tentassi di bandire una treguae di chiamare aparlamento gli anziani di Babiloniainsieme coi grandi rifuggiti in Barsipa? Tuudresti ciò ch'essi dimandano; essi le tue proposteo signora. Imperocchètulo vediquesta inerzia è fatale. O assalire i baluardio calare agli accordima subito!

- E siacome tu saviamente proponi! - ri­spose la regina. -Vengano a parlamentoe di­cano l'animo loro qual è. -

Indettatesi d'ogni cosa con leiFaleg esce solle­cito dallareggia e manda gli araldi per la città. Egli stesso sale arditamente in arcionee s'avvia con pochi uomini di scortaa Barsipa. Giunto a' piè delle mura efatte squillare le trombecosì parla ai ribelli:

- In nome della possente signora degli Accad cui Nebo haconcesso l'impero dello scettro e la vittoria della spadaa voi cittadini edifensori di Barsipatregua è proposta da questo momento fino all'alba didoman l'altroche sarà il trentesimo giorno di Tana. I soccorsiche voiattendete dalle terre del sole orientenon giungeranno prima di sei giorni invicinanza di Babilu. Così recano i nostri esploratori; vedete voi medesimi sevi confortino più felici notizie. In questo ter­mineio ve lo annunzioBarsipa sarà espugnata col ferro e col fuoco. Or dunqueaccettate la tre­guae quale di voi l'abbia gratopurchè sia dei maggiorenti di Kiprat Arbat (oprincipe tra i suoise straniero alla terra del Sennaar)venga a par­lamentonella reggiainsieme cogli anziani di Babilu. Udrà la regina le proposte de'suoi avver­sariie che cosa essi chiedano da lei per far po­sare la guerra;ella dirà ciò che da loro s'aspettao che può loro concedere. Liberi e sacrigli in­viati di Barsipa; maledettodai sommi Dei chiun­quedurante latreguatenterà cosa alcuna a danno del suo più odiato nemico. -

 

 

CAPITOLO XXII.

 

 

IL BIVIO.

 

 

Dispiacque la proposta in Barsipa. Che vuole costei?dimandavano i ribelliradunati a consi­glio. Qual nuovo inganno si cela inquesta treguache ella ci profferisce? Tarderanno ancora parec­chi giorni isoccorsi di Media; che importa? Le nostre mura sono saldee ingegni di guerranon mancano a noiper respingere i minacciati as­salti della regina. Allaperfinedi quali speranze si nutrecol popolo avverso e l'esercito mal fido? Enon è forse da credere che ella tema più di noi l'esito di quest'ultimoscontro? Di certole è giunto all'orecchio che domanidal sommo della grantorrei Casdim chiameranno solennemente sovr'essa la maledizione degli Deiequesta sua profferta è intesa a scongiurare il pericolo. Ella ben sa che ilpopolo di Kiprat Arbatservo rive­rente dei Numisi solleverà contro di leidichia­rata sacrilegae l'esercitoin cui è tanta parte dei figli delSennaarpiglierà ansa a sostenere le ragioni del popolo. Nosi risponda aFalegnon treguanè accordi!

Vinceva per tal guisa il partito di respingere la proposta.Ma Zerdusteche fino a quel punto aveva serbato il silenziosi oppose.

- Due notti in Babilonia- egli disse- sono gran venturaper noiquale non ci era dato spe­rare dalla benevolenza del cielo. Ponetementeo savi consiglieri del re: ciò che a noi tornò così malagevole diottenerela mercè di destri emis­sariitenteremo liberamente noi stessi perle vie della cittànelle lunghe ore che ci consente la tregua. Nè cosìaudace è il popolonè ancora così pronto ad ammutinarsi l'esercito. D'unapropizia occasione è mestierie questa occasione è la tregua.

- Ma sarà ella osservatala tregua? - nota­rono gli altricon accento di dubbio. - Non è per avventura da temersi una insidia?

- Semiramide non è donna da tendere insidie! - risposebrevemente Zerduste. - Ciò ch'ella promette fedelmente atterrà. State di buonanimoed eleggete quali di voi dovranno recarsi alla reggia. Io medesimochepiù d'ogni altro avrei cagion di temerescenderò in Babilonia cogli in­viatidel re e col venerato collegio dei Casdim. -

OraZerduste era l'anima della rivolta e a lui tuttifacevano capocome al vero monarca. I Casdim medesimiai quali l'astutoprometteva tanta possanza nell'imperoerano a lui vincolati. La proposta fudunque accettata.

Tostorecatesi alle porte della cittàil principe di Bakdivenne a parlamento con Faleg.

- La regina ascolterà dunque i voti del Casdim e dei grandirifuggiti in Barsipa?

- E degli anziani di Babilu; - aggiunse Faleg. - Il popolorimasto in città è sempre il maggior numero; nè il suo votoqualunque essosiava lasciato in disparte.

- Sta bene; - disse Zerduste. - E che intendi tu per altridei ribellipurchè siano principi delle loro nazioni? Son io dunque delnumero?

- Tu primo- rispose l’inviato di Semiramide- e le mieparole indicavano te. Non fosti tu il consigliere della ribellione? Non comanditunon fai ogni cosa a tuo talento appo il re? Vieni dun­quese ti aggrada;la tua personacome quella d'ogni altroci è sacra. -

Così minutamente convenuti di tuttofu giurata quelmedesimo giorno la tregua nel tempio di Nebo. Giurò Zerduste per Ninia e peiribelli; Faleg per la regina e per l'esercito suo; Abdenagoil primo deglianzianipel popolo delle quattro fa­velle.

Babilonia si rasserenò come per incantodopo che gli araldiebbero bandita quella sospensione d'armealtrettanto graditaquanto erainattesa. Gli animiriaperti alla speranzaintravvidero la pace imminente. Ache si sarebbe fatta la treguase non fosse parso ai combattenti di potergiun­gere ad utili accordi? Del restol'esser chiamati in mezzo gli anzianidella cittàquasi arbitri del litigioaffidava il popolo che in un modo onel­l'altroper la madre o pel figliogli sarebbe re­stituita la calma.

In sull'ora del tramontoschiuse le porte di Barsipascesero i grandi e i sacerdoti in Babi­lonia. Sulle orme loro si affrettaronomolti altriche pure non dovevano andare alla reggiaguer­rieri e cittadinia cui premeva di vedere i con­giunti o gli amici. Nè Faleg si oppose a questolor desiderio. Cosìlargheggiando di generosità e di clemenzavoleaSemiramide. Non erano che un solo i due popoli; soltanto le sorti della guerraintestina li avean separati; tornassero quelli di primafinchè durava latregua.

La mattina del giorno seguenteche fu il ventesimonono diTanagli anziani di Babilucon­dotti da Abdenagoi capi della rivoltae imaggiori tra i Casdimguidati dal saccanàcoascendevano alla reggiaed eranointrodotti nella sala di Nemrodal cospetto della regina.

Semiramide era seduta sul tronopallida in voltomatranquillain atteggiamento regale. Immobili ai suoi fianchi stavano iflabellifericon alti ven­tagli di pennei melofori coll'armi in pugno e iportatori di scettrointerpetri e ministri de' suoi alti comandi. Faleg e icapi dell'esercito erano in attesaraccolti ai piedi del trono.

Zerduste non era tra i nuovi venuti. O fosse riguardo persèo atto di meditata cortesia verso la regina egli non aveva posto piede làdentro; ma bene erasi aperto cogli altried essi indettati con luid'ogni cosache avessero a dire. Il saccanàcoper giusto riserbo della sua dignitànonvoleva dal canto suo esser primo ad ossequiar Semiramide. Però l'ufficio diparlare in nome di tutti era commesso al capo degli anzianiche di­fatti fu ilprimo ad inoltrarsi a' piedi del trono.

- Potente signora- disse Abdenagoinchi­nandosi a mezzo- vivi in perpetuo!

- E a te ed a chi viene con te- rispose la regina- dianlume di savio consiglio i celesti. Io vo' che posi la guerraeperdonati iribelliallontanati gli estranisia riverita la mia autorità dal popolo dellequattro favelle. Orache pensate voi dell'offerta? I disegni della mia clemenzason questi. Amo meglio vengano essi incontro a voiin sembianza di doniamorevolianzi che paiano concessioni lungamente patteggiatee quasistrap­pate alla resistenza d'un animo acerbo. Madre io mi tengo del popolocome sono di Ninia. La mia fede vi è nota. Schietto ed aperto ditemi dunquel'animo vostro. -

Abdenago si fece innanzi d'un passoe postasi la manca sulpetto e stesa la destra in altocome per aggiungere solennità al suo discorsoparlò:

- Reginanon ti dispiaccia il mio dire. Pel mio labbro tiparlano gli ordini tutti della cittài ri­fuggiti in Barsipail veneratocollegio dei Casdim. ll popolo delle quattro favelle è per cagion tuasventurato. Sempredacchè lo raccolse in questa pianura e gli diè legge ilfortissimo Nemrodque­sto popolo fu governato da rescesi tutti da unamedesima stirpe. Per la prima volta l'ebbe in sua balla una donnae quella tufosti. La tenera età di Niniala tua gloriala tua fortunapersuasero dilasciarti lo scettroche soltanto a destre virili era concesso impugnare....

- Io lo tenni per virtù mianon l'ebbi in grazia a voi! -interruppe la regina.

- E sia; - disse di rimando Abdenago; - noi dunque a forzaobbedientinon già condiscen­denti alla tua autorità per nostra elezione.Re­gnasti sola e felice undici anni; la fortuna arrise alle tue armifino aquel giorno checondotto il tuo esercito sulle rive dell'Indo lontanoilSignor delle sorti volse la sua faccia da tee tu non campasti che colla fugada una certissima morte.-

Un amaro sorriso sfiorò le labbra di Semiramide.

- Trasvolate assai presto undici anni di gloria! - diss'ellacon piglio sarcastico. - Vi giova al­tresì dimenticare che questa felicitàquesta gran­dezzadi cui rimpiangete la perditavoiprima e vera cagione delvostro medesimo dannosono opere mie. Chi ha fatto l'impero? Chi ha esaltato isommi Dei di Babilu al cospetto delle vinte na­zioni? Prima che io fossiioavventuriera d'Ascalonasiccome taluno di voi oltraggiosamente mi chiamanessuno degli Accad aveva ancora ve­duto un tratto di mare. Io quattro ne vidie sulle rive trionfate posi i confini della miadella vostra possanza. Chi hasoggettato al nome dei figli di Cus tutto il paese di Martudalle arene diMesraim fino alle spiaggie di Rifatcon entro città popo­lose e fiorenti ditraffichie Chittime Caftor e tutte l'altre isole belle che si specchiano nelmare del sole occidente? Bene le terre dei Medi attras­sero il cupido sguardodei vostri reda Nemrod a Nino; ma chi venne a capo della resistenza di Bakdidella città che sovrasta con l'alta bandiera su tutta la contrada del soleorientedal Caspioin cui l'Oxo si versainfino all'Eritreodove l'Indomette le numerose sue foci? Chi stese il regno alla terra degli aromi edell'oroche siede felice in mezzo a tre mari? e le prede di tante guerreitributi di tanti popoli soggiogatichiusi io forse per meo gittai nellefeste? Non mutaidov'era bisognoil corso de' fiumi? Non murai cittadelle? Nonapersi vie spazioseov'erano dapprima bo­scagliedirupi e libere orme difiere? Io strinsi d'argini poderosi l'Eufrate ed il Tigri; io riedificai lacittàcingendola di saldissime mura e di fosso profondo; io innalzai questareggiasplendor della terra; io que' templigrata dimora ai ce­lesti. Qualedei vostri barbari resia egli pure Nemrodil terribile cacciatore di popolio Ninomio sposogiunse a tanto di gloria? E a me si ardi­sce dar cagionedelle sventure di Babilu? Dinanzi a me si ardisce rimpiangere la mano d'un re? -

Un mormorìo d'approvazione era corso per le file deicortigiani e dei capi dell'esercitomolti de' quali avevano partecipato aipericoli e alla gloria di tante nobilissime imprese. Gli stessi cittadini diBabiloniae parecchi dei grandi rifug­giti in Barsipaavevano sentito comeun'aura della passata grandezza aleggiare sulle loro cer­vici e curvarle adatto di riverenza e d'ossequio. Ma Abdenagonella cui mente aveva stillato lesue sapienti perfidie il principe di Bakdinon si era dato per vinto:

- E sia ancora; - ripigliò il capo degli anziani- siasempre come tu dicio regina. Tante mi­rabili cose hai operatooper direpiù veramentehanno operato per tua mano gli Dei protettori di Babilu. Maperchèa mezzo il corso de' tuoi be­nefizihai tu voluto arrestarti edistruggerne i frutti? Perchè tufondatrice dell'imperofacendo contro a testessati sei consigliata di mandarlo a rovina? Questa recente guerra contro lamale­detta Armeniaper qual ragione fu impresa? -

E Abdenagouscendo in questa dimandasi piantò arditamentedinanzi al tronoguardando la regina con aria di sfida. Parlavano pel suolabbro i lutti numerosi che quella guerra aveva arrecati a Babiloniae glicrescevano l'audacia. Fremettero i convenuti nella sala di Nemrodquali dimemore sdegnoquali di corruccio per la te­meraria domanda; ma gli uni e glialtriben sa­pendo che là era il nodo di quell'aspra contesastettero mutied intenti ad aspettare la risposta di Semiramide. Essa fu breve.

- Non vi ho mai detto perchè imprendessi le altre; - dissealteramente la regina; - non vi dirò dunque le cagioni di questa. Ben vogliosia ricordato da voi che l'Armenia era soggetta a tributo e ched'improvvisoscossa la nostra auto­ritàoffesa dai figli d'Aìco la maestà del tronodegli Accadoccorreva domarne con pronta guerra l'orgoglio. Un grande imperosiccome il nostro non può viver sicurocon audaci e turbolenti ne­mici allespalle.

- Così non dice la fama! - replicò prontamente l'anziano.

- La fama! - esclamò Semiramide. - La fama! - ripetè conironico accento. - E che si fa dire a questa compiacente ministra dell'invidiadel maltalento e della stoltezza del volgo?

- Che fu un capriccio di donna; - rispose Abdenagosenzafermarsi a raddrizzare la frase. - Condonamio reginale ruvide ma schietteparole. Siam qui per farti udire la voce del veronon piaggerìe di serviossequenti e paurosi. Questa guerra è costata tesori. Per essasettantamiriadi d'armati furono raccolte in Assur; tutte le più valide braccia toltealle case loro e all'operosa pace dei campi. Ma che dico dei tesori profusiquando è il sangue sparso che grida vendetta? Duecento migliaia di combattentilasciarono la vita ne' preziosi monti d'Armenianelle infami strette diAjotzor! Tu vincevio regina; trionfavi del riluttante Armeno e godevi in cuortuo; ma tu non eri già nella desolata terra del Sennaarconfusa tra le orbatefamiglie di Babiluper lun­ghe e terribili ore immobile sulla rivadell'Eufrate a contemplare i cadaveri tratti nell'onde vorticose del fiumenatìo! Il fiore e il nerbo della nostra schiatta miseramente perduto; idiecimila cavalieri di Beloonore e forza della progenie di Nemrodmietutidall'orrida morte; e perchè? Guerra utile era forse cotesta? O necessariaalmeno? Che non la facesti tu prima? Che non ne rimovesti i danni con previdenteconsiglio? Ma inutile erainutile e dannosa pel popolo di Kiprat Arbat; utilesol­tanto a' tuoi corrucciprofittevole alle tue regali vendette!...

- E non erano esse le vostre? - interruppe Semiramide. -Lasciamo le perfidie che s'ascon­dono nelle tue paroleo Abdenago; la reginale ha uditee ti basti. Di tante morti mi duole; a me prima e più fortementeè doluto che a voi. Ma la sorte delle battaglie è cotesta; nè la vittoriafrut­tìficasenza che il campo sia innaffiato di sangue. Molti guerrieri ede' miglioriperironoin tutte le guerre che hanno fatto grande e poderosol'im­pero; molti più ancora in disutili impresee non già di donnacorrucciatama d'uomini forti e prudentidi re animosi e ferociche voi oggia mio scorno esaltate. E nessuno si dolse alloranessuno impugnò l'armi dellaribellionequando il fortissimo Nemrodin quelle medesime strette di Ajotzorfamoseo Abdenagofamose finchè duri memoria negli umani intellettilasciòla vitala gloria dei passati trionfi e non una parte de' suoima tutta laschiera de' valorosi Titani. E voi sventurati per me! Voi sollevati contro lamia autoritàper alto rammarico delle vite mietute! Sii più cautooAbdenagonel far tuo pro di un lutto comune. In Ajotzor si combatteva il sestogiorno di Tanae voi già apertamente ribelli dal terzomentre io mi disponevoa levare le tende dal campo di Assur.

- È vero; - balbettò confuso l'anziano. - Ma infinee nonera egli agevole di prevedere quella immensa rovina? Tu stessa hai ricordato ilfiglio di Misdraim. Sìl'impresa del forte Titano contro le case di Thogarmafallì; vita e gloria vi perdette ed esercito. E tunon ammaestratadall'esempiohai voluto ritentare la provafar contro all'espresso voler degliDei. Vincestima la tua vit­toria fu scherno amarissimo di Nisroc; per la tuavittoriaper la tuacontentezzaè Babiloniaè tutta la terra di Sennaarimmersa nel lutto. A che con­tenderemmo di giorni? L'impero è scosso ne' suoicardini; questo è il danno più gravee dimanda le cure sollecite dei savi checonsigliano i principi. Nè mancano essi a Niniaal regio adolescenteche ilpopolo volle e che i sacerdoti consacrarono re sulla gente degli Accad. Figliodi Nino e tuonon dee parerti un usurpatore del regno.

- Figlio di Nino e di Semiramideaspetti dun­que l'ora delsuo destino! - gridò Falegche già più non poteva frenarsi. - Males'argomenta di ottenere obbedienza dal popolochi primo si ri­bellaall'autorità della sua genitrice e regina.

- Savio parli; - rispose Abdenagoscosso da quelle fermeparole e più ancora da segni di as­sentimento che esse avevano destato tra icapi dell'esercito e tra parecchi de' suoi medesimi com­pagni. - Ma Niniadovrà pure un giorno impu­gnare lo scettro de' suoi maggiori. Egli regnaoramai; a che scemargli la maestà del nomeavvilirlo al cospetto delle gentirichiudendolo di bel nuovo nell'ombra gelosa del suo umile stato? RicordiBabiloniaricordino i Casdimricordi l'esercito (poichè tutti qui raunati nonsiamo che una famigliail popolo delle quattro favelle) essere a noi necessariodi premunirci contro un più grave pericolo. Bene avrei desiderato tacerlomainfine....

- Parla- gridò Semiramide. - Molto hai già dettoe chealtro oramai può farti nodo alla lingua?

- Orbenesìparlerò! - soggiunse Abdenagocheastutamente aveva meditata la sua reticenza. - Corrono voci strane e paurose trail popolo. Non sono forse cadutiin un sol giorno di pugnatutti i nobilirampolli della progenie di Nemrod? Balsamil capo dei bianchi cavalieri diBeloBalsamil terzo nato di Arbelche fu padre al gran Ninotuo sposo;Ninipultimo del sangue di Babche fu il secondo figlio di Nemrod; e SamasIvadel sangue di Caele MisdracIorebDudaimobalda giovinezza e decorodel vecchio ceppo di Cusnon sono essi tuttidal primo all'ultimora­pitiper sempre all'amore e alle speranze degli Accad? Per contronon hai tucondotto alla reggia l'Armenocon ogni più sollecita cura campato da morteprigioniero in apparenzama perdonato in cuor tuo? Che dovrà pensare il popolodi Ba­bilonia? che argomentare da ciò? Reginaio nol negheròche sarebbevano e non degno di noi! le tue gesta furono e rimarranno gloria impe­ritura diKiprat Arbat. Gioventùbellezzaardi­mento ti arridonoe molto ancora tisarà dato operare. Ma il popolodi cui t'è necessaria l'obbedienza el'affettochiede certezza del futurovuoi essere raffidato da te. Qual cosavogliano i rifuggiti in Barsipa non so; parlino i loro inviati qui raccolti connoi. In nome del popolo di Babi­lonia ti parlo ioin nome di questo popolo cheha veduto perire in un giorno la progenie dei ree che teme non si preparinoper avventura le vie del trono ad una stirpe nuovaequel che peggio sarebbedi sangue straniero. -

Le vampe del rossore e dell'ira salirono alle guance diSemiramide. Il colpo era tratto alla donnae la feriva nel cuore. Cionondimenol'ac­cusa di Abdenago appariva così stoltache ella riavutasi tostoanzichèprorompere in accento di sdegnosorrise di compassione.

- Dimenticate che Ninia vive? - diss'ella.

- Sivive- ripigliò Abdenagocrollando me­stamente ilcapo- ma per prodigio dei Numi. Ier l'altronella sua coppa d'oro gli fuministrato un veleno. Zerduste lo trattenneche egli già stava per accostarloalle labbra. Il coppierecostretto a bere invece del recadde fulminato a'suoi piedi.

- Ah! e che vorresti tu dire? - gridò Semi­ramidechedurava fatica ad intenderlo. - Forse che io.... Orribile pensiero! Unamadre!.... E siete voi cittadini di Babiluvoi che lo avete creduto? Ma andateda coluidal re vostrocorretee questo ditegli in nome di sua madrecheella può di­sprezzarloma ucciderlo.... ucciderlo! ohanzi che ciò potessebalenarle alla menteella avrebbe lacerato col suo ferro il maledetto fiancoche lo ha partorito.

- Infame calunnia scaturita dal negro abisso! - tuonò Falega sua voltapallido dalla rabbia troppo a lungo repressa. - E il vostroZerdustel'astuto consigliero d'ogni più vil tradimentonon può egli avervimentito? Che è mai una nuova menzognaun nuovo inganno per lui? Che è mai lavita di un umil servo babiloneseper l'uomo straniero che non ha dubitato dimandare a ro­vina la patria nostra e che s'argomenta oggi di salvarla conl'aiuto dei Medi? D'ogni peggiore artifizio è capace costui! Non lo temo iolosdegno dei tristi; soldato sonoe so che dovunque è bat­taglia; son figlio diquesta terrae l'ho per nemico de' miei fratelli di sangue. Badateocittadini; egli inganna voicome inganna il suo regio discepoloe tardi viaccorgerete del dannoquando i Mediora sudditi vostrivi staranno padronisul collo. Badateo Casdim; egli vi ha ravviluppati nei suoi lacci insidiosiabbatterà i vostri altaripurificherà le vostre rozze idolatriecom'eglisuperbamente le chiamanel fuoco de' suoi sacrifici. -

Le concitate parole del guerriero turbarono pro­fondamentegli astanti.

- Che dici tu? - gridò il saccanàco. - Potreb­bero gli Deiesser caduti in inganno?

- No! - incalzò Faleg sollecito. - Eglino in­fatti viparlano pel mio umile labbro e vi consi­gliano a diffidare di Zerduste. Egli vitradirào venerandivi tradiràcome ha tradito la donna che incauta persoverchio di generosità lo ha in­nalzatolui principe di una vinta contradaai primi onori del regno. La prova? mi direte voila prova? e non l'avete voinella istessa mo­struosità del delitto che egli appone alla regina? Può forseuna madree una madre che abbia nome Semiramidecompresa della sua grandezzaregalesacra alla immortalità delle opere suemacchiarsi di parricidio? Locredano i perversinel cui negro animo gli spiriti malvagi vanno soffiando illoro alito immondonon ionon voicittadini di Babilumemori ancora dellenobili imprese della vostra reginanè così dissennati da imputare a lei glierrori del caso. E a voi forse parrebbe meno evidente ciò che a menonstra­niero a voima fratel vostro di sangue e non meno di voi sollecito dellapatria comuneappar manifestoluminosocome il raggio di Sam? Io ne attestogli DeiNergalil corrusco signore delle battaglieNeboil veggente custodedel veroAuvil regnatore de' cieli; e possano le loro destre on­nipossentifulminarmi sul puntose io vi dico menzogna. La madre che Zerduste accusasiri­tenne dallo assalire incontanente le mura di Barsipache non sono già dibronzocome voi pen­sateo ribelli; si ritennedicodallo incenerirvi nelvostro ultimo covoper tema di arrecar morte allo stolto adolescenteche crededi regnare su voiperchè ha ferito il cuor di sua madre. Orviacittadini diBabilue voi ministri dei santissimi Numitornate in voi medesiminonperseverate nella via dell'erroresu cui vi ha trascinato il malveggente diBakdi. Io non aggiungerò le mi­naccepoichè la regina non n'ha profferite.Vi dirò solo che l'esercito farà il debito suoerotti finalmente gl'induginon darà treguao quartiere.

- Nonulla! nulla! Sarà fuoco e sterminio! - gridarono icapi dell'esercitofacendo eco ter­ribile alle parole di Faleg. - Possentesignorale nostre spade son tue! -

Un gesto di Semiramide ringraziò quei valorosi; un suoaccentouno sguardoun raggio di con­tentezza ineffabileaveva giàringraziato il buon Faleg delle sue generose parole.

Negli animi dei ribelli erasi infiltrata una grandeincertezza. Sentivano di non aver buone ragioni da opporree quel nobile ardoreincominciava a soggiogarli. Più di tutti già vacillavano ne' primi propositigli anziani della cittàdalle cui risolu­zioni pendevano oramai le sortidella grande con­tesa. Ma il vecchio Abdenagocui rafforzavano i consigli diZerduste e la stessa sua condizione di orator dei ribelli faceva ostinatofupronto a ravviare i compagni.

- Intendo- diss'egli- e non so darvi bia­simo di questonobile ardore. Egli è giusto che se dal colloquio nostro non deriva alcunfruttola lotta ripigli più accanita che mai. Ma egli è da por mentealtresìe tu già non ne dubitio cle­mente signorache la vittoriaarriderà a quella tra le due parti che abbia il popolo babilonese per sè. Iovo' concedere- e così dicendo la voce di Abdenago s'era fatta più umilecarezzevole quasi- che Babilumessa al punto di scegliere a quale delle dueparti accostarsinon dimenti­cherebbe i dolci vincoli dell'antica obbedienza ela grandezza dei tuoi benefìzi. Questa città non t'odiachecchè siaavvenuto; ma ella vuol quieteper medicare le sue acerbe ferite; vuol sicurezzadel futuroquella sicurezzache un giorno la con­dusse a scorgere in tesebbene stranierala de­gna continuatrice dei fasti della casa di Nemrod;quella sicurezza che il triste eccidio di Ajotzor e un più recente spettacolod'ingiustiziahanno mi­seramente distrutta. Ella dunque ti tornerà fedeleonorerà i tuoi comandisorreggerà il fianco della tua autorità regaleapatto che i suoi timori siano dissipati e l'ombre de' suoi morti non sianooffese più oltre dalla incolumità di quell'uomo che ca­gionò tanti luttialla terra di Sennaar. A noi testè il valoroso Faleg minacciò la pena deinostri tra­scorsi; nè delle minacce gli anziani si dolgono; essi cheaccetteranno umilmentedal volere degli Deipremio o castigosecondo che icelesti arri­danoo si mostrino avversialle armi di Ninia. Ma tuo reginase giusta sei col tuo popolose non odii la casa di Nemrodse onori gli Deiche noi tutti adoriamodevi con atti aperti e sin­cerimostrarti degna delpatrocinio celeste....

- Al fine! al fine! - gridò Semiramide impa­ziente.

- Ci vengo: - ripigliò Abdenago. - Sia uguale la tua misuraper tutti. Cadaper tuo comandocolui che fu cagione del danno. Sconti ilmalka delle montagne la pena della sua funesta ribel­lione. Sia dato alpatibolo dinanzi alle porte della tua reggiacosicchè dalle due rivedell'Eufrate il popolo delle quattro favelle lo veda espiare il suo tradimento ele lagrime che ci costa; e lo sdegno del popolo sarà placato allora (ma badaallora soltanto) da un atto di solennequantunque tardagiustizia.

- E quello degli Dei sarà placato del pari! - soggiunse ilsaccanàcolevando in atto di giu­ramento la destra.

- Sìmuoia l'Armenoe tornerai la regina degli Accad! -incalzarono i grandi del regno. - Giu­stizia per tutti! Troppo sangue diBabilonia si è sparso; ne porti la pena il primo e il più grande ribelle! -

Il nuovo accorgimento di Abdenago sconcer­tava i prudentidisegni di Faleg. Nato anch'egli nel Sennaarimbevuto di tutta la ingenitasuperbia della schiatta cussitaFaleg non poteva per fermo vedere di buonocchio l'Armeno. Ma in lui era forte la gratitudine e profondo l'ossequio per laregina. Ora la lentezza di lei a punire il nemicola bieca ostinazione deiribelli nel volerlo mortogli dicevano chiaramente che il leggiadro malka dellemontagne era già perdonato nel cuore di Semiramide e che ella lo avrebbeconteso con ogni sua possa alle feroci vendette che instigava Zerduste. Tral'avversione dell'animo suo e il de­bito della gratitudinetra le pretensionidei ribelli e gli indovinati impulsi del cuore di leinon era dubbia la sceltadi Faleg. Ma come opporsi effi­cacemente alle bieche proposteche al cospettodegli astanti si ammantavano di tanta giustizia? Gli stessi capi dell'esercitoamici e compagni suoiche non vedevano così addentro com'egli ne' fini ripostidi Abdenago e negli struggimenti arcani d'un cuore di donnafacevano buon visoalla do­mandae il loro spiare ansiosi e muti la risposta di Semiramideavrebbe chiarito ad occhi meno accorti de' suoida qual parte pendessero i loroconsigli. Inveropoichè tutta la resistenza dei ri­belli si restringeva inquel puntoi capi dell'eser­cito pensavano che ad assai lieve prezzo sicom­prava la pacee non dubitavano che la regina fosse per accettare unpartitoin cui la giustizia e la dignità sua erano salve del pari.

Avvenne da ciò che Falegcercando invano tra sè comevenire in aiuto alla reginasi rimanesse alquanto sospeso. E gli altrisolleciti a trar pro­fitto dal suo silenzioincalzando negl'insidiosi parlari.Con quell'atto di giustizia che si chiedeva a Semiramideera tolto ogniappiglio ad oltrag­giosi sospettiogni argomento a paure degli unia perfidiedegli altri. La pena inflitta all'Armeno era l'ostia propiziatoria ai celestiera il mes­saggio di paceil patto della nuova alleanza tra la regina ed ilpopolo delle quattro favelle. Ninia sarebbe tornato alla prima umiltà;Zerdustepoibastava cacciarlo fuor del reamecolla sua vita comprandol'obbedienza dei Medi sollevati. Qual più largo trionfo per leise perottenerlo non occor­reva spargere pur una goccia di sangue? La pace restituitaad un tratto; i guerrieri d'una medesima patria non più costretti a combattersil'un l'altroa incrudelire ne' padri e fratelli loro; gli orrori di una guerracivilegl'incendile stragii luttirisparmiati alla città dilettache eracostata tanti anni di amorose fatiche; la gratitudine immensa d'un popolosalvato; nulla fu pretermesso dagli accorti avversariiin ciò facilmenteseguitisoste­nutioltrepassati dallo zelo degli amici malcautiche facevanoa gara per dar nella pania dei fal­laci consigli.

Semiramide non rispose parola. Aveva impal­lidito all'audacedimanda; in quella condizione di pace gittata là come la cosa più ragionevoledel mondotanto più ragionevole allorache il co­stume di guerra non facevasacra la vita dei pri­gionieriaveva ella ravvisato il colpo maestro del suoimplacabil nemico. Ahegli non era dunque per la esaltazione di Niniache siadoperava l'astuto? Quell'ignaro fanciullo non era che uno strumentoun'armabrandita contro di leiun'arma che si gittavadopo averla adoperata a ferire!Non era più sete di regno che contrastava il poter suo; era una vendetta checercava il cuor della donnauna vendetta tanto più sottilmente feroceinquanto che nessuno di quella mol­titudine di nemici e di fautoripoteva averlaper tale. Zerdusteinfattiper la proposta degli anzianinon giungeva egli afar sacrifizio di sè? Accettava l'umiliazione e l'esilio; si dava inerme inpreda allo sdegno di Semiramideche bene avrebbe potutoappena sedata larivolta e rista­bilita la sua autoritàcercarlo dovunque egli fosse e farloinesorabilmente morire. Chiciò pensandoavrebbe sospettato dellamagnanimità di Zerduste? Quella sua volontaria caduta era il sommo dellaipocrisia; quel suo consiglio di finire ogni cosa colla morte del re d'Armeniaera la stretta fa­tale in cui la reginao la donnadoveva certa­mentesoccombere. E si sentì perdutaallorae rimase più atterrita a gran pezzache non fosse stata primaall'udire d'ogni altro suo danno.

Ben le restava uno scampo; la guerra dispe­ratala sortedell'armi. Ma questache fallacis­sima eranon poteva farla altresìmicidiale nel sangue di Ninia? E poia che proseguire la lotta? Era ella tantodesiderosa di regnaretemutanon amata più dal suo popoloodiatanoncreduta dall'uomoper cui aveva messa a repentaglio la sua possanza e la fama?V'hanno istanti supremiin cui le anime più salde sentono il fastidio dellalor medesima forzadovuta usare in troppo vili contese; e allora dalla inerziache si offre non­curante ai colpi nemicispira assai più sublime grandezzache non dall'ardore crescentedalla terribilità della pugna.

Così smarritala regina volse a Faleg uno sguardo disuprema tristezza. Lo intese il fedele guerrieroche incontanente si fece asalire i gra­dini del trono e si curvò sul ginocchioper udire i regalicomandi. Ma egli non era già più un co­mando quello che Faleg doveva udiredal labbro di Semiramide.

- Tu lo vedio Faleg; - sussurrò la regina con malinconicoaccento. - Tutto è perduto oramai.

- Signora! - rispose sommesso il guerrieroe il cenno delcapo significò tutto quello che il labbro taceva.

- Or ora- proseguì la regina- udranno che Semiramide nonaccetta le loro condizioni. Potrei forse?...

- T’intendo! - interruppe Falegnotando il rossoresubitaneo che imporporava le guance della regina. - Ma perchè dir loro il tuopropo­sito fin d’ora? Tempo ti resta a pensare.

- Ho pensato; - soggiunse ella; - perchè tacerei?

- Perchè eglinoi tuoi nemiciche stanno aspet­tando unforse preveduto diniegorimangano an­cora crucciosi nella loro incertezza.Pensao re­ginaal giubilo che sentirannoalle ire che non si periteranno dirinfiammare prontamente nel popoloe consentimi di risponder loro per te. -

La regina assentì con un gesto lievissimoe Faleg alloravòltosi da’ piedi del trono ai congregatiparlò:

- Cittadini di BabiluCasdim veneratie voi tutti seguacidelle fortune di Niniache mettete condizioni al ritorno nell'antica obbedienzaper la regina degli Accadoramai la nostra pos­sente signora vi ha udito.Altro vi resta da aggiungere?

- No; - risposero i grandi rifuggiti in Barsipa; muoia l’Armenoe l’autorità di Semiramide non avrà più fidi sostegni di noi.

- Se gli Dei non sono placati- soggiunsero i Casdim-Ninia regnerà in sua vece. Così viva egli in perpetuo!

-E noi- gridarono gli anziani- aspetteremo che il signordelle sorti ci mostri a cui dovremo obbedire. Ninia è il re consacratoe isoccorsi di Media non sono lontani.

- Sta bene; - replicò Falegcon voce impressa di guerrescabaldanza; - li vedremo noi primii vostri soccorsi di Media... se la reginavorrà. Andatefrattanto; la possente signora degli Accadcui Belo ha concessol'impero dello scettro e la vittoria della spadasi raccoglierà nellasolitudine de’ suoi alti pensierimediterà le propostechie­derà lume d’inspirazionea Neboal veggente consigliero dei re. La tregua spira domani; prima che ilraggio di Sam si specchi nei sette colori della gran torre di Barsipaiministri della reggia vi annunzieranno ciò che la regina avrà risoluto difare. -

Il parlamento ebbe fine con queste oscure parole di Faleg.Taciturnidubbiosiuscirono i congregati dalla sala di Nemrod. Inveroessierano inquieti a ragione. Il silenzio della regina somi­gliava troppo a quellacupa tranquillità di naturache precede lo scoppio della tempesta.

Come furono partitianche Semiramide si ri­trasse nelle suestanze.

- AhFaleg! - diss’ella al guerriero. - È finita; io nonlo ucciderò! Egli è un fellone e un ingrato; ma se io lo odiassiavrei forseatteso i consigli del volgo ribelle? E adessoioregina degli Accaddovreipiegarmi per avventura ai comandi?

- Certonon lo sperano essi! - rispose Faleg. - Le armiadunque scioglieranno la contesa; e meglio per noi se ciò avvenga domani.

- No; nè domaninè poi! - esclamò Semiramide. Faleg laguardò trasognato; e v’ebbe un istante che egli temè non aver bene uditooaver la re­gina male inteso la sua proposta; l’ultimaa parer suocherecasse un costrutto.

- Nè cederenè combattere! - sclamò egli poscia. - Chedunque faremo?

- Nulla! - rispose la reginalevando in alto la fronte echiudendo gli occhi in atto di raccoglimento solenne. - Domani sarà avvenutatal cosache sciolga il nodo per sempre.

- Ah! - proruppe il guerrieroimpallidendo. - E vorresti....

- Non mi dir nulla! Spesso han d'uopo dell'altrui consiglio iregnanti; ma v'hanno giorniore supremein cui non è dato pigliarnefuorchèdalle voci arcane dell’anima. Tuse mi ami e rammenti....

- I tuoi benefiziio regina? Come potrei averli dimenticatiio che ripeto da te ciò che sonoio oscuro figlio del borgo di Susqueannaioinnal­zato da te ai primi gradi della milizia del regno? E come suddito e comeservo di gratitudineson tuo; la mia vita ti appartienefanne ciò che più titalenta.

- Graziebuon Faleg! - ripigliò Semiramidecrollandomestamente il capo. - Dedicare la vita dei nostri servi ed amici ad utiliimprese non è più dato oramai; nè alcuna io vorrei sacrificarneperconsolare una stolta vanità colla pompa d’una rumorosa caduta. Tu sei liberoo Faleg; nessun vincolo d’obbedienza ti lega più alla regina; sol­tanto alfedele servitoreal costante amicoSemi­ramide chiede oggi un servizio.

- Parla! - diss'egli commosso. - Ogni tuo desiderio saràlegge per me.

- Esci di Babiloniae sia teco una scorta d’uo­miniquanti reputerai bisognevolima scelti tra i più fedeli e i migliori de’tuoi. Si tratta di campare un uomo da morte; - aggiunse ella con imperioso erapido accento; - la salvezza di que­st’uomo è l’ultima volontà dellaregina degli Accad. Vanne dunque subito a lui.... m'intendi? a lui! Per lesegrete scale che conducono al gran sotterraneoguidalo fuori di Imugur Bel. Sealcuno dei cittadini lo ravvisassepotrebbe aizzare con­tro lui la rabbiad'una moltitudine forsennata. Ciò devi ad ogni costo evitare....

- E impedirefino all'ultima stilla del nostro sangue! -soggiunse Faleg. - Non dubitare! Sacro per teil re d’Armenia è sacro perogni tuo servitore.

- Sta bene; - ripigliò Semiramide - Travestitoo celato inquel modo migliore che a te consiglierà la prudenzalo condurrai per la via diGomersulla sinistra dell'Eufratefino alle con­trade di Assur. Megliosarebbe che tu potessi accompagnarlo fin oltre il paese di Nahiri....

- Ed anco al passo di Lukdi! - interruppe Faleg sollecitoandando incontro ai voti della re­gina. - Non mi dire di più; la vita suasarà salva. -

Semiramide si accostò ad uno stipo d'ebanoriccamentescolpitoe ornato di bei fregi d'argento.

- Prendi; - ella disse; - qui son gemme d'altissimo pregio.Sia tutto tuoquanto potrai recare con te. Eccoti ancora; questo è il miosug­gello regale; forselunge dalla città che reca l’im­pronta de’ mieibenefizila sua autorità sarà ancora onorataed esso potrà in alcun tuobisogno giovarti. Ed orao Faleggiurami che tutto farai giusta il miodesiderio; giurami che condurrai salvo il prigioniero fuor della terra diSennaarnè lascerai di custodirlo fino a tanto egli non sia lontano da ognipericolo.

- Pe’ sommi Dei te lo giuro! Mi colga lo sdegno di Auv; mifaccia Nergai il più codardo e il più dispregevole dei guerrieri di Babilu;gli spirti d’abisso m'involgano nelle tenebre eternese a questo nobileufficio io non consacrerò le forze tutte dell’animola virtù del braccio ela vita. Ma tufrattantoo regina?....

- Io? Non temere- gridò Semiramidecon aria di serenabaldanza; - io mi sottrarròchec­chè avvengaalle insidie dei tristi. Sonfiglia a Derceto; nol rammenti tu forse? Il giorno che a me non resti più luogosulla terrale sacre co­lombe della materna Dea mi rapiranno a volo pe’cieli.Statti di buon’animoo Faleg; vae pensa a ciò che m’hai giurato di fare.-

Il forte animo di Faleg veniva meno per tenerezza e sgomento.Il fedele servitorecondotto a quel punto supremonon sapeva darsi pace;vedeva di non poter più rimaneree tuttavia non gli bastava il cuore aspiccarsi di là. Semiramide gli sporse la mano; egli cadde in ginocchiol'afferrò tra le suela baciò ripetutamentela inumidì colle sue lagrime;inditutto vergognoso della sua debolezzacoll'anima infrantasenza purealzar gli occhi a guardare la sua venerata signoraa passi concitati siallontanò dalla stanza.

La regina rimase immobile a lungoattonitasmemoratacomechiperduta ogni speranzao desiderio della terrapiù non abbia un concettoin cui riposare la mente. Gli occhi suoi inconsapevoli si erano rivolti al cieloserenoche si scorgeva per mezzo alle colonne di un ampio loggiato. Il solevolgeva al tramonto; e le torrile cupolei terrazzi di Babiloniasitingevano in colore di fiamma viva ai raggi obliqui dell'astro morente. Offrivaun meraviglioso spettacoloquell'aureola di fuocoentro a cui s'involgevaBabiloniacome una regina nel suo manto di porpora. Ahimè! quanti pensierisenza fine dolorosi doveva risvegliare nell’animo della gran vedova di Ninoquella gloria della sua città prediletta! Il possente raggio di Saminnanzi disparire dietro le arene del lontano desertoinnanzi di nascondersi per sempreallo sguardo di leivagheggiava le vaste mura che ella aveva innalzatesalutava i pinnacoli dei suoi templi e delle sue moli superbeglorificava alcospetto dei cieliesaltava l'opera sua.

Ed ella intanto si spegneva nella sua solitudinela dolenteregina! Quel maestoso splendore si sarebbe diffuso il giorno vegnente sulle muradilette; ma ella non le avrebbe più contemplate; e Babiloniae il popolo degliAccade il figlioingrati tutti ad un modoavrebbero dimenticata la gloriosafondatricela reginala madre!

A poco a poco le alte gradinate dei templii terrazzi e lecasupole si venivano ascondendo nell’ombra. Un vasto semicerchio di fuocosimile a vampa d’incendio lontanoradiava nell’orizzontefaceva uno sfondorossastro alle negre torri di Barsipa.

- Deh! - esclamò la reginaseguendo cogli occhi quellagloria morente. - Come tu volgi precipitoso al tramontoastro superbocherallegravi il mondo della tua luce! -

E di sènon dell’astropensava ella in quel punto. Umanegrandezzesplendidi sognisconfinate ambizionigloriapotenzaamore.... ahsìquesto d’ogni altra cosa più prezioso a grandezza! questo era il grandel'irreparabile eccidio; tutto l’altro era nulla. E forsein quel mentreilre d’Armenialieto della ricuperata libertànon memore di lei che perl'odios'affrettava sulle orme di Faleg. Ingrato! Ahla sconoscesse il popolola tradissero i grandi del suo regnodimenticassero tutti le sue gestai suoibenefizi; che poteva importarle di ciò? Ma egli! l’uomo che era caduto ebbrod’amore ai suoi piediche colle infiammate parolecoi giuramenti solenniaveva strappato dalle sue trepide labbra una confessionedal suo senopalpitante i santi veli del moribondo pudore! l'uomo che ella aveva amatopurcombattendoloche aveva sperato vedersi un'altra volta a’ piedivintopiùancora che dalle sue armidalla certezza della sua innocenza! Noella nonavrebbe creduto mai possibile una ingratitudine sì nera. E per quella suastolta fedenon già per le arti di Zerdustenon già per la ribellione diNinianon già pel traviamento del suo popoloella si disponeva alla morte.Ingratosìingrato e codardo! La gentilezza dell’affettola magnanimitàla costanzala fedee infine tutto quanto è di bello e di nobile nel fangoumanotutto si rifugiavae per morirein un povero cuore di donna.

Eppure!... eppure ella aveva sperato fino all’ultimoistante. Le pareva enorme cosainaudita vergognaimmeritato oltraggio de’cieliessersi imbattuta nell'uomo più sleale e più vituperoso del mondo. Maohimè! così era per lei; così avviene pur troppo per tutti; ai vili le piùalte venture; ai nobili cuori le più atroci amarezzei disingannile ontepiù gravi. E in questo pensieropeggior d’ogni mortesi prostròsirinchiuse lo spirito di Semiramideche làdi rincontro alla luce del solemorenteparevanon più donna vivasimulacro di pietra.

In quel mentre un passo frettoloso si udì nella camera.Hurki si fece innanzi alla regina.

- Potente signora.... - diss'egli peritoso.

- Che è? - dimandò la reginadestandosi repentinamente daquel suo doloroso torpore.

- Un uomo chiede parlarti.

- Il suo nome? - proruppe ellaa cui il cuore avea dato unsobbalzo.

- Reginate ne pregonon ti turbi l’annunzio; - soggiunsel’eunucoche era lungi dallo argomentare la cagione di quell’ansiasubitanea; - è il principe di Bakdiche dimanda di essere introdotto alla tuasacra presenza. -

La vista improvvisa d’un serpe cui lo sbadato viandanteabbia molestato ne’ suoi meridiani riposinon arrecò mai così fieroturbamentocome quello che sentì la reginaall'udire quel nome e la richiestainattesa.

- Zerduste! - esclamòquasi sperando di avere male inteso.

- Sìegli stessoo regina. Egli viene sulla fede sacradella treguache spira domani. Conduce seco una scorta numerosa; ma solo edinerme entrerà al tuo cospetto. Gravi cose lo spingono a questo passo; nè eglisi allontaneràfino a tanto non ti degni ascoltarlo. -

Semiramide stette alquanto perplessacombattuta da sdegnoda ripugnanza e stupore.- Che vuole costui? - diceva ella tra sè. - Ahcertoun nuovo tradimento egli medita; un nuovo colpo si prepara a ferire. Riposasulla fede della treguail malvagio! E l’ha tenuta egli forsela fedegiurata alla regina degli Accad? Ha egli risposto lealmente alla sincera fidanzadella nostra amicizia? Alta sapienza dei tristi! Credono essi alla virtù chenon hannofondano i loro perversi disegnitendono le insidie scelleratesullamagnanimità delle vittime loro. E mi conoscono bene addentrocostoro! Mi sannogenerosagl’infami! Esser diversa da lorocom’è diversa la luce dall’orrordelle tenebreecco il vantaggio che mi resta sovr'essi; ed ecco altresìl'arcana ragione della loro vittoria. Ohperchè non sarei io malvagia unistanteun solo istante com’essi? -

Così pensandola regina non aveva più posto mente allapresenza e alla aspettazione di Hurki.

- Che debbo io dirglimia clemente signora?- si fece egliallora a domandarle.

- Che io ricuso di vederlo; - rispose la regina.

- Ma pensa.... - balbettò egli inchinandosi. - Forse daquesto colloquio potrebbe dipendere....

- Che cosa? - tuonò Semiramide. - Che cosa potrebbe eglidireche a me fosse grato ascoltare da lui?

- Non so; - disse di rimandoe con umilissimo accentol’eunuco- Di te mi preme e della tua gloriao signora. È un nemico che chiedeparlarti.... è il maestro e il custode di Ninia.... -

E non ardì proseguire. Ma il nome di Ninia aveva toccato un’intimafibra del cuore materno. Stette ella alquanto sopra di sè; indiscuotendo ilcapocome chiveduti i pericoli e le molestie a cui va incontroha tuttaviapigliata la sua risoluzionesi volse ad Hurki e gli disse:

- Venga il malvagio; lo udrò. -

 

 

XXIII.

 

IL TENTATORE.

 

 

Indi a pochi istanticomparve sulla soglia Zerduste. Pallidoin volto più dell'usatoscintillanti gli occhi profondi sotto il grand'arcodelle sopracciglia d’ebanochiuso nella sua tunica nerafrangiata d’orosui lembibello di quella sua marmorea bellezzacui faceva più austera ilrannuvolato sembiantesembrava egli il destinovenuto colà per dire alla suavittima: la tua ora è suonata!

S'inchinòmacontegnoso e superbo. L’atto era d’ossequio;ma ben altro diceva lo sguardo.

A quella vista sentì la regina riardere il sangue per tuttele vene. Era làle stava dinanzi il suo mortale nemicol'uomo che forse piùnon aveva a temer la sua collerama che certamente non poteva sperare perdonoda lei. Pallidaansantefremebonda per l’ira a stento repressaella si eraseduta sul rilevato suo scannochiedendo al riposo delle membra quell’apparenzadi forza che le era negata dall'interno tumulto.

Egli v'ebbe un momento di paura tra i duee in quel mutointervallo si guardarono a lungosi scrutarono a vicenda; il principe di Bakditentando di legger nell’animo di leiper misurare le sue parole allo sdegnodi cui la vedesse compresa; ella cercando d’intendere qual causa lo avessecondotto; ambedue più turbati nell'animoche non apparisse al sembiante.

La regina fu prima a parlare.

- Sii breve! - diss'ella asciuttamente a Zerduste.

- Non potrei; - rispose quell'altro. - Tu m’odiied io nonvoglio essere odiato da te. -

Semiramide lo guardòtra corrucciata e stupita.

- Non t’odio; - soggiunse ella posciacon accento che eglinon durò fatica ad intendere.

Diffattiin quella che ricacciava nel profondo del cuore unmoto istintivo di rabbiaegli subitamente ripigliò:

- E disprezzarmi non devi! -

Un sorriso d’amara ironia tese le labbra di Semiramideecome freccia sibilante dall'arcovolò la parola a saettare l'impronto nemico.

- PerchèZerdusteperchè? Non sei tu forse il piùmalvagio tra gli uomini? V'ha egli per avventura tra gli spiriti d'abissoun'anima più invereconda e più nera? Parlerò a teprincipe di Bakdicome siparla ad un uomo che tutto agogna e da nulla rifuggeche molto presume di sèe la cara virtùla santa fedela gentile alterezza dell'animonon riconoscee non pregia se non per farne sgabello alle sue scellerate ambizioni. Quantopiù alto ti ripromettevi di salire nella stima del mondotanto più in bassosei scesosimile al verme che striscia nell’immondo terrenoe invidia l’aquilalevata a volo pe’ cieliche sdegnaonestamente alteradi farne suo pasto.Inveroqual è la mia colpa a’ tuoi occhi? Principe di nobil sanguenonregnatore di Mediat’ho io forse rapito il tronoo la speranza diascendervi? No; fu Ninol’invasore della tua patria; nè io regnavoquandoper ardimento mioma coll’armi di Babiloniala tua Bakdi fu presa. L’eccidiodel vostro regno poteva essere indugiatonon impedito per fermo; la conquistadella Media e del mondo era opera fataleserbata alla progenie di Cus. Non iodunquenon io veramentet'ho offeso; non io ti ho tolto la libertàlesperanzela patria. Ben iovedova di Ninodesiderosa di dare al nuovo edaccresciuto impero testimonianza solenne di giustizia e di amorenon tirannama reggitrice e madre di tutte le genti chiamate a parte del glorioso nome degliAccadben io t'ho scorto nel tuo umile statot’ho fatto grande ben io; ne’miei consigli t'ho accolto; la tua sapienza ho onorato; il figliuol mio t’hodato in custodia. Fu errorema io sola posso darmene biasimonon tu farmenecolpa. In che t’ho io recato danno? In che ho io tralasciato di giovarti? Enon dovrei ora coprirti del mio disprezzotraditore codardoche hai abusatodella mia fedeaspide velenosoche non ardivi assalirmi all’aperto e m’haimorso al piedem’hai ferito nell'ombra? Vedid'una cosa sola mi duoleed èquesta: che la potenza del mio disprezzo non agguagli la malvagità delle operetue. -

Accigliatofrementestette ad udirla Zerduste. Le parole diSemiramide irata sibilavano a guisa di flagellilo percuotevano in volto; mavampa di rossore non gli corse alle guancie; e la contegnosa rigidezza delsembiante marmoreo custodì il segreto degl’interni sussulti. La udìsenzatorcere pure un istante lo sguardo da lei; e come si avvide ch’ella era giuntaal termine della sua invettivacosì prese tranquillo a rispondere:

- Una cosa vera hai tu detto nell’irao regina; e diquesta sola io vo’ far conto per ora. Nonè per la patria umiliatanè perla delusa speranza di regnopoteva odiarti Zerduste. La patria è vana parolaper uso del volgonato a servir semprequalunque sieno i confini alla suastirpe assegnati. Chi regna ha la sua patria nel trono; chi ha vasti disegnieccelse imprese da compiereha la sua patria dovunque. Il fulmineil raggio disolenon prediligono questao quella partedel firmamento azzurro. Quello sisprigiona dalla volta celeste e guizza per quanto è lunga la via dalle nuvoleal suolo; questo dardeggia e risplende dall’orto all'occaso. Che sarebbe statoil regno di Media per la ma ambizione? Ben altro regno io vagheggiai colpensiero; ben altro regno io chiesi alla sortenella lunga agonia de’ vanidesideriiche m'hanno contristato lo spirito. Nè posso oggi allegrarmi diquesta grande vittoriache ad altri parrà il colmo d'ogni fortuna nel mondo.Avrò Babilonia in poter mio e tutta la terra del Sennaar; non ciò cheagognavonon ciò che mi ha stimolato all’impresa. Godi a tua voltatrionfadi meo figlia di Dercetoo espugnatrice di Bakdi; io t'ho amatoho speratoe ne porto oggi la pena. -

Le labbra di Semiramide si atteggiarono ad un sarcasticorisoche mal dissimulava il profondo fastidio dell’anima

- Di ciò volevi parlarmi? - diss’ella.

- Ah non temere! - ripigliò prontamente Zerduste. - Io nonti stancherò de’ miei gemitinon ti bisbig1iero melate parolecosì dolciad udirsi tra i salicialla tacita luce degli astriallo spirar della brezzanotturna in riva all’Eufrate. È sfogo d’immenso doloreil miononpreghiera di labbro soaveche dissimuli il tradimento meditato e prepari letarde vergogne. Dicevi poc’anzi di Bakdi....Orbenecolà un uomo ti vide laprima volta; e ancora non eri la sposa di Nino. Sulle mura combattute vide egliapparire l’audacissima donnacol ferro in pugnole neve chiome diffuse inlarghe anellafuori del lucido elmettoacceso il sembianterigate le guancedi nobil sudoresfavillanti i grandi occhi di guerresca baldanzabella piùassaipiù sfolgorante a’ suoi occhiche non dovesse apparirgli più tardinello splendor d’una reggiamollemente vestita di bissoornata di gemmeall’ombrade’ suoi pensili ortiin mezzo ad uno stuolo d’ancelle e di servi devoti.La contemplò con desiderio infinitoe disse tra sè: Ahurapotentissimosignore del mondoio darei la mia vitala mia famae ogni altra cosa piùcarapurchè fosse mia quella donna! Nemica era; egli armato in difesa dellesue mura; poteva scagliarsi su leiucciderla di un colpoe nol fece....

- Meglio sarebbe stato ferirla allora con l’arma dei prodi- interruppe Semiramide- che combatterla posciaaggirarla colle insidietrarla a rovina con le arti dei vili. -

Chinò la fronte Zerduste e proseguicon accento d’amarezzaprofonda:

- Così avess'egli preveduti gli affanni che gli dovevanoessere derivati da lei! Ma alloradimentico della sua terradelle speranzeperdutedegli ostacoli insuperabilidei danni futuriamò la cattività chelo avvicinava a costei. Pochi giorni di poiella era sposa di Nino; eglidolente prigioniero in Babilonia. E l’amor suo crebbe tanto più fortequantopiù solitario e nascosto. Vegliava sulle tavole dei Casdimle raffrontavacolle dottrine de’ loro savimeditava di purificare il culto dell’unicoIddio dalle rozze idolatrie della stirpe di Cus; e non si sostentava nell'asprafaticanon si nutriva egli che di quel suo amor dissennato. Perchè nonlasciarlo nell’oscurità della sua prigionia? Perchè dargli inaspettatagrandezza e rinfiammare nel cuor suo le audaci speranze? Regina degli Accadvedi in ciò l’opera tua. Mentre egli ti chiedeva disperato al suo Dioe lamorte improvvisa di Nino gli pareva una prima grazia a lui concessa dal cieloperchè hai tu mostrato avvederti di lui? perchè l’hai tu chiamato alla tuapresenzaonorato del tuo favoreaccolto nei tuoi regali consigli? Fatto vicinoa teconscio della sua forzasperòe sperando tentò di piacertiardìconcepire il più eccelso disegno. Ma tu non lo amasti; il tuo cuore fu muto alui; non t’avvedestio fingevi. E finse egli pure; ricacciò nel profondo laparola che inutile e spregiata doveva morirgli sul labbro; accresciuto dipotenzanon consolato d’affettosi piantò custode inavvertito della tuadesiderata bellezzavigile nemico di quanti s’appressavano a tedi quantitemè potessero un giorno accenderti in seno la maledetta fiamma d’amore.Voleva egli che tutto fosse silenzio e vuoto intorno a te; nessun altro dovevaottenere ciò che a lui era negato. Così vigila il drago i tesori che non sonoper essoe vampe di morte gli sprizzano dalle fauci rabbiose.

- Io lo ravviso nella fedelissima effigie! - notò la reginacon acerbo sarcasmo.

- Ridi ancora per poco; - disse di rimando Zerdustesenzapunto scomporsi. - Parecchi scontarono colla morte la colpa di aver desiderato esperato. Un d’essiil più audacea cui gl’inni sgorgavano dalle roseelabbratroppo più infiammati che non si convenisse alla riverenza del sudditos'argomentava di giungere fino a techiamato ne’ silenzi della notte da unmessaggero discreto; già nella cupida mente assaporava le dolcezze ineffabili d’unamoroso colloquio; ma un abisso di repente si schiuse a’ suoi piedi e gliardori dell’incauto si estinguevano insieme colla vitanei gorghi profondidel fiume. Lo so ben io; tu non amavi costuitu ignoravi ogni cosa; ma egliamava teegli era leggiadropoteva un giorno piacere a’ tuoi occhi; cosìmutevole e pronta negli affetti è la donna! Zerduste vegliava; egli era forte eprudente. I tuoi nemici furono gli amici suoi; fu egli che affratellòcongiunse in un odio solo tante collere sparsediede un capouna menteamigliaia di braccia levate a maledizioni impossenti contro la regnatrice delmondo. Raccolte nel suo valido pugno le fila di una vasta congiuratutte potevaegli deporle a’ tuoi piedisgominare i tenebrosi assaltidistruggere nelsilenzio i tuoi nemicise tu gli fossi stata più umana; volgerli contro di tecolpirti a sua postase tu avessi durato ne’ tuoi superbi dispregi. E tufrattantoo regina? Contegnosa ed austeragli troncavi a mezzo ogni parola chetimidamente accennasse alla sua devozione per te. Le cure del regno tipossedevano intiera; non d’altro ti davi pensiero; doveva esser muto all’affettoil cuore della donnache voleva esser signora e madre d'un popolo. Così dicevia Zerduste; ma una notte bastò per mutartibastò una tenera parola per dartiin braccio ad un altro. Ahper lui dunque la stimaper altri l’amore? Gravefalloo regina! E sei donnaed ignori che l’uomo ha da essere tutto o nullaper la donna che egli ama? Non io ti ho tradito; bensì tu stessa ti seicondannata a’ miei colpi. Potevo soffrire ed attendere; quella notte halacerato il mio cuor e.... Eri in mia mano; io mi son vendicato. Il tuo primoamore ti costa un impero. -

In tal guisa parlò il principe di Bakdiper la prima voltascoprendo i tenebrosi recessi dell’anima. Faceva stupore l’udirlo; piùstupore eziandio il veder e quel suo calmo sembiante atteggiarsi a tanta novitàdi passionedi asprezza feroce e di mestizia profondadi odio implacato e diardente preghiera ad un tempo. Ed era pauroso a vedersicome un portento ditrasformazione improvvisa; nè più avrebbe arrecato meraviglia e sgomentoseuno di que’ colossi alatiche raffiguravano gli spiriti custodi della gentedel Sennaaravesse lampeggiato una torva occhiata dalle pupille di smaltoesnodate le membra poderose dai vincoli della pietra tenace.

Lo udì Semiramidelo guatò lungamentee un senso di paurale ricercò le vie segrete del cuore. Ella eravissuta tanti anni d’accanto aquel mostronè mai s'era avveduta dell’imminente pericolo! Così siam noispensieratiquando non abbiam ragione di temere. E un giorno vieneche ilnemico ci è sopraegli che spia le occasionie a noi più non è datoresistere. Fu atterritanon sopraffattala fortissima donna; e tosto ripresebalia di sè stessa.

- Nobile affetto invero- ella disse- e degno d’essermostro alle gentiquello che accende tutti i più malvagi istinti della umananatura!

- È amorepossente amoreche non cercato c’investe e sifa in un punto signore di noi; - replicò prontamente quell’altro. - A te lochiedoche il sai; si governa esso forse? e spregiatonon divampa più forte?È fiamma; la sua natura è di ardere. Tu l’hai destata in me; non ti lagnarese ella s’è fatta a tuo danno un incendio.

- T’ho io mai dato lusingao speranza? - dimandò lareginacon piglio severo.

- Noe di questo mi duole! - rispose amaramente Zerduste. -Ahfiero tormentoche tu tra tanti malinon hai provatoo Semiram! Sentirsifortevedersi grandesapersi capace di altissime impresee tuttaviadesiderare invano un sorriso d’amore; per una donna esser nullaquandoperogni altra creaturae in faccia al destinosi è tutto! Cede ogni ostacoloalla tua volontào la tua avvedutezza lo rimuoveo la tua pazienza lostrugge; solo una donna ti resistee tuche pieghi a tua posta uomini e coseti rodi dentro te colla tua rabbia. Ella non t'ama; ella ti deridefa peggioancoranon si curanè s’avvede di te. E allorao Semiramallora il piùnobile affetto si corrompecomenegletto nella coppasi corrompe e inasprisceil più generoso liquore. Fu un senso d’invidia profonda e di desideriodelusoche produsse il male e rese gli spiriti ribelli all’Eterno. Ahilforteil costante amatorel’uomo che tutte le virtù della mente gagliardaavrebbe adoperate a comporti il trono più glorioso e più saldosi sprezza? Eil primo garzone vanitoso che giungee ripete con labbro avvezzo una soaveparolasi accoglie con ansiasi amacedendo a lui come una vil femminetta delvolgo? Badao Semiramio sono ambiziosoma nol fui nell’amarti. Nonchiedevo di salir teco sul trono degli Accad; sarei rimasto nella polve ai tuoipiedie patriae speranza di regnoaltari e tuttoavrei dimenticatoper nonavere altro culto che l’amorealtro pensiero fuor quello della tuasfolgorante bellezza. Ed oggi ancoraiofatto più forte dalla vittoriaiosignore de’ tuoi destiniio re di Babilonia tra breveimperocchè il tuoNinia non ha mano così ferma da impugnar virilmente lo scettroio oggi ti dicoancora: tutto può ripararsi. Amamicredi a questa fiamma divoratriceconsolauno spirito afflitto! Per la mia potenza io te lo giuroper la mia stessaambizione che non conosce confini: ioil principe di Bakdiil leone di Mediasarò il tuo umile schiavo. -

Etratto dall'impeto della sua furibonda passionesiprostrò l’acerbo Zerdustesi abbandonò contro i gradini del soglio diSemiramidecosì che la sua fronte sfiorò il piede di lei. Diede ella unsobbalzo di raccapriccioe si trasse indietro sollecita.

- Vanon mi tentare! - gridò. - Che pensi di me? Di qualfango mi credi tu nata? Non amerà tenon ti ascolterà più oltrechi haamato il re degli Armeni.

- Ara! - sclamò Zerdustecon accento sdegnoso. - Ara che tidisprezza e ti fugge!

- Sì; e perchè mi fugge? perchè mi disprezza egli? -tuonò la regina. - Non l’avete voi con arti tenebrose ingannatoo santidella Triade? -

A quelle parolein cui si mostrava così intieramentescoverto il segreto delle sue macchinazionilevò la fronte Zerduste e rimasealcuni istanti stupefatto a guardarla.

- Ah! - notò egli posciadissimulando in un ghigno l’internodispetto. - Fiacco credevonon traditore Sumàti. A che dunque morireprecipitarsi disperato nelle acque salse di Van (imperocchè questo da parecchigiorni m’è noto)se tutto ti aveva egli disvelato l’inganno? -

Così dissenel colmo della sua meravigliaZerdusteparendogli sciocca la loquacità di Sumàtise era deliberato di moriree piùsciocca la mortedopo essersi disposto a parlare. Ma neppur egli fu savio;quello il rimorsolui faceva imprudente l’amore. E invero le sue paroleebbero eco lì presso; un avido orecchio le accolse.

Intanto la regina a lui di rimando:

- Chiedilo all’ombra suatu che evochi dal negro abissogli spiriti e fai mentire gli estinti! - Ma già Zerduste si era riavuto dal suoprimo stupore. Ciò ch’egli sapeva del regal prigioniero e della sua iratenacegli mostrava come fosse tornata inutile a lei la loquacità dell’Indiano.

- Per altroa che ti giova? - proseguì eglisenza pormente al sarcasmo. - Ara è caduto in poter tuo; è tuo prigione; e tu non haipotuto altrimenti mitigare quell’odioche la Triade gli ha cosìprofondamente stillato nell’anima. Egli ti abborre e ti sfugge; questo io sosenza mestieri di evocare uno spirito imbelle. Hai vinto il renon soggiogato l’amante;e Bared si è sottratto colla fuga al pericolo dei tormentiSumàti colla mortealla vergogna della sua debolezza; nè l’unonè l'altro furono al capezzaledel risanato garzoneper dirgli che tu eri sempre degna di luie che lo avevaingannato il malvagio Zerduste. Che farai tu? Morrai; me lo dice il tuo sguardogià disviato dalle miserie terrene. Ma bada; non morrai come sperida regina eda figlia di Dea; morrai dispregiata da luinon giustificata da coloro che tuvolesti nemici. Pensa dunqueo Semiram; vedi per chi tu muorie perchè. Tiamava egli davveroun uomo che dubita di teche ti disprezzasolo perchèun'ombra vana ha parlato? Ahl'amor mio non sarebbe caduto in questo lacciovolgare! L’amoavrei detto al fantasma; tu amico un giornoessa la donna miaper tutta la vita! - Ma pensa; ella fu nelle braccia di ben altri anzi che nelletue.... - L’amo! - Ma bada; ella uccideimpudica e ferocegli strumentidelle sue voluttà...... L’amo; che importa? L’amo. Non è egli un gaudiocelestel’amore? La morte al colmo della beatitudinenon è forse il donopiù grato de’ cieli?

- Vile amoreche nel disprezzo si nutre! - esclamò laregina.

Ma ancora non aveva ella pronunziate quelle acerbe paroleche un rumore di passi precipitosi si udì e il re d’Armenia balzò dalcolonnato nella camera; il re d’Armenia cogli occhi fiammanti di colleranonpiù potuta reprimeree la spada lampeggiante nel pugno.

- È questa la tua pura dottrinao santo vecchio dal fiore d’amòmo?- tuonò egli iracondo. - Ma tu morrailo giuro a Zervaneche ha numeratoi tuoi giorni! -

E si scagliòcosì dicendosul principe di Bakdichestramazzò all’urto possente del giovine atleta. Nel tempo medesimo la spadadi Ara cercava il petto della stordita sua vittima. La corazza di ferro cheZerduste portava sotto la tunica nerasviò il colpo gagliardoche avrebbedovuto passarlo fuor fuori.

- Ahun tradimento! - gridò Zerduste atterrito.

E si divincolava sotto le strette. Ma l’aquila dellemontagne lo aveva tra gli artigli; era più poderosa di lui; le raddoppiava leforze il furore. E già stava per cacciargli il ferro nella strozzaallorquandola voce della regina si udì.

- Chi ardisce snudar l’armi al cospetto di Semiramide? -gridò ella con voce di tuono.

Arail furente Arasi alzò intimoritoe il braccio gliricadde inerte sul fianco.

Semiramide lo guardò un trattopallidaansantepercommozione profonda; indi si volse a Zerduste.

- La tregua è sacra per tutti; - gli disse. - Varettilevivi! -

Zerduste si alzò fremente da terra; li saettò ambedue d'unosguardosi strinse i pugni al pettoper rabbia impossentee fuggì. Ogni suasperanza era perduta; l’audace suo tentativocosì profondamente maturatofalliva.

 

 

CAPITOLO XXIV.

 

LE COLOMBE DI DERCETO.

 

 

Erano rimasti soliSemiramide e il re d’Armenia; ellaprofondamente turbatama contegnosa e severa all’aspetto; egli vergognoso etremantecome chi è spettatore d’un’alta rovina e la sa opera sua. Ipensieri che turbinarono in quelle due animetutto ciò che significarono iloro sguardi in quel solenne istante di pausasi può immaginar nella mentenon dire.

Un senso di scontentezzaforse più veramente d'indomatorancoreserpeggiava nel petto della regina. Lontano e fuggentecom’ellacredevaSemiramide lo aveva difeso contro i sarcasmi di Zerduste; vicino ecertamente pentitole pareva di odiarlo

- E tuche vuoi? - gli disse ella con accento sdegnoso.

- Il tuo perdono; - rispose Ara umilmente. - Ho tutto uditoe tutta misuro la grandezza del mio fallo. Non v'ha penaper quanto grave ellasiache io non meriti da te. Sono in odio a me stessoed ho la morte nelcuore. -

La voce del giovine era supplichevole e imbevuta di lagrime;ma in quella voce lusinghiera a lei parve di udire il sibilo del tentatore. Nonera forse quello l’accento soave che già una volta l’aveva soggiogata etradita? Però stette ella inflessibile.

- Come tu qui? - soggiunse ella poscia. - Ov’è Faleg?

- Poc'anzi- rispose egli sollecito- io mi sono spiccatoda lui. Avevo udito delle proposte a te fattedelle condizioni messe daglianziani di Babilonia al loro ritorno nell'antica obbedienza. Potevo io partire?accettare una vita ed una libertà che a te costassero il regnofors’anco lasicurezza della persona? Risolsi di portarti il mio capo; io stesso sareidisceso dalla reggiama per via discopertaincontro a’ tuoi nemiciaicarnefici miei. Ed eccomi pronto.

- Nogli è inutile! - esclamò la regina. - Non loconsentirebbe la maestà del mio nome; - aggiunse ella gravementedopo unistante di pausain cui parve risolversi a temperare l’asprezza delle sueprime parole. - Ciò che ho risoluto sarà. Tu sei libero; partiche nonabbiano a ritrovarti in Babilonia domani.

- Ma tuallora? - disse Ara sgomentito. - Ma tu?

- Io.... - ripigliò Semiramidecon labbra atteggiate ad unfreddo sorriso. - Io mi sottrarrò alla rabbia dei tristi.

- Fuggire! - gridò il re d’Armeniatratto in ingannodalle ambigue parole. - Ah sìn’è tempoo regina. Quello scampo chegenerosa mi profferivinon rimane anche a te? Ma dimmiinnanzi di correr lasorte della fuga; dimmio dolce signorami hai tu perdonato?

- Sì; - bisbigliò Semiramidelasciandosi afferrare lamanoche il giovine amante coperse di baci e di lagrime.

Ella era fuor di sè stessa in quel punto. La infinitamestizia de’ suoi casiil recente colloquio col suo atroce nemicol’improvvisoapparire del rel’aveano percossa per modoche ella ne era rimasta un trattosmemorata ed attonitasenza pensierisenza volontàsenza forza.

Ara incalzò nelle amorose preghiere.

- Vieni adunquevieni senz'altri indugio diletta! Pensa aZerduste. Lo scelleratoche tu hai voluto campar da’ miei colpiben altrevendette prepara. Vieniusciamo da questa reggiada questa cittàove tuttoè pericolo per te. Andremo lungeassai lunge di qua; io ti sosterròmiaregina: ti difenderò iofino all’ultima stilla di sangue; ti ameròtiamerò tantoo Semiramche tu dimenticherai le mie colpele angosce patiteil trono perduto e quant'altro avesti mai di più caro.

- Fuggire! - esclamò ellascuotendosi a un tratto da quelsuo doloroso torpore. - Fuggire io! E lo pensi tu forse? Non si giunge dov’ioson giuntao malka d’Armeniaper finir così male; non s'imprime un’ormacosì profonda nella memoria degli uominiper cancellarla con un esempio disolenne viltà. Altro scampo io m'ho sceltolo scampo de’ forti. Morrò.Checchè ne pensi il malvagiomorrò nobilmentemorrò da regina.

- Tu morireo Semiram? - proruppe forsennato il garzone. -Nonon sarànon sarà mai; è impossibile!...

- È necessario; - soggiunse ellacon malinconico accento. -Vivere con maestà non è più consentito; altra via non rimane.

- Ahscherno de’ cieli! - gridò egli disperatocacciandosi le mani a furia entro i capegli. - È per me.. per colpa mia!..

- No; - interruppe Semiramide. - Non ti accusare; non darcagione a te stesso! È il signor delle sortiè Nisrocche ha voluto così;son io che gli ho armata la mano a ferirmi. Non ho io forse invocata sul miocapo questa grande sventura! Non ho io chiesto a Militta di concedermi un amorvero e possenteanche a patto dei più acerbi dolori. Ho amatoe furono ore d’immensaallegrezza per me. Tristi giorni seguirono.... Orbeneche importa? Non son iovendicata del tuo disprezzo? Non sei tu umiliatopiangentea’ miei piedi?

- Ahtu sei generosa e magnanima; - disse Ara con impeto; -e sebbene io veda tuttavia sul tuo volto la nube d’un nemico pensieronondebbo lagnarmi del mio destinonè voglio. Concedimi tempo a meritar la tuagraziao regina! Vivere tu devie risorgere. Non mi dire che ciò èimpossibile!... Forse tu vedi troppo grave il tuo caso. Altra via non rimanedicesti; e perchè? Non è sempre aperta la via della pugna? Nè già tuttol'esercito s'è collegato ai ribelli; schiere numerose e fedeli ti restanoancora; tu puoitu devi tentare.

- E vincessi pur anco! - esclamò Semiramidecrollando ilcapoin atto di supremo fastidio. - Imperocchèvediio l’ho pensatociòche tu mi consiglie non è vero che tutto sia irreparabilmente perduto per me.S'inganna il malvagioe quel suo traviato fanciullo con lui. Prima chetrionfassero i vilimolto sangue potrebbe tingere ancora l'Eufratee più d'uncuoreche oggi si gonfia di facili speranzeimpicciolirsi ad un tratto egelarsi per alto spavento. Ma tutto questo a qual pro? Io non mi curo più oltredi malvagio d’ingrati. L'anima ha le sue tristezze invincibilisentetalvolta il fascino de’ superbi raccoglimentila voluttà delle inerziamortali; e alloraponi menteriesce a tedio la pugnae più che il vincerepiù che il soverchiare di nostra gloria i mortali ossequiosio tementièdolcezza il caderel’estinguersi. Così faròre d’Armenia; e se tiduole.... - soggiunse ella con un fil di amarezza- se ti duoleio l’hocaro. Sarà questa la tua punizioneper aver creduto ad altruiper averdubitato di me.

- Non m'ero io dunque ingannato! - disse Ara sospirando. - Iltuo cuore non mi ha perdonato del tutto! -

La regina non fece risposta a quel grido di un’animaafflitta.

- Vedi? - soggiunse ellacedendo all'amaro proposito ond’eratutta compresa. - Il mio disegno è formato-

E avvicinatasi ad uno stipo che era lì pressone tolse unapiccola ampolla di vetro e la librò in altodi rincontro alla fioca luce delvesperodavanti agli occhi di Arache stette mutosbigottito a guardarla.

- Da questo tenue involucro- proseguì Semiramide- nontraspare che un umile liquore verdastro. Ma la vitala pacel'allegrezzalamortetutto è qui dentrocome nel cuore umano s'accolgono i germi d’ognicontentezza e d’ogni pena eziandio. Ampolla preziosa! Essa è dono del vecchioSumàti. -

Ara chinò il capofremendo. Imperocchè egli aveva uditodal colloquio di Zerduste colla reginaquanto fosse colpevole l'Indiano.

- Ahnon parlare di lui! - gridò eglicon accento dirabbia.

- Perchèch’egli è morto pentito? - ripigliò la regina.- A medopo tanti immeritati doloriil vecchio della Triade ha lasciato unconforto. Tutta la mia regia possanza non avrebbe potuto procacciarmi questomaraviglioso liquorestillato da erbe d’arcana virtùnei silenzi d’unadotta vigilia. Meraviglioso inveroe ben degno della famosa sua patria! Unagoccia soltantostemperata nell’acqua purissimarinfranca gli spiritilanguenti; poche goccie dànno l’ebbrezza; un sorso intierola metà di quest’ampollaèla morte; morte soavelenta e sicura. Tu lo vedio malka d’Armenia; ionon son troppo da compiangere. Va dunquepoichè l’ora è già tardaed ogniistante è prezioso. Io t’ho amatoe non m’incresce di confessartelo: ti hoperdonato ogni cosa; non ho più odio nel cuore. Tu piangi e le tue lagrime micompensano di molte amarezze; va dunquee ti sovvenga di me nella vitacome iopenserò a te nella morte. -

Così parlò Semiramidecercando di allontanare il dolente.Oraella aveva a mala pena finito di parlareche un atto improvviso di Ara lacolpie un grido le ruppe dal pettogrido di stuporedi sgomento o di gioiainattesa.

Il re d’Armenia l’aveva ascoltata in silenziooraguardando leiora l'ampollache le stava tra mani. Pallidoansanteconfusopendeva dalle sue labbranon osando dir nulla per tentare di smuoverla dal suofiero proposito; ma ben si scorgeva al sembiante come fosse trambasciatoalpensiero di perderla. Ciò appunto aveva mossa a compassione la reginapersuadendole alcune più amorevoli parole di commiato; ed egli dal canto suo neaveva preso ardimento ad afferrarle un braccioaccostandosi con attosupplichevole a lei. Ma tostosenza ch’ella facesse più in tempo a ritrarrela manole aveva egli strappata l'ampolla e in un baleno l’aveva accostataalle labbratrangugiandone un sorso.

- Che hai tu fattodisgraziato? - gridò ellatendendo lepalme verso di lui.

- Nulla; ho bevuto la parte mia. Eccovediio non ti hotolto nulla del tuo. -

E le mostrò l’ampollaancora a mezzo ripiena; indisorridendola posò sullo stipo.

- Ahdissennato! - esclamò la reginacon accento ditenerezza ineffabile. - E tugiovinebello al pari d'un Diocon tantesperanze nella vita lontana....

- Senza te sarei morto; - interruppe egli sollecito; - è inte la mia speranzain te la mia vita. -

E cadde a’ suoi pieditremante d’amore. Ella gli pose lebraccia intorno al collo e rimase a lungo mutama accesapalpitanteappoggiata su luicon tutto il soave suo peso. L’astro notturnoche eraspuntato poc’anzi sull’orizzonterisplendeva tra i cespugli del giardinoela sua tacita lucepenetrando tra le colonne del loggiatoinondava que’ duevolti confusi.

Ad un tratto ella si sciolse da lui.

- Smemorata! - gridò. - Ed io?..

Balzò rapida in piedicorseafferrò l’ampollaeavidamente bevve ciò che restava del verdastro liquore.

- Come è dolce! - diss'ella posciatornando verso l'amato.- Come è dolcepoichè tu l'hai recato alle labbra! -

Il giovine innamorato la strinse tra le sue braccia.

- Eccoti bellaamica mia! - le diceva egliguardandola conocchi rapiti. - Eccoti bella tra tutte le donneo tucui l'anima mia ama! Tu m’haiinvolato il cuoreo sposa mia nella morte; tu m’hai involato il cuore colprimo de’ tuoi sguardi; nè piùda quella notte di celesti ebbrezzeio sonostato signore di me. Tu sei tutta bellaamica mianè cosa alcuna è in te chenon mi faccia riardere il sangue per febbre acuta d'amore. I tuoi baci sono piùdolci del liquor della palma: la fragranza che spira da tevince tutti gliaromi.

- Arao dilettosostienmi nelle tue braccia! Ohsei purbello! E avventurosa tra tutte le donne fu certamente colei che ti diede lavita! Ararivolgi gli occhi tuoiche non mi guardino fisoimperocchè essi mifaranno smarrir la ragione. Amico dell'anima miae come hai tu potutoallontanarti da me? Ohgrazie sian rese agli Dei; non ci separeremo mai più!Morire con te! Gioia che io non avrei più osato sperare! Sostienmio diletto!Sia la tua mano sinistra sotto al mio capo e abbraccimi la tua destra.

- Amica miasposa miale tue labbra stillano miele; il tuocollo vende più odoreche non le mandragole e i gigli. Dimentica ed ama;mettimi come un suggello in sul tuo cuore; come un suggello in sul tuo braccio;imperocchè l’amore è possente come la morte che invocata ci attende; lagelosia dura come l’infernoe le sue fiamme divorano. Io le ho nutrite alungo del mio sanguequi dentro; ma l’amor tuo è il più soave dei balsami.-

Così favellaronoconfusi in un palpitol'uno dell'altrobeatiimmemori d'ogni cosa creata. Gloriapotenzaambizionedolorimiseriesplendori e fumi della terrache siete voi per due anime amanti? Sulla vettainaccessa d’un montela fenice compone de’più odorosi rami il suo rogoelieta s'appresta a morire. Così eglinoin quel rapimento supremonell’altosilenzio d’una notte avventurosalunge dal volgo profanoavevano tempio erogo ed oblìo. Che era già più Babilonia per essicol suo popolo ribelle ecolle sue ire feroci? Che era l’impero degli Accade che tutti gli altridestinati a succedergligiù per la china dei secoli? Odiati dal mondoloricambiavano colla noncuranza e il disdegno; più forti delle sue colleresiperdevano in un'estasiche non aveva a conoscer dimani.

- Aradiletto miocome breve è la notte! I segni celestiascendono rapidi la volta del firmamento azzurrocome viandanti frettolosi chehanno veduta da lunge la meta.

- Fermati- esclamò Aratendendo al cielo le palme. -Fermatise mai udisti parola d’amore; rattienio Sinil veloce tuo corso esia questa notte eterna! O se ciò non è consentito alla nostra preghiera e tepure incalzano i fatiaccresci almeno la virtù dell'arcano liquore e rapiscile nostre vite coll'estremo tuo raggio! -

La brezza precorritrice dell’alba susurrava dolcemente fragli alberi. I giglile mandragole e i gelsomini spandevano odore. Ascose tra iramigemevano le colombe il flebile verso amoroso. Era un senso di voluttàinfuso per tutta la naturaun inno cantato su in alto alla gloria di Dio. Leire codardele ambizionii tradimentisi agitavano laggiùnella cittàsottopostail cui frastuono a mala pena si udivacome rombo di tempestalontana.

Dolcezza ineffabilebevuta a lunghi sorsi ed interi;ebbrezza che scalda le fibre e infonde per tutte le membra un amico sopore; qualvoce potrebbe ridirleo penna descriverle? Non si ritraggono a parole i soavierrorile fantasiele visionicon cuinel silenzio della sua cellaun’animainnamorata inganna le ore notturne e cede senz’avvedersene al sonnoche forsele proseguirà l'incantesimo.

Il raggio tremolante di Istar già impallidivasull'orizzontepoco lungi dallo smorto disco di Sin. Il cielo rapidamentesbiancavae con esso il volto dei due feliciche ancora si tenevanoabbracciatie cogli occhi smarritinuotanti nelle ombre di mortesiricercavano ancora.

Poco stantesorgeva glorioso il sole dai balzi lontani diElame uno stuolo di colombe fu visto levarsi dal colmo delle piantecheallegavano di bella verzura i pensili orti di Semiramide. Le candide volatricisi librarono sulla cittàvalicarono il fiume e disparvero ad occidente dietrole torri di Barsipa.

Il popolo di Babilonia argomentò che Dercetola gran Dea d’Ascalonaavesse mandate le sue colombe a campare da morte la sventurata sua figlia.

E inveronessuno più vide Semiramnè il biondo malka d’Armenia.Gli orti pensilile stanze della reginafrugate dal popolo ribellenonrecavano traccia di loro.

Forse Hurki avrebbe potuto chiarire l'arcano. Ma il fedeleeunuco era scomparso; e Falegil fedele soldatodel pari.

Zerdusteministro di Ninia per brevi giornire di Babiloniadopo l'arrivo delle soldatesche di Mediadubitò che i due amanti fossero statisepolti dalla pietà d'un fedel servitore in qualche segreta dell’immanerecinto. Ma la tombase così eracustodì gelosarnente i suoi ospiti.

 

F IN E.